VIAGGIO FRA I TELESCOPI NEI GIORNI DEL CORONAVIRUS

Noto, un’antenna vicino alla perla del Barocco

Trenta chilometri a nord di Capo Passero, punta sud della Trinacria, tra un giardino di aranci, una vigna e un campo di carciofi, sorge il radiotelescopio di Noto: una parabola di 32 metri, caposaldo della radioastronomia in Italia, insieme a Medicina e al Sardinia Radio Telescope. Nella visita alla stazione osservativa ci accompagna il suo responsabile, Pietro Càssaro, ricercatore dell’Inaf

     20/04/2020

Pietro Càssaro, laureato all’Università di Catania, ricercatore Inaf e responsabile della Stazione osservativa dell’Ira di Noto. Crediti: Pier Raffaele Platania – Ira Noto/Inaf

Trenta chilometri a nord di Capo Passero, punta sud della Trinacria, tra un giardino di aranci, una vigna e un campo di carciofi, sorge il radiotelescopio di Noto: una parabola di 32 metri, gemella di quella presente in Emilia Romagna, a Medicina. La città di Noto, perla del Barocco, il cui centro storico è stato dichiarato Patrimonio dell’umanità dall’Unesco nel 2002, si trova poco più a est, a 15 minuti di auto. Quindi, in questa parte della bellissima Sicilia, avete la fortuna di avere proprio tutto: la natura, con un mare limpido, spiagge assolate e il profumo degli aranci; la cultura, nelle città tardo barocche della Val di Noto; e la scienza, in una delle tre postazioni dell’Inaf capisaldi della radioastronomia in Italia. Ed è proprio qui che vi porterà oggi lo “Speciale telescopi” di Media Inaf, insieme a Pietro Càssaro, responsabile della Stazione osservativa di Noto. Nato quasi 53 anni fa a Riesi, in provincia di Caltanissetta, laureato all’Università di Catania, Pietro è ricercatore all’Inaf Ira di Noto, dove ha svolto il suo dottorato e dove si occupa principalmente di nuclei galattici attivi. Insieme allo staff della Stazione, porta avanti le osservazioni con il radiotelescopio.

Com’è cambiata, con l’emergenza Covid, l’attività lavorativa alla stazione radioastronomica di Noto? Si continuano a fare osservazioni?

La città di Noto, il cui centro storico è stato dichiarato Patrimonio dell’umanità dall’Unesco nel 2002. Crediti: Pier Raffaele Platania/Inaf Ira Noto

«È cambiata più o meno come per tutti gli altri istituti dell’Inaf in generale, e in particolare anche per gli osservatori. In questo momento siamo tutti in regime di telelavoro o di smart working, tranne che per quanto riguarda una turnazione che stiamo facendo per garantire il semplice presidio della stazione radioastronomica, che non può rimanere incustodita. Quindi uno di noi lavora, a turno, dalla stazione. Le attività osservative sono ferme, anche a causa di un problema sopraggiunto prima del blocco. Qualche mese fa, poco prima di Natale, durante un’ispezione dell’antenna, abbiamo notato un problema strutturale che richiede un intervento di tipo meccanico, ossia la sostituzione di un paio di travi dell’antenna stessa. La settimana dopo l’inizio del lock down sarebbe dovuta arrivare una ditta abruzzese per provvedere alla sostituzione, ma ovviamente ciò non è stato possibile per le restrizioni in vigore in questo periodo di emergenza. Dobbiamo attendere che l’emergenza passi per provvedere alla manutenzione e al riavvio delle osservazioni».

L’antenna di Noto è la gemella di quella di Medicina, in provincia di Bologna, giusto?

La parabola da 32 metri di Noto. Crediti: Pier Raffaele Platania/Inaf Ira Noto

«Sì, è una parabola di 32 metri di diametro, come quella di Medicina. Si trova a una decina di chilometri a sud di Noto, tra un giardino di aranci, una vigna e un campo di carciofi. È un radiotelescopio, ossia un telescopio in grado di osservare le onde radio, onde elettromagnetiche come quelle che noi chiamiamo “luce” ma caratterizzate da una lunghezza d’onda più lunga, molto meno energetiche. Le onde radio sono le stesse che vengono utilizzate in molte attività umane, dalle trasmissioni radio-televisive, ai telecomandi o nei telefonini. Nel nostro caso però non le trasmettiamo, bensì le riceviamo: raccogliamo le onde radio che vengono emesse da oggetti astronomici».

Cosa riuscite a osservare con il radiotelescopio?

«Le onde radio che osserviamo possono essere emesse da particolari tipi di stelle con un’attività molto elevata oppure dalle cosiddette pulsar: stelle di neutroni che emettono molto nella banda radio e che noi vediamo “pulsare” per via del fatto che la stella ruota su sé stessa a velocità molto elevate, anche mille volte al secondo – noi riusciamo a vederla sotto forma di impulsi, quando il fascio di radiazione emesso punta nella nostra direzione, come se fosse un faro. Osserviamo anche le strutture delle galassie, perché riusciamo a vedere l’emissione di certe molecole, tra cui quella dell’idrogeno, che si trovano all’interno delle galassie stesse, dove di gas ce n’è parecchio. Tramite l’osservazione dell’emissione di queste molecole, possiamo tracciare sia la struttura delle galassie sia il loro moto, ossia la velocità a cui si sta muovendo la materia all’interno delle galassie stesse. Osserviamo le cosiddette galassie attive, al centro delle quali risiedono buchi neri la cui massa va dal milione fino a qualche miliardo di masse solari, concentrata in una regione molto piccola, che emettono nella banda radio in maniera molto importante e che, a seconda dell’orientazione con la quale le si osserva, prendono il nome di radiogalassie oppure quasar, oggetti con un’emissione molto molto elevata e con variabilità anche molto importanti».

L’antenna da 32 m del radiotelescopio di Noto

E il radiotelescopio, da solo, riesce a vedere tutto questo?

«Il radiotelescopio ha un difetto piuttosto grosso, ossia il fatto di avere un potere risolutivo abbastanza basso. Per capire cosa questo significhi, consideriamo questa analogia: prendiamo delle persone a una distanza da noi di diverse decine di metri, tipo in fondo a una piazza molto grande o alla fine di una strada molto lunga. Difficilmente riusciremo a distinguere i tratti del loro volto, se non arrivano a una trentina di metri di distanza da noi. Ecco, quello che stiamo sperimentando in questa nostra osservazione è il potere risolutivo dell’occhio umano, cioè la capacità di vedere i dettagli, come i due occhi della persona lontana distinti e non con un’unica macchia sfuocata. Questa capacità (dello strumento con il quale si fa la misura) dipende da due fattori: la lunghezza d’onda alla quale stiamo osservando e le dimensioni dello strumento con cui osserviamo. La lunghezza d’onda della luce visibile è estremamente piccola – dell’ordine di 5 parti delle 10 mila parti in cui dividiamo un millimetro – veramente piccolissime. Quindi le dimensioni piccole della pupilla umana non creano grandi problemi per avere un buon potere risolutivo. Con un’antenna come la nostra di 32 metri, osservando a una lunghezza d’onda di 20 centimetri, non riusciamo a distinguere dettagli più piccoli di una luna piena. Quindi è chiaro che abbiamo qualche difficoltà a osservare con un’antenna singola».

E allora come fate per “vederci bene”?

Rete Evn e Jive di radiotelescopi. Crediti: Poul Boven/Nasa

«Abbiamo superato questa limitazione combinando i dati di più antenne distanti anche migliaia di chilometri. L’antenna di Noto, insieme a Medicina e a Srt, fa parte di una rete europea di radiotelescopi chiamata Evn, ossia European Vlbi Network, dove Vlbi sta per Very Long Baseline Interferometry, interferometria a lunghissima base. Per interferometria si intende la combinazione dei dati di ciascuna antenna con quelli delle altre antenne; a lunghissima base perché le distanze possono raggiungere anche migliaia di chilometri, la distanza tra le antenne coinvolte nell’osservazione. Quando si combinano insieme i dati di tutte queste antenne è come se osservassimo con un radiotelescopio grande quanto tutta l’Europa, o anche di più se la distanza tra i radiotelescopi è maggiore. È quello che è stato fatto, per esempio, nel caso della famosa “fotografia” del buco nero, pubblicata un anno fa, ottenuta combinando i dati di molti telescopi in giro per il mondo, a una lunghezza d’onda anche abbastanza piccola (per le onde radio) che ha reso possibile vedere in dettaglio la zona centrale di uno di questi nuclei galattici attivi, visualizzando la zona dove dovrebbe trovarsi il buco nero».

Scoperte particolari che avete fatto con l’antenna di Noto, negli ultimi anni?

«In realtà quello che per noi può essere una scoperta entusiasmante, non necessariamente lo è anche per il pubblico. Per esempio, Noto fa parte di una sottorete che si chiama Eating Vlbi (East Asia To Italy: Nearly Global Vlbi) nella quale tra le antenne, oltre alla nostra, alla gemella di Medicina e Srt, ci sono antenne giapponesi e coreane, che lavorano insieme ad alta frequenza (da 22 a 43 GHz). Abbiamo fatto delle osservazioni in questa banda ed essendo le distanze tra le antenne molto elevate, siamo riusciti a realizzare immagini estremamente dettagliate di oggetti come BL Lacertae o Markarian 501, che sono sorgenti molto osservate ma che presentano degli aspetti ancora da chiarire per quanto riguarda la loro struttura nella zona nucleare. In particolare, abbiamo ottenuto delle immagini della zona nucleare al di sotto del parsec, quindi praticamente vicinissime a quel famoso buco nero, nonostante la loro distanza sia elevata, grazie alle osservazioni Vlbi».

Per riuscire a fare delle buone osservazioni occorre obbligatoriamente vederci bene?

«Non è detto, bisogna vederci bene se si vuole fare imaging (ossia per fare delle immagini) ma per fare fotometria va benissimo anche il nostro radiotelescopio, da solo. Di recente sono state pubblicate le osservazioni che riguardano il monitoraggio, con la sola antenna di Noto (che abbiamo detto non essere un granché per osservare i dettagli – quindi per fare imaging), della quantità di radiazione che proviene da alcune sorgenti – misura che, soprattutto se la sorgente è variabile, può essere molto utile. In particolare, abbiamo fatto parte di un monitoraggio a 43 GHz di alcuni oggetti che poi sono stati osservati anche con il satellite Fermi. Abbiamo quindi partecipato alla raccolta di dati di questi oggetti,  dalle radio onde fino ai raggi gamma, per verificare come la loro variabilità potesse abbracciare le diverse lunghezze d’onda e per cercare di comprendere i meccanismi alla base di questo tipo di variabilità».

Evento pubblico al radiotelescopio di Noto. Crediti: Pier Raffaele Platania/Inaf Ira Noto

Fate qualcosa anche per il pubblico? Quali sono le cose che interessano di più?

«Certo, periodicamente nel nostro piccolo cerchiamo di fare attività di divulgazione di vario genere e coprendo vari aspetti, non solo legati alla radioastronomia. Una delle tematiche che più affascinano sono ovviamente i buchi neri e la relatività generale. Visto che si tratta di un’antenna, la maggior parte delle persone chiede se abbiamo mai ricevuto delle trasmissioni aliene, non rendendosi conto che se le avessimo ricevute, lo avrebbero già saputo. Noi abbiamo una grande responsabilità nel divulgare le informazioni scientifiche, perché la gente (giustamente) ci considera attendibili. A questo proposito c’è un episodio, che risale al 2012, quando decisi di fare un evento per cercare di smontare le affermazioni pseudoscientifiche che stavano circolando in quel periodo sulla presunta fine del mondo. Per far capire la grande responsabilità di chi, come me, si trovava a raccontare questi aspetti scientifici, feci saltare dalla sedia il mio collega, che stava seduto in fondo alla sala, dicendo: “In effetti voi non lo sapete perché ancora non abbiamo diffuso la notizia, ma abbiamo ricevuto un segnale di provenienza aliena e il nostro collega seduto là in fondo si sta occupando di fare la decodifica”… e così via, dando loro un po’ di dettagli tecnici. Il pubblico era attonito. Alla fine chiesi loro quante sciocchezze, secondo loro, gli avevo raccontato ed erano assolutamente basiti perché non riuscivano a capirlo, per il modo professionale in cui io gliele avevo raccontate. Nella nostra posizione, è facilissimo divulgare informazioni, indipendentemente dal fatto che siano vere oppure no. Difficilmente la gente comune ha elementi per distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è. Noi abbiamo una grande responsabilità: quella di spiegare, nel modo più semplice e chiaro possibile, ciò che è reale e scientificamente provabile. Una nota di colore, sempre in occasione del famoso 2012: ricevetti una telefonata di una signora che mi spiegò diligentemente come, alla fine del 2012, ci sarebbe stata una tempesta solare che avrebbe distrutto ogni strumento “elettromagnetico” sulla Terra. Lei aveva deciso di acquistare dei semi e andarsi a ritirare in una casa in campagna senza elettricità, isolandosi dal resto del mondo. Provai a spiegarle che non era così e poteva stare tranquilla, ma senza riuscirci. Di telefonate del genere ne arrivano diverse… in alcuni casi riusciamo a farci ascoltare, in altri no».

Radiotelescopio di Noto. Crediti: Pier Raffaele Platania/Inaf Ira Noto

I cittadini come vivono la presenza del radiotelescopio?

«Nei primi anni ‘90 (il radiotelescopio è stato inaugurato nel 1988) i contadini temevano che le radiazioni avrebbero rovinato i loro raccolti. Poi, con il tempo, capirono – in maniera empirica – di poter stare tranquilli, perché di fatto non riscontrarono alcuna variazione. Per tutti è abbastanza impressionante perché si tratta di un edificio di quattro piani che si muove da solo: è un padellone veramente molto imponente. La cosa che colpisce tutti è il fatto che sia piuttosto complicato mandarlo avanti. Non è come un telescopio ottico, per il quale dopo averlo costruito ci guardi dentro e vedi direttamente l’oggetto che stai osservando. Molto spesso mi chiedono se possono “vedere” qualcosa e allora occorre spiegare loro che per “vedere” qualcosa con un radiotelescopio bisogna prima elaborare il segnale in qualche modo, associando all’intensità del segnale un colore, per creare una mappa che i nostri occhi siano in grado di vedere. Questo tipo di scienza non è immediata, bensì parecchio più complessa da capire, per il pubblico generico».


Per leggere le altre interviste di questa serie dedicata ai telescopi: