Un problema quasi centenario per gli astronomi, che risale alle storiche osservazioni di Fritz Zwicky (1934) e poi di Vera Rubin, riguarda la curva di rotazione delle stelle osservata lontano dal centro galattico, la quale non segue la legge della gravità di Newton, ma che, invece, pare essere sostenuta da un contributo aggiuntivo associato alla materia oscura, situata nell’alone circondante la galassia stessa e che mantiene le velocità stellari costanti fino alle periferie galattiche.
Il nostro recente studio pubblicato su Mnras suggerisce che la geometria dello spazio-tempo guidi tali velocità, nel piano della nostra galassia, coerentemente con la teoria di Einstein, secondo la quale, date le sorgenti gravitazionali e una geometria spazio-temporale sottostante, “lo spazio dice alla materia come muoversi, la materia dice allo spazio come curvare” (J. A. Wheeler). La geometria dello spazio-tempo, dunque, come manifestazione della gravità, renderebbe da sola conto delle proprietà gravitazionali della materia oscura, che si caratterizza in generale dal fatto di non assorbire o emettere luce, di interagire solo con la gravità ed essere, appunto, necessaria per giustificare il divario esistente tra la curva di rotazione osservata e le velocità newtoniane attese.
Una delle equazioni di campo di Einstein – ricordiamo che nel caso della relatività generale, che fa uso di tensori, sono un insieme di 10 equazioni – fornisce la densità di materia barionica richiesta per chiudere il suddetto gap senza alcuna ulteriore componente aggiuntiva. Sfruttando poi le restanti equazioni, il profilo della velocità relativistica risulta statisticamente indistinguibile dal suo analogo basato su modelli di materia oscura e, nel contempo, la componente relativistica nel disco legata al trascinamento gravitazionale – detta di dragging – può effettivamente compensare l’assenza di materia oscura nell’alone. Pertanto la piattezza osservata della curva di rotazione della Via Lattea si origina come effetto della relatività generale, non prevedibile dalla gravità di Newton. Infatti è noto che la relatività generale presenta effetti di campo debole non previsti dalla teoria di Newton classica, come quello di Lense-Thirring o la precessione relativistica del perielio di Mercurio.
L’idea di perseguire l’uso del relatività generale per modellare la nostra galassia nasce nell’ambito delle nostre attività di core processing della missione dell’Esa Gaia, che sta realizzando un’accurata mappatura su larga scala delle distanze e delle velocità stellari della Via Lattea.
Il trattamento dei dati di Gaia richiede l’uso obbligatorio dei modelli di relatività generale per garantire l’accuratezza dei prodotti scientifici della missione, come, per esempio, le parallassi da cui si ricavano le distanze. Gaia, difatti, rappresenta l’avvento dell’astrometria relativistica, in quanto la ricostruzione a ritroso delle traiettorie di luce delle stelle viene fatta tenendo conto della geometria spazio-temporale mutevole del Sistema solare, sulla quale si basa anche la definizione dei sistemi di riferimento celesti (Bcrs) dell’Unione astronomica internazionale.
Grazie alla Dr2 (il secondo catalogo dei dati raccolti dalla missione Gaia), quell’idea si è finalmente materializzata: utilizzando i migliori prodotti della Dr2 – parallasse più precise del 20 per cento e l’insieme completo dei moti propri e delle velocità lungo la linea di vista – e la fotometria 2Mass a complemento, siamo stati in grado di selezionare un campione molto omogeneo di 5602 stelle del disco (5277 stelle upper-MS e 325 cefeidi classiche di tipo I), quindi di ricostruire la cinematica della parte assi-simmetrica del potenziale galattico su un ampio intervallo di distanze galattocentriche (da 5 a 16 kpc).
Questi dati, senza precedenti e riferibili a uno stesso osservatore, sono stati adattati a due profili di curva di rotazione, uno relativistico e un analogo classico basato sulla materia oscura (ovvero ricavato in modo standard dall’equazione di Poisson). I risultati hanno dimostrato, per la prima volta, che il modello relativistico è in grado di rappresentare i dati sperimentali con una qualità del tutto simile a quella di un modello tradizionale basato sulla dinamica newtoniana e un alone di materia oscura. Per la deduzione del profilo relativistico è stato fondamentale inquadrare correttamente la misura della velocità effettuata dall’osservatore solidale con il Sistema solare (Bcrs) rispetto a quello al centro della galassia. Contrariamente all’astronomia classica, il processo di misura in relatività generale dipende dalla geometria sottostante e nel nostro caso tale velocità risulta essere proporzionale al termine non-diagonale della metrica legato, appunto, al trascinamento gravitazionale.
Alla luce di ciò, ogni futuro modello galattico dovrebbe essere sviluppato coerentemente con la cinematica relativistica fornita da Gaia. Per l’etere, ad esempio, è stato fruttuoso formulare nuove interpretazioni epistemologiche per spiegare le contraddizioni tra la meccanica classica e le leggi dell’elettromagnetismo. Einstein, grazie all’ansatz della relatività speciale, introdusse una nuova cinematica che soddisfaceva l’esperimento di Michelson-Morley e le equazioni di Maxwell, invece di aggiungere alla teoria di Newton una nuova dinamica, ovvero la “forza molecolare extra” suggerita dall’effetto di contrazione di Lorentz-FitzGerald.
Seguendo questi principi primi, l’ansatz da cui siamo partiti è un modello di relatività generale semplificato che tratta le stelle della nostra galassia come sorgenti isolate e stazionarie non interagenti tra loro, distribuite con simmetria assiale. In sostanza una geometria di “polvere relativistica”. Tra i modelli di questo tipo, la soluzione analitica per il profilo di velocità proposto negli ultimi anni da Balasin e Grummiller (2008) si è rivelato efficace per dimostrare la natura relativistica della curva di rotazione mappata da Gaia all’interno della Via Lattea. Tale modello, nonostante alcune inadeguatezze e incompletezze (ad esempio, non può essere esteso, così com’è, alle regioni interne della galassia), ha consentito anche di stimare la dimensione radiale (esterna) del rigonfiamento (bulge) galattico e lo spessore del disco a distanze radiali R > 4 kpc.
Per concludere, questi incoraggianti risultati ci sollecitano a un uso approfondito della teoria di Einstein negli anni a venire e affermano la necessità di sviluppare “geometrie” galattiche più complesse che possano tenere adeguatamente conto delle varie strutture della Via Lattea. Ciò anche in previsione dei nuovi dati di Gaia sempre più accurati, magari coniugati ad altre osservazioni, complementari, delle regioni centrali della galassia.
D’altra parte, non dimentichiamoci che la Via Lattea rappresenta il “prodotto” cosmologico a noi più vicino e che una sua adeguata rappresentazione, attraverso un osservatore relativistico simile a quello di Gaia, può aiutare a mettere sul banco di prova, su scala galattica, le previsioni di qualsiasi modello cosmologico.
Questo studio è risultato dalle attività di ricerca del team dell’Inaf di Torino che lavora da decenni sull’astrometria gravitazionale e sui suoi test su scala locale e galattica, resi possibili dalla missione Gaia e dal costante supporto dell’Agenzia spaziale italiana attraverso accordi specifici con Inaf. In particolare, per questo lavoro, sono stati cruciali l’interazione multidisciplinare per trattare gli aspetti critici, dalla teoria alla sperimentazione. In aggiunta, questo lavoro è parte integrante del lavoro di Marco Giammaria per il dottorato di ricerca in fisica dell’Università di Torino (advisors M. Crosta e M. G. Lattanzi).
Per saperne di più:
- Leggi su Media Inaf l’intervista a Mariateresa Crosta “Una Via Lattea come Einstein comanda”
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “On testing CDM and geometry-driven Milky Way rotation curve models with Gaia DR2”, di Mariateresa Crosta, Marco Giammaria, Mario G. Lattanzi ed Eloisa Poggio