L’ATTESISSIMO OSSERVATORIO SARÀ LANCIATO IN AUTUNNO

Sognando galassie in attesa di Jwst

Prima o poi arriva per tutte le missioni spaziali. E così l’anno del lancio, che per lungo tempo è parso quanto mai lontano, è arrivato anche per il James Webb Space Telescope, alle prese con gli ultimi test a terra e con la selezione di proposte per le osservazioni da parte della comunità astronomica. Per un aggiornamento sul progetto, Media Inaf ha intervistato Camilla Pacifici, instrument scientist dello strumento canadese Niriss a bordo del complesso osservatorio

     29/01/2021

Il James Webb Space Telescope con lo schermo solare completamente dispiegato – la stessa configurazione che avrà nello spazio dopo il lancio e la “coreografia” di apertura di tutte le diverse componenti. Questo test è stato completato alla fine del 2020 presso lo stabilimento della Northrop Grumman a Redondo Beach, in California. Crediti: Nasa/Chris Gunn

Volgono al termine i preparativi per uno dei progetti più attesi della storia dell’era spaziale: il James Webb Space Telescope (Jwst), una ambiziosa e costosissima collaborazione tra la Nasa, l’Esa e l’Agenzia spaziale canadese. Tutto sembra finalmente pronto per il lancio, in programma il prossimo 31 ottobre dal Centro spaziale guyanese di Kourou, in Guyana Francese.

In una virtual town hall tenutasi online il 14 gennaio durante il 237esimo meeting dell’American Astronomical Society (Aas), Eric P. Smith, program director di Jwst presso il quartier generale della Nasa a Washington, ha illustrato lo stato del progetto. Completata con successo la campagna finale di test ambientali, sono attualmente in corso le procedure di dispiegamento (deployment in inglese) per verificare che, dopo i test, continui a funzionare come previsto il complesso sistema che permetterà, una volta nello spazio, di aprire l’enorme schermo solare e lo specchio primario pieghevole formato da 18 tasselli e dal diametro totale pari a 6,5 metri.

Quando la comunità astronomica statunitense si riunirà di nuovo per il prossimo meeting della Aas, in programma per la prima metà di giugno in Alaska, si prevede che tutte queste operazioni saranno terminate, e la struttura dell’osservatorio sarà stata gradualmente ripiegata in attesa del viaggio che, dagli stabilimenti della Northrop Grumman in California, lo porterà in Sud America. Tornerà nella configurazione in cui si trova al momento – con lo schermo solare completamente aperto – solo una volta nello spazio, superata l’orbita lunare: in quella fase, ha aggiunto Smith, si stima che Jwst sarà visibile dalla Terra con una luminosità di 17 magnitudini, per chi volesse provare a osservarlo.

E se la parte ingegneristica del progetto sta per concludersi, l’attività scientifica è in pieno fermento. Per averne un assaggio, abbiamo raggiunto negli Stati Uniti, dove lavora, l’astrofisica italiana Camilla Pacifici, instrument scientist per l’Agenzia spaziale canadese del Near-Infrared Imager and Slitless Spectrograph, uno dei quattro strumenti a bordo di Jwst. Laurea triennale e magistrale all’Università Milano-Bicocca, dottorato alla Sorbonne Université di Parigi, Pacifici è stata ricercatrice post-doc a Heidelberg e Seoul, poi Nasa post-doctoral fellow al Goddard Space Flight Center di Greenbelt, nel Maryland, prima di assumere la sua posizione attuale presso lo Space Telescope Science Institute (Stsci) di Baltimora.

Camilla Pacifici al Goddard Space Flight Center della Nasa durante il suo post-doc, nel 2016. Sullo sfondo, l’enorme specchio di Jwst. Crediti: C. Pacifici

Dottoressa Pacifici, ci racconta il suo ruolo nell’ambito del progetto Jwst?

«Sono a Stsci dal 2015, e dal 2018 sono instrument scientist per uno degli strumenti sul Webb, Niriss, il Near-Infrared Imager and Slitless Spectrograph. Lavoro per l’Agenzia spaziale canadese, quindi sono contractor qui per il Canada. Da un anno e mezzo, quasi due, sono anche coinvolta nello sviluppo degli strumenti di analisi dati per Jwst».

Bisogna essere canadesi per rivestire questo ruolo?

«No, la posizione è aperta a chiunque, ed è specifica per lavorare a Stsci».

Ci può spiegare brevemente cos’è Niriss e cosa farà?

«Niriss è uno strumento sviluppato dall’Agenzia spaziale canadese e permette osservazioni di fotometria, di spettroscopia senza slit e di interferometria ad alto contrasto. La modalità interferometrica permetterà di estendere la scoperta e analisi di pianeti extrasolari. La modalità di spettroscopia senza slit invece permette di ottenere spettri per tutte le sorgenti nel campo visivo così da aumentare la possibilità di scoprire oggetti nuovi e inattesi».

Oltre al lavoro sullo strumento, di cosa si occupa nella sua ricerca?

«Il mio contratto prevede il 30 per cento del tempo di scienza. Io studio galassie a tutti i redshift [il redshift è lo spostamento verso il rosso della luce di una galassia causato dall’espansione dell’universo e ci dà una misura della distanza dalla galassia e di quanto indietro stiamo guardando nel tempo: più alto il redshift, più indietro stiamo guardando – ndr] perché sono molto interessata alla loro formazione, alla storia della formazione stellare e alla formazione dei “metalli” [in astronomia, tutti gli elementi più pesanti di idrogeno e elio vengono chiamati metalli – ndr]. Sono interessata a qualsiasi tipo di osservazione, sia fotometrico che spettroscopico, quindi quando arriveranno i dati spero di avere un po’ di tempo per giocarci!».

Quali domande scientifiche desidera affrontare con i dati di Jwst?

«Già trovarle, le galassie, a questi redshift così alti è una sfida. Adesso abbiamo uno, due, massimo tre punti a redshift 10 [quando l’universo aveva circa mezzo miliardo di anni; oggi ne ha 13,8 miliardi – ndr]. In teoria Webb può vedere oltre quello. Quindi già vedere se ci sono dà informazioni su come si formano all’inizio, se sono proto-galassie e come crescono: quanti merger ci sono a quell’epoca, come sono distribuite sui filamenti della struttura su grande scala dell’universo. Innanzitutto vederle queste prime galassie, davvero, perché non sappiamo neanche se ci sono. Un po’ come è successo con il telescopio spaziale Hubble. Quando Hubble è partito, non si pensava di poter osservare galassie a redshift maggiore di 1 [quando l’universo aveva meno di 5 miliardi di anni – ndr], e poi siamo arrivati a redshift 10 con Hubble. Quindi vorrei proprio vedere cosa c’è oltre, quanto si riesce a vedere, e le proprietà di queste galassie, perché non abbiamo idea di come funziona la formazione stellare a questi redshift così alti.

Una cosa che mi interessa moltissimo poi è la polvere, nelle galassie. Tornando a redshift più bassi, però in quelle lunghezze d’onda in cui Hubble non poteva vedere e dove domina la polvere, quello sarà molto interessante. Perché è sempre un problema, quando c’è, la polvere, per analizzare le galassie».

Come procede Jwst?

«Sta procedendo bene. Dopo gli ultimi ritardi nel lancio [l’ultimo annunciato lo scorso luglio – ndr] pare che quest’ultima data decisa sia quella giusta. Tutti i ritardi finora sono stati dovuti a test che sono stati fatti e rifatti, e fatti ancora una volta per essere sicuri che tutto funzioni. Gli ultimi test procedono secondo i piani, tutto sembra andare per il meglio. Poi dovrà essere portato alla base spaziale per il lancio e sarà un bel viaggio: andrà in nave, deve passare per lo stretto di Panama per poi raggiungere la Guyana Francese».

La distribuzione nazionale dei principal investigators (Pis) che hanno presentato una proposta per il programma Jwst Cycle 1 General Observers, presentata da Christine Chen, Brett Blacker e Neill Reid durante il 237esimo meeting Aas. Fonte: www.stsci.edu

Recentemente si è chiusa la prima Call for proposals per le osservazioni del programma General Observers, attraverso il quale astronome e astronomi di tutto il mondo possono fare richiesta di usare l’ambito osservatorio per la loro ricerca. Com’è andata e quando si sapranno i risultati?

«I risultati si dovrebbero sapere intorno a marzo. Mi sembra che la distribuzione dei proposal nel mondo sia piuttosto paragonabile a quella di Hubble, e l’Europa ha sempre una buona proporzione di proposal, anche l’Italia spesso».

Le richieste hanno superato di 5 volte la quantità di tempo a disposizione, il che è tipico di molti grandi osservatori, specie nello spazio. Il rapporto non è però altrettanto alto come nel caso di Hubble, per il quale si ricevono richieste fino a 10 volte superiori rispetto al tempo disponibile. Quale può essere il motivo secondo lei?

«È un po’ più complesso scrivere un proposal per Webb, perché bisogna fare nello stesso momento sia la proposta scientifica che il calcolo tecnico di quanto tempo occorre e quando osservare – in gergo, bisogna fare insieme la Phase 1 e la Phase 2 – quindi è un pochino più complesso. Forse questo ha fatto in modo che la comunità si mettesse in gruppi un po’ più grandi ma presentando meno proposal. Penso che la quantità di persone coinvolte sia paragonabile a Hubble, se non di più, ma il numero di proposal è un po’ inferiore. Probabilmente ci sono gruppi più grandi dietro ai vari proposal, ma questa è un’ipotesi mia».

Qual è lo stato della comunità astronomica, ora che il lancio si avvicina?

«La comunità è molto in attesa. C’è tanta attesa sia per vedere i primi dati di Webb che per prepararsi a ricevere questi dati. Stsci aveva organizzato delle “master class” un paio di anni fa in cui erano state istruite persone che poi sarebbero andate a loro volta nei rispettivi istituti a istruire la comunità. Questo era un po’ di tempo fa e il focus era soprattutto su come scrivere i proposal, quindi sul ‘prima’. Adesso invece ci stiamo concentrando sul ‘dopo’.

Stiamo organizzando dei seminari chiamati “JWebbinars” nei quali prepariamo la comunità a quello che otterranno, sia nel caso in cui avranno presentato dei proposal e questi saranno accettati, quindi riceveranno dei dati propri, ma anche nel caso vogliano usare dati di archivio. Per esempio, i dati della Early Release Science, che sono le prime osservazioni di Webb, saranno pubblici da subito, quindi tutta la comunità può andare a lavorare su quelli. Anche alcuni dati delle Guaranteed Time Observations saranno disponibili da subito».

Come procede il lavoro di un instrument scientist in attesa del lancio?

«Una parte del lavoro dell’instrument scientist è in preparazione al commissioning, ovvero i primi sei mesi del telescopio in cui bisogna accendere tutto e controllare che tutto funzioni. Ci sono delle osservazioni che sono state stabilite, valutiamo se queste osservazioni sono adeguate, decidiamo se vanno cambiate – questo in realtà l’abbiamo fatto in passato, ormai sono state definite. Adesso ci si prepara per il commissioning, per quando arriveranno questi dati, ci prepariamo ad analizzarli e controllare che tutto vada bene, se bisogna sistemare il software di calibrazione per esempio.

Il Fine Guidance Sensor (Fgs) e il Near-Infrared Imager and Slitless Spectrograph (Niriss), entrambi forniti dal Canada, al Goddard Space Flight Center nel 2012, prima di essere integrati nell’osservatorio. Crediti: Nasa/Chris Gunn

Uno dei miei ruoli è lavorare a uno dei programmi del commissioning, in cui si misurerà la calibrazione nelle lunghezze d’onda dello spettrografo di Niriss. Quindi devo scrivere codici e simulare dati così che quando arriveranno i dati veri avrò tutto pronto. Non sono solo io ovviamente, siamo un gruppo, perché c’è il backup del backup, per essere sicuri. Nel gruppo di Niriss qui a Stsci siamo una decina, è uno strumento un po’ più piccolo rispetto agli altri, poi però c’è anche tutto il gruppo in Canada perché è uno strumento canadese. Quindi come instrument scientist di Niriss mi occupo del commissioning. Poi ho in parallelo il lavoro dei JWebbinars e degli strumenti di analisi dati».

Dove sarà per il lancio?

«Sarò qui a Baltimora. Non si sa ancora come sarà il lavoro con l’evolversi della pandemia, se da casa o in istituto, ma dovendomi occupare del commissioning sarò qui in zona».

Qual è la cosa che lei aspetta con maggior curiosità?

«Innanzitutto sarà interessante il commissioning: sarà il mio primo commissioning di un telescopio, quindi quello mi esalta abbastanza. Per quanto riguarda il dopo, sicuramente le prime immagini: vedere quanto sono diverse da quello a cui siamo abituati. Il meglio che abbiamo dallo spazio adesso è Hubble – parlo in termini di galassie, perché quella è la mia specialità in scienza. Quanto saranno diverse le immagini di Webb rispetto a quelle di Hubble? La risoluzione per esempio sarà molto più alta, tutti i dettagli che si potranno vedere, e poi più lontano nel tempo, quindi le primissime galassie. Quello lo attendo molto».

Per la sua ricerca, userà dati soltanto di Niriss o anche di altri strumenti?

«Spero di usare anche gli altri, per quanto possibile. Faccio parte del Guaranteed Time Observations sia di Niriss che Nirspec [Near Infrared Spectrograph, un altro degli strumenti a bordo di Jwst, fornito dall’Esa – ndr]. Soprattutto per Nirspec ho lavorato in passato ai programmi dell’Integral field unit, o Ifu [l’unità a campo integrale, un tipo di hardware che consente di ottenere spettri ad altissima risoluzione delle singole galassie all’interno del campo osservato – ndr]. Quindi anche lì si potranno vedere galassie a redshift 3, 4, 5 [quando l’universo aveva rispettivamente 2, 1,5 e 1 miliardi di anni – ndr] con il dettaglio di una Ifu, dove per ogni pixel c’è uno spettro: sarà tanta, tanta l’informazione che si potrà derivare dai dati Ifu di Jwst».

Qual è la sfida più grande in questo momento?

«Stare calmi! Scherzi a parte, non saprei dire in realtà. Sono tanti i pezzi che devono essere messi insieme, ma ci sono stati anche tantissimi test, tantissime persone coinvolte. Anche se i passi sono tanti, non c’è un single point of failure, stiamo tutti lavorando per fare in modo che il lancio e quello che seguirà avvengano nel modo più liscio possibile».