LA STELLA DI NEUTRONI È SOPRAVVISSUTA ALMENO UN GIORNO

Quel breve Grb porta la firma d’una protomagnetar

Un lampo di raggi gamma “corto” osservato il 18 giugno del 2018 – Grb 180618A – potrebbe costringere gli astrofisici a ripensare il processo di produzione di Grb a seguito della fusione fra coppie di stelle di neutroni. Non sarebbe infatti necessario il collasso finale in un buco nero per spiegare l’energia emessa: può essere sufficiente la formazione di una nuova stella di neutroni

     16/11/2022

Rappresentazione artistica di un lampo di raggi gamma alimentato da una stella di neutroni. Crediti: Nuria Jordana-Mitjans

La notte del 18 giugno del 2018 un lampo illuminò per qualche istante il cielo alle alte energie. Era un cosiddetto lampo di raggi gamma. Un Grb, dall’inglese gamma-ray burst. Per l’esattezza, un Grb corto, dove “corto” indica una durata tipicamente inferiore ai due secondi. Un tipo di emissione che si ritiene abbia origine dalla fusione di due stelle di neutroni. Era corto, per esempio, il Grb osservato a seguito del merging della coppia di stelle di neutroni che produsse l’evento gravitazionale dell’estate di cinque anni fa, Gw 170817, quello che inaugurò l’astronomia multimessaggera. Ma questo del 2018, nome in codice Grb 180618A (il primo ‘18’ sta per l’anno, il ‘6’ per il mese e il secondo ‘18’ per il giorno, mentre la lettera ‘A’ indica che è stato il primo di quella giornata), aveva qualcosa di insolito. Qualcosa che potrebbe aiutare a rispondere a una domanda che gli astronomi si pongono da tempo: quale oggetto può mai esserci all’origine di questi brevissimi quanto potenti lampi gamma che seguono un merging fra stelle di neutroni? Detto altrimenti: cosa resta dell’unione di due stelle di neutroni?

I casi sono due: quel che resta è un buco nero o una nuova stella di neutroni. Fino a oggi gli scienziati sono stati abbastanza concordi nel ritenere che, per produrre un Grb corto, il “motore” debba essere un buco nero di nuova formazione. Quella che racconta Grb 180618A è però una storia diversa. «Per la prima volta», dice Nuria Jordana-Mitjans della University of Bath (Regno Unito), prima autrice dello studio che riporta, su The Astrophysical Journal, l’analisi completa del Grb, «le nostre osservazioni evidenziano segnali multipli da una stella di neutroni sopravvissuta almeno per un giorno alla morte della stella di neutroni binaria originale».

«Mentre il famoso evento di onde gravitazionale del 17 agosto 2017 associato a Grb 180817A ci aveva mostrato che i Grb corti erano dovuti allo scontro di due stelle di neutroni», aggiunge uno dei coautori, Andrea Rossi, dell’Istituto nazionale di astrofisica, «in questo caso i dati ottici ottenuti pochi minuti dopo Grb 180618A ci mostrano per la prima volta che ciò che rimane dopo il merger – che ha prodotto il Grb corto – è una stella di neutroni che non collassa immediatamente in un buco nero come si credeva prima».

Insomma, anche se non viene prodotto un buco nero è comunque possibile che, a seguito della fusione di due stelle di neutroni, venga emesso un Grb corto. E il “motore”, in questo caso, sarebbe una “semplice” stella di neutroni, quella risultante dalla fusione.

Ma come lo hanno capito, i ricercatori guidati da Jordana-Mitjans – un team del quale fanno parte anche Cristiano Guidorzi dell’Università di Ferrara e Marco Marongiu dell’Inaf di Cagliari? Ciò che inizialmente li ha lasciati perplessi è stata la durata insolitamente breve del cosiddetto afterglow, la luce ottica del bagliore residuo che resta dopo l’emissione del lampo gamma: nel caso di Grb 180618A, l’emissione in luce visibile è scomparsa dopo appena 35 minuti.

Ulteriori analisi hanno mostrato che la materia all’origine di quell’emissione di breve durata si stava espandendo. E lo faceva a velocità prossima a quella della luce: c’era dunque qualcosa – una fonte di energia continua – che la spingeva. Che cosa? Dall’impronta energetica rilevata nell’emissione, l’indiziata principale sembra essere una stella di neutroni appena nata, in rapida rotazione e altamente magnetizzata: in breve, una magnetar millisecondo. Una magnetar la cui energia raggiungeva, riscaldandola, la stessa materia in espansione – ma in progressivo rallentamento – prodotta dalla collisione, dando origine a un’emissione ottica mille volte più luminosa di quanto previsto per una normale kilonova.

Tutto questo avveniva circa cinque miliardi di anni fa alla periferia di una remota galassia individuata grazie alle osservazioni in campo profondo compiute e ai dati spettroscopici ad alta precisione ottenuti con Lbt, il Large Binocular Telescope, un telescopio con due specchi da 8.4 metri ciascuno che si trova in Arizona ma per un quarto italiano (il 25 per cento è di proprietà dell’Inaf).

«Le ossservazioni di Lbt», conclude Rossi, «sono state importanti per identificare la galassia nella quale questo Grb è esploso e misurarne la distanza attraverso il redshift, e quindi la luminosità, permettendo così di testare il modello teorico». Modello che, se confermato, implica che con i futuri telescopi a grande campo, primo fra tutti il Vera Rubin Observatory, si potranno osservare migliaia di altri eventi come questo, con stelle di neutroni – prodotte da una fusione – che resistono a lungo prima di collassare in un buco nero.

Per saperne di più:

  • Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “A Short Gamma-Ray Burst from a Protomagnetar Remnant”, di N. Jordana-Mitjans, C. G. Mundell, C. Guidorzi, R. J. Smith, E. Ramírez-Ruiz, B. D. Metzger, S. Kobayashi, A. Gomboc, I. A. Steele, M. Shrestha, M. Marongiu, A. Rossi e B. Rothberg