Da anni, la cosmologia è alle prese con un enigma degno di un vero thriller scientifico: quanto velocemente si sta espandendo l’universo? Al centro del mistero c’è un numero cruciale, la costante di Hubble (H0), che dovrebbe dirci a che velocità lo spazio “si allarga” ogni milione di parsec — una distanza astronomica pari a circa 3,26 milioni di anni luce. Ma il problema è che questo numero, a seconda di come lo si misura, sembra cambiare. E questa discrepanza ha messo in discussione alcune delle certezze più solide sul nostro modello di universo.

Gli scienziati hanno effettuato nuovi calcoli sulla velocità di espansione dell’universo, utilizzando i dati raccolti dal James Webb Space Telescope su diverse galassie. In alto, l’immagine del Jwst di una di queste galassie, nota come Ngc 1365. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Janice Lee (NoirLab), Alyssa Pagan (Stsci)
Metodi basati sull’osservazione della radiazione cosmica di fondo (Cmb), misurata con grande precisione dalla missione europea Planck, e quelli che usano stelle e supernove nelle galassie vicine non riescono a concordare su un valore univoco. Questo scarto, chiamato “tensione di Hubble”, pone una sfida che potrebbe portare a una revisione profonda del modello cosmologico standard, il quadro teorico che descrive l’evoluzione e la composizione dell’universo, inclusa la materia oscura e l’energia oscura.
Oltre cinquecento ricercatori si sono riuniti nel consorzio CosmoVerse per produrre un white paper, un libro bianco che approfondisce le varie tensioni cosmologiche tra teoria e osservazione, del quale abbiamo già parlato qui su Media Inaf nell’aprile scorso in un’intervista a Eleonora Di Valentino, editor del white paper insieme a Jackson Levi Said. Al dibattito ha contribuito anche un team guidato da Joe Jensen, docente della Utah Valley University negli Stati Uniti e che vede coinvolti diversi ricercatori dell’Inaf. Sfruttando anche la potenza del telescopio spaziale James Webb (Jwst), il gruppo ha ottenuto un nuovo valore di H0 che confermerebbe la tensione esistente, alimentando il dibattito sulla possibile necessità di una nuova fisica oltre il modello cosmologico standard.

Michele Cantiello, primo ricercatore all’Osservatorio astronomico d’Abruzzo, co-autore dello studio insieme ad altri ricercatori Inaf. Crediti: Riccardo Bonuccelli
Per comprendere meglio le implicazioni di queste nuove misure, la natura del dibattito scientifico in corso e cosa potrebbe significare tutto questo per il nostro modo di intendere l’universo, abbiamo posto qualche domanda a Michele Cantiello dell’Inaf d’Abruzzo, tra gli autori della ricerca.
Da circa un secolo, grazie ai lavori di Lemaître ed Hubble, sappiamo che l’universo è in espansione. Ma cosa si intende concretamente e perché alcuni affermano che l’universo si sta espandendo più velocemente del previsto?
«Le galassie si stanno allontanando le une dalle altre come effetto dell’espansione dello spazio, e per spiegarlo basta pensare alla lievitazione del pane condito con l’uvetta: man mano che l’impasto (lo spazio) si espande, le uvette (le galassie) si allontanano le une dalle altre, non perché si muovono attraverso l’impasto, ma perché l’impasto stesso cresce.
Tuttavia, verso la fine degli anni ’90, due gruppi indipendenti di astronomi, utilizzando le osservazioni delle supernove di tipo Ia, generate dalle esplosioni di nane bianche, hanno fatto la stessa scoperta sorprendente: non solo l’universo si sta espandendo, ma questa espansione sta accelerando. Tornando all’esempio del pane all’uvetta, è come se il pane non solo stesse lievitando, ma lo facesse sempre più rapidamente con il passare del tempo. Questa scoperta – che nel 2011 è valsa il premio Nobel per la fisica agli astronomi Saul Perlmutter, Brian P. Schmidt e Adam Riess, alla guida dei due gruppi di ricerca – ha portato alla formulazione dell’ipotesi dell’energia oscura: una misteriosa componente dell’universo che agisce come una forza repulsiva su larga scala. Dire, quindi, che “l’universo si sta espandendo più velocemente del previsto” significa che, in contrasto ad esempio con l’idea che la gravità avrebbe dovuto rallentare l’espansione cosmica, l’universo sta invece accelerando la sua espansione. In altre parole, la velocità con cui le galassie si allontanano aumenta man mano che l’universo evolve».
Si nomina spesso la costante di Hubble: perché è così importante determinarla con precisione e come influenza la nostra comprensione del cosmo?
«La costante di Hubble, indicata con H0 (H-zero), misura il tasso di espansione dell’universo in un dato momento – in particolare nel tempo attuale t0, da cui lo “zero” nella notazione. Ci dice a quale velocità le galassie si allontanano tra loro in funzione della distanza: più una galassia è lontana, più rapidamente la vediamo allontanarsi da noi. Il valore di H0 quantifica esattamente questo rapporto e determinarlo con precisione è cruciale perché rappresenta una delle grandezze fondamentali dell’attuale Modello cosmologico standard – conosciuto come Lambda-Cdm, dall’inglese cold dark matter – con materia oscura fredda e costante cosmologica. In questo modello, l’universo è composto per circa il 73 per cento da energia oscura, per circa il 23 per cento da materia oscura, e solo per il 4 per cento circa dalla materia ordinaria che costituisce stelle, pianeti e galassie. Dunque, il valore di H0 influisce direttamente su molte grandezze cosmologiche, come l’età dell’universo, la sua dimensione, la velocità con cui si è evoluto e la sua dinamica futura. Una sua determinazione accurata è quindi essenziale per testare la coerenza del modello cosmologico e confrontare le previsioni teoriche con le osservazioni».
Negli ultimi anni, però, le misurazioni del tasso di espansione dell’universo hanno prodotto risultati discordanti, da cui la cosiddetta “tensione di Hubble”. Quali sono le principali differenze tra i metodi basati sulla radiazione cosmica di fondo e quelli che, per misurare le distanze cosmiche, usano come “candele standard” stelle e supernove nelle galassie vicine?
«Le misure della costante di Hubble basate sulle “candele standard” sfruttano la legge di Hubble e le distanze vengono stimate usando oggetti, ad esempio le supernove di tipo Ia, che hanno una luminosità intrinseca nota: confrontando questa con la luminosità apparente delle stelle si risale alla distanza della galassia. Queste misurazioni sono spesso chiamate dirette, o late-time, perché stimano H0 osservando l’universo relativamente vicino a noi, cioè in epoche cosmologiche recenti. Al contrario, il valore di H0 ottenuto dalla missione spaziale Planck non è una misura diretta, ma una stima indiretta (early-time) derivata dall’osservazione della radiazione cosmica di fondo (Cmb), cioè la luce fossile emessa circa 380mila anni dopo il Big Bang. In questo caso, il valore di H0 non è misurato, ma viene dedotto applicando il modello cosmologico standard: si parte dalle condizioni iniziali dell’universo misurate con altissima precisione da Planck, e si calcola quale dovrebbe essere oggi il tasso di espansione, assumendo che il modello sia corretto. In pratica, la differenza fondamentale è che metodi “locali” basati sulla misura diretta delle distanze con le candele standard e la legge di Hubble misurano il valore di H0 oggi; al contrario, i metodi “primordiali” come Planck determinano l’attuale H0 a partire dal passato, assumendo un modello cosmologico. Il fatto che questi due approcci portino a risultati discordanti – con una differenza superiore a quanto previsto dalle incertezze – è ciò che dà origine alla cosiddetta tensione di Hubble. E capire se questa discrepanza sia dovuta a errori sistematici o indichi una lacuna nella nostra comprensione dell’universo è una delle sfide più attuali e affascinanti della cosmologia moderna.

Illustrazione dell’accelerazione dell’espansione dell’universo. Crediti: Nasa’s Goddard Space Flight Center Conceptual Image Lab
Il vostro team ha adottato un metodo alternativo basato sulla tecnica della fluttuazione di brillanza superficiale (Sbf). In cosa consiste? E quali osservazioni ha richiesto?
«Uno dei maggiori problemi nelle stime della costante di Hubble basate sull’universo locale (late-time) è la propagazione delle incertezze quando si concatenano diversi indicatori di distanza (come le candele standard di cui sopra) per raggiungere distanze sufficientemente grandi da fornire una misura affidabile di H0. Il nostro team ha sviluppato un approccio alternativo, sfruttando dati combinati dei telescopi spaziali Hubble (Hst) e James Webb (Jwst), per collegare in modo diretto due indicatori di distanza molto precisi: il metodo della punta del ramo delle giganti rosse (tip of the red giant branch, Trgb) e il metodo della fluttuazione di brillanza superficiale (surface brightness fluctuations, Sbf) entrambi basati su popolazioni stellari simili, in particolare, sulle stelle del ramo delle giganti rosse (Rgb).
Il metodo Sbf si fonda su un’idea semplice ma potente: in alcune galassie – soprattutto quelle ellittiche – la luce osservata proviene principalmente da stelle vecchie e molto omogenee tra le galassie. Tuttavia, osservando una galassia in dettaglio, si notano piccole variazioni nella brillanza superficiale tra una regione e le altre adiacenti. Queste fluttuazioni statistiche sono dovute al fatto che in ciascun “pixel” dell’immagine c’è un numero finito di stelle che può variare rispetto ai pixel vicini. Questo provoca una naturale variazione nella luce emessa da un pixel all’altro; man mano che la galassia si trova più lontano, queste differenze diventano meno evidenti, ma possono comunque essere misurate e usate come un indicatore diretto per calcolare la distanza della galassia. Può sembrare un metodo “cervellotico”, ma il metodo Sbf è uno degli strumenti più affidabili per misurare distanze di galassie ellittiche comprese tra pochi e diverse centinaia di milioni di anni luce, con un’incertezza tipica inferiore al 5 per cento. Un’avvertenza: per ottenere misure precise, è essenziale selezionare galassie in cui la luce sia dominata da popolazioni stellari vecchie, senza contaminazioni significative da polvere, gas o regioni di formazione stellare attiva. Per questo motivo, il metodo Sbf è particolarmente efficace nelle galassie ellittiche, che presentano strutture regolari e prive di distorsioni dovute a interazioni recenti. Sebbene possa essere applicato anche ad altri tipi morfologici, è proprio nelle ellittiche che raggiunge la massima precisione».
E il metodo della “punta del ramo delle giganti rosse” cos’è? E come contribuisce a rendere le misure della distanza ancora più affidabili?
«Il metodo Trgb gioca un ruolo chiave nel nostro progetto perché è un indicatore di distanza particolarmente affidabile, basato su un fenomeno astrofisico molto conosciuto e in una fase precisa dell’evoluzione stellare. Quando una stella di piccola massa – come il nostro Sole, o anche meno massiccia – esaurisce l’idrogeno nel nucleo, sale lungo il ramo delle giganti rosse nel diagramma colore-magnitudine, diventando progressivamente più luminosa. A un certo punto, la temperatura e la densità centrali diventano sufficienti a innescare l’accensione dell’elio in un evento noto come helium flash, una sorta di reazione termica incontrollata. La stella abbandona così il ramo delle giganti rosse e passa rapidamente alla fase successiva, più stabile, sul cosiddetto ramo orizzontale (horizontal branch). Questa transizione avviene non solo in modo estremamente rapido – rispetto ai tempi evolutivi astronomici, naturalmente – ma sempre a una luminosità assoluta relativamente costante. Il risultato è un “gradino” netto, facilmente riconoscibile, nel diagramma colore-magnitudine di una popolazione stellare. Questo gradino è proprio la “punta” del ramo delle giganti rosse Trgb. Una volta che conosciamo quanto è luminosa realmente questa fase (la luminosità “vera” della stella), possiamo confrontarla con quanto appare luminosa nelle nostre osservazioni. Da questa differenza riusciamo a capire quanto è lontana la galassia. Uno dei grandi vantaggi del metodo Trgb è che la sua calibrazione può essere fatta direttamente, usando metodi geometrici, senza dover dipendere da altre candele standard come le stelle cefeidi o le supernove. Nel nostro caso, abbiamo usato una calibrazione molto affidabile basata sulla galassia Ngc 4258 di cui abbiamo determinato la distanza precisa».

Diagramma Hertzsprung-Russell. Le stelle di piccola massa, come il Sole, trascorrono la maggior parte della loro vita nella sequenza principale (MS), dove fondono idrogeno in elio nel nucleo. Una volta esaurito il combustibile, salgono lungo il ramo delle giganti rosse (RGB), diventando più luminose. Alla “punta” di questo ramo (TRGB), si innesca l’accensione dell’elio nel nucleo: un evento rapido e violento noto come helium flash, che porta la stella sul ramo orizzontale (HB), dove brucia elio in modo più stabile. Questo percorso lascia tracce ben visibili nel diagramma colore-magnitudine, fondamentali per studiare l’evoluzione stellare e misurare le distanze cosmiche. Crediti: whitby-astronomers.com
Avete trovato un valore della costante di Hubble pari a 73,8 km/s/Mpc. Come si confronta con i risultati di altri gruppi e con le previsioni del modello cosmologico basato su Planck? Quali sono le conseguenze di questa differenza?
«La nostra è una stima pienamente compatibile con quella di Shoes, il team guidato da Adam Riess, che ha ottenuto un valore simile ma con un’incertezza più contenuta (73,0 ± 1,0 km/s/Mpc). Rispetto alla previsione del modello standard basata sui dati Planck (H0 = 67,4 ± 0,5 km/s/Mpc), il nostro valore risulta decisamente più alto. Un punto importante è che due metodi indipendenti — il nostro, basato su Trgb+Sbf, e quello di Reiss, che usa cefeidi e supernove — arrivano a risultati simili. Questo rafforza l’idea che il valore locale di H0 sia davvero più alto rispetto a quello previsto dalle osservazioni del cosmo primordiale, e rende meno probabile che questa differenza sia solo dovuta a errori sistematici non corretti».
Quindi si potrebbe escludere che la tensione di Hubble sia dovuta a errori nelle misure osservative?
«In effetti, questo è un punto cruciale. Per misurare il valore di H0 nell’universo locale, si usano diversi indicatori di distanza concatenati tra loro: si parte da metodi geometrici, si calibra una candela standard intermedia, e infine si arriva a metodi che misurano distanze molto grandi. Questo procedimento a “catena” porta inevitabilmente a un aumento delle incertezze, che influisce sulla precisione finale di H0: da una parte abbiamo il valore early-time stimato da Planck, molto preciso e basato sul modello standard; dall’altra, i valori late-time misurati localmente, che risultano più alti, ma anche soggetti a possibili errori sistematici. La differenza tra queste misure genera, appunto, la cosiddetta “tensione di Hubble”, che non deriva solo dai valori in sé, ma soprattutto dalla precisione con cui si pensa di conoscerli. È possibile che questa tensione dipenda da una sottostima degli errori sistematici, da una parte o dall’altra. Inoltre, altri gruppi di ricerca, hanno trovato valori intermedi che sembrano ridurre la tensione, ma questo è ancora oggetto di dibattito. Il nostro lavoro utilizza un approccio completamente differente, che usa popolazioni stellari simili e una metodologia indipendente, garantendo così un controllo autonomo degli errori sistematici. Il fatto che i nostri risultati confermino quelli di Shoes suggerisce che la differenza non è solo un errore, ma qualcosa di reale. Potrebbe indicare l’esistenza di una nuova fisica tutta da scoprire».
I dati ottenuti dal telescopio spaziale James Webb sembrano giocare un ruolo cruciale nella vostra analisi. In che modo Jwst ha migliorato le vostre capacità di misurazione rispetto a Hubble? Quali sono le principali sfide tecniche o osservative che il vostro team ha incontrato?
«Il nostro studio si basa su una catena di misure, per capire quanto brillano davvero (cioè, in termini assoluti) le stelle che si trovano sulla punta del ramo delle giganti rosse (Trgb). Per farlo, abbiamo usato una galassia speciale, Ngc 4258, la cui distanza è nota con grande precisione grazie a osservazioni radio di nubi di gas che ruotano attorno al suo buco nero centrale. Una volta fissata questa “luminosità di riferimento”, abbiamo usato il telescopio spaziale James Webb per osservare la luminosità apparente delle stelle in un gruppo di galassie relativamente vicine (entro 60 milioni di anni luce). Grazie alla risoluzione e alla sensibilità eccezionali dello strumento NirCam nel vicino infrarosso, Jwst ci ha fornito dati molto più dettagliati rispetto a quelli possibili con Hubble, soprattutto in regioni molto dense e affollate. Per queste stesse galassie avevamo già misurato le fluttuazioni di brillanza superficiale (Sbf), usando Hubble. Confrontando i due metodi, abbiamo potuto calibrare le Sbf in modo indipendente e molto preciso. A questo punto abbiamo applicato la nuova calibrazione a un campione di circa 60 galassie più lontane (fino a oltre 300 milioni di anni luce), e da lì abbiamo ricavato il valore della costante di Hubble: la misura dell’espansione dell’universo. Il contributo di Jwst è stato fondamentale: ci ha permesso di misurare la luminosità delle stelle con una precisione mai raggiunta prima, ponendo le basi per l’intera scala di distanze del nostro progetto. Il prossimo obiettivo è spingere ancora oltre la calibrazione, utilizzando solo dati Jwst: ciò renderà il campione di stelle completamente omogeneo e aumenterà ulteriormente l’affidabilità del metodo, riducendo le incertezze nelle stime della distanza e quindi del valore di H0.
Il vostro lavoro, dunque, sembra confermare la “tensione di Hubble”, un vero e proprio enigma della cosmologia moderna. Questa discrepanza indica che il modello attuale dell’universo è incompleto? È un’anomalia da risolvere?
«La risposta a questa domanda è al centro di un ampio dibattito che coinvolge l’intera comunità di cosmologi. Nel nostro caso, il compito che ci siamo dati è quello di fornire misure di distanze e, quindi, H0 affidabili, robuste e indipendenti. Questo significa verificare con attenzione la qualità dei dati, stimare correttamente le incertezze e, se possibile, sviluppare nuove strategie osservative che permettano misure con approcci alternativi. È proprio ciò che abbiamo cercato di fare nel nostro lavoro, e più in generale intendiamo portare avanti con il programma Trgb–Sbf basato su Jwst.
Detto questo, è indubbio che la tensione di Hubble abbia stimolato un’enorme varietà di proposte teoriche, molte delle quali prevedono modifiche più o meno radicali al modello cosmologico standard. Tra le numerosissime ipotesi avanzate quelle che hanno catturato la mia attenzione – non necessariamente perché più credibili di altre – sono l’esistenza di una forma di energia oscura dinamica, l’introduzione di una componente di radiazione oscura (tramite un neutrino “sterile”), una possibile rotazione globale dell’universo o la nostra collocazione all’interno di una regione sotto-densa (un “supervuoto”), che potrebbe alterare la misura apparente dell’espansione. Naturalmente, ogni possibile estensione o revisione del modello cosmologico attuale deve confrontarsi con l’esistenza di un’enorme quantità di dati osservativi di alta qualità. Non basta risolvere la tensione di H0: una nuova teoria deve anche risultare coerente con tutti gli altri vincoli ben noti, dalla nucleosintesi primordiale alla formazione delle strutture, dalle lenti gravitazionali all’evoluzione delle galassie. Il modello cosmologico standard Lambda-Cdm resta, almeno per ora, estremamente efficace nel descrivere l’universo su larga scala. Tuttavia, se la tensione di Hubble dovesse confermarsi con ulteriori misure indipendenti, coerenti e sempre più precise, rappresenterebbe un indizio forte che qualcosa di fondamentale ci sta ancora sfuggendo. In quel caso, potremmo trovarci davvero alle soglie di una nuova fase nella nostra comprensione dell’universo».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “The TRGB−SBF Project. III. Rening the HST Surface Brightness Fluctuation Distance Scale Calibration with JWST” di Joseph B. Jensen, John P. Blakeslee, Michele Cantiello, Mikaela Cowles, Gagandeep S. Anand, R. Brent Tully, Ehsan Kourkchi e Gabriella Raimondo.
- Leggi su Physics World l’approfondimento “Cosmic conflict continues: new data fuel the Hubble tension debate“
Sulla costante di Hubble guarda il video della serie Alfabeto cosmico su MediaInaf Tv:






