SCOPERTE GRAZIE A LBT

Le galassie che resero limpido l’Universo

Scoperte da un team internazionale di ricercatori, molti dei quali dell'INAF, due remotissime galassie, le sorgenti più deboli mai osservate entro il primo miliardo d’anni dall’origine dell’Universo. Eros Vanzella (INAF): 'sfruttando l'effetto della lente gravitazionale e le potenzialità del Large Binocular Telescope possiamo osservare una porzione di Universo lontanissima e quasi completamente inesplorata'.

     07/02/2014
L'ammasso di galassie MACS0717 ripreso dal telescopio spaziale Hubble in cui sono indicati dai due cerchietti in arancione le galassie individuate da LBT, meglio visibili nei rispettivi riquadri. Crediti: CLASH Team / Space Telescope Science Institute

L’ammasso di galassie MACS0717 ripreso dal telescopio spaziale Hubble. I due cerchietti in arancione indicano le galassie individuate da LBT, meglio visibili nei rispettivi riquadri. Crediti: CLASH Team / Space Telescope Science Institute / Vanzella et al.

Come si fa a cercare le più remote galassie dell’universo? Con un grande telescopio, ovvio. Ma se queste sono così lontane e deboli anche per i più potenti strumenti oggi in circolazione? Allora ci vogliono due telescopi. Il secondo però non si trova sulla Terra, non è fatto di vetro e specchi ma da tanta, tantissima materia, addirittura anche oscura. Sì, un super ammasso di galassie è quello che ci serve per riuscire a deviare e concentrare la debole luce di galassie distantissime che si trovano esattamente allineate tra noi e la fortuita lente gravitazionale, sfruttando le predizioni della Teoria della Relatività Generale formulata da Albert Einstein. La tecnica, ormai ben collaudata, è stata utilizzata con successo da un team internazionale di ricercatori, molti dei quali italiani e dell’INAF, per scovare e ‘certificare’ grazie alle indagini spettroscopiche due galassie debolissime e antichissime, scorte quando l’Universo aveva ‘appena’ 880 milioni di anni, ovvero il 6 per cento della sua età attuale, stimata in circa 13,6 miliardi di anni.

Gli astronomi hanno sfruttato la potenza e la tecnologia del Large Binocular Telescope accoppiata alla sterminata lente gravitazionale denominata, in breve, MACS J0717: un ammasso di galassie che si stima contenga una massa paragonabile a quella di un milione di miliardi di volte quella del nostro Sole e lontano circa 5,4 miliardi di anni luce da noi, in direzione della costellazione dell’auriga. Ad oggi MACS J0717 è il più grande ammasso galattico conosciuto e per questo è uno degli oggetti celesti più studiati e che ha già dato molte soddisfazioni agli astrofisici di tutto il mondo: ad esempio, a fine 2012 grazie alle osservazioni del telescopio spaziale Hubble, è stato identificato al suo interno un gigantesco filamento di materia oscura mentre qualche mese fa è stato misurato un particolare caso di effetto Sunyaev-Zeldovich, ovvero di interazione tra materia e radiazione cosmica di fondo.

Ora dunque MACS0717 torna alla ribalta per aver dato quell’aiutino necessario per amplificare e rendere quindi identificabile la luce di due galassie (o forse una sola che la lente gravitazionale avrebbe raddoppiato) poste dietro di esso e molto più distanti, che diventano così le sorgenti più deboli mai osservate entro il primo miliardo d’anni dall’origine dell’Universo. E la loro distanza è stata certificata proprio grazie alle accurate misure realizzate dal telescopio LBT equipaggiato con lo spettrografo MODS1.

Il fenomeno della lente gravitazionale che ha permesso di individuare al Large Binocular Telescope le galassie distanti. Crediti: ESA/ NASA/ Eros Vanzella

“Questi oggetti celesti sono estremamente deboli e oggi inaccessibili con gli attuali telescopi, anche i più potenti che con il loro specchio principale arrivano fino a 10 metri di diametro. Per spingerci oltre i loro limiti sfruttiamo l’effetto di lente gravitazionale, proprio come è avvenuto per la nostra scoperta” racconta Eros Vanzella, dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Bologna, che ha guidato il gruppo di ricercatori. “Questo metodo ci permette di affacciarci in una porzione dell’Universo lontanissima e quasi completamente inesplorata”.

Ma il lavoro del team, che è in corso di pubblicazione sulla rivista The Astrophysical Journal Letters non si è limitato solo a questo. Confrontando i dati raccolti con quelli prodotti dalle osservazioni nell’infrarosso della WFC3 a bordo di Hubble, i ricercatori hanno scoperto interessanti proprietà delle due galassie. Intanto  che sono molto più piccole della nostra Via Lattea, possedendo appena un millesimo delle sue stelle.

“In più queste stelle, seppur l’incertezza nei dati non ci consente ancora di dare un’interpretazione definitiva, sembrano essere in gran parte  molto giovani, molto povere di elementi chimici più pesanti dell’elio e all’interno di un ambiente assai primordiale” prosegue Vanzella. “Questo vuol dire che il contenuto di polvere in quegli oggetti è praticamente nullo e quindi buona parte della radiazione emessa, soprattutto quella ultravioletta, è potuta fuoriuscire da esse. E questo le rende secondo noi i migliori candidati tra le sorgenti primordiali responsabili della reionizzazione dell’Universo avvenuta entro il primo miliardo di anni dopo il Big Bang. Un fenomeno grazie al quale l’Universo è diventato ‘trasparente’ alla radiazione elettromagnetica ultravioletta di stelle e galassie che oggi captiamo con i nostri strumenti”.

 

Nel team internazionale che ha condotto la scoperta, oltre a Eros Vanzella hanno partecipato anche i ricercatori INAF Adriano Fontana, Andrea Grazian, Marco Castellano, Laura Pentericci, Emanuele Giallongo, Roberto Speziali dell’Osservatorio Astronomico di Roma, Felice Cusano dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Bologna, Stefano Cristiani e Mario Nonino dell’Osservatorio Astronomico di Trieste e Piero Rosati, dell’Università di Ferrara e associato INAF.

 

 

Per saperne di più:

l’articolo Characterizing faint galaxies in the reionization epoch: LBT confirms two L<0.2L* sources at z=6.4 behind the CLASH/Frontier Fields cluster MACS0717.5+3745 di Eros Vanzella et al. in corso di pubblicazione sulla rivista The Astrophysical Journal Letters