LA SUA LUCE HA VIAGGIATO PER 13,1 MILIARDI DI ANNI

Una straordinaria galassia ordinaria

Una galassia piccola e debole come tante, ma scoperta da un team di ricercatori, tra cui Laura Pentericci dell’Inaf, ai confini estremi dell'universo. Il suo studio aiuterà gli astronomi a indagare quali oggetti celesti con la loro radiazione hanno contribuito ad alimentare il processo della reionizzazione cosmica

     10/04/2017

Immagine in falsi colori nel vicino infrarosso dell’ammasso di galassie MACS J1423.8+2404 presa dal telescopio spaziale Hubble. La galassia MACS1423-z7p64 è evidenziata dal cerchio in celeste. In basso, dettaglio della regione dove è stata individuata la galassia MACS1423-z7p64. Crediti: Hubble / Esa / Nasa / Nature Astronomy, Hoag et al.

È una galassia piccola e poco luminosa, come tante ce ne sono in tutto l’universo, quella scoperta da un team di ricerca guidato da Austin Hoag, giovane ricercatore dell’Università della California a Davis (Stati Uniti) nel quale partecipa Laura Pentericci, astronoma dell’Istituto nazionale di astrofisica di Roma, insieme ai ricercatori italiani Tommaso Treu dell’Università della California a Los Angeles e Michele Trenti, dell’Università di Melbourne in Australia. A rendere però speciale Macs1423-z7p64 – questa la sigla della galassia – è la sua distanza estrema, nello spazio e nel tempo: la luce di questo oggetto celeste ha viaggiato per ben 13,1 miliardi di anni prima di raggiungerci ed è stata emessa quando l’universo aveva poco più di 500 milioni di anni, ovvero meno del quattro per cento della sua età attuale.

«Gli altri oggetti celesti più lontani osservati finora sono estremamente brillanti e probabilmente rari in confronto alle altre galassie» dice Austin Hoag, primo autore dell’articolo che descrive la scoperta, pubblicato oggi online sul sito della rivista Nature Astronomy. «Riteniamo che la galassia da noi scoperta sia la più rappresentativa tra quelle presenti in quella remota epoca». Queste galassie ultradistanti, osservate agli albori dell’universo, sono molto interessanti per gli astronomi poiché si trovano a splendere nella cosiddetta epoca della reionizzazione, un periodo collocato tra circa 300mila e un miliardo di anni dopo il big bang in cui l’universo è diventato “trasparente”, rendendo visibile la luce delle prime stelle e galassie.

Dopo il big bang, l’universo era essenzialmente composto da idrogeno neutro, che blocca la radiazione luminosa. Le prime stelle che si sono formate dalla condensazione di quel materiale primordiale hanno iniziato ad emettere luce e radiazione di più alta energia che ha iniziato a trasformare l’idrogeno da neutro a ionizzato, liberando l’universo da quella “nebbia primordiale” e permettendo alla radiazione elettromagnetica di propagarsi liberamente. Molto però rimane ancora da capire di quella remota epoca. «Abbiamo un prima e un dopo, ma ci manca ancora un quando» prosegue Hoag. Ci sono ancora dubbi su quali oggetti celesti abbiano alimentato il processo di reionizzazione: sono state soprattutto le giovani galassie o anche i buchi neri e lampi di raggi gamma hanno fornito un contributo non trascurabile?

«Al momento i principali “sospettati” sono le galassie» aggiunge Laura Pentericci, astronoma dell’Inaf presso l’Osservatorio astronomico di Roma. «In particolare pensiamo che la maggior parte dei fotoni ionizzanti vengano proprio dalle galassie più deboli, come quella che abbiamo identificato in questo studio. Peccato che siano anche le più difficili da osservare, proprio perché la loro luce è molto fievole. In questo caso particolare siamo riusciti ad identificarla solo perché il grande ammasso di galassie che si trova tra noi e la galassia ha agito come una lente, potenziando la sua emissione».

La scoperta della galassia Macs1423-z7p64 è stata possibile grazie all’effetto di lente gravitazionale esercitato da un ammasso di galassie che si trova frapposto alla Terra ed esattamente allineato tra noi e la remota galassia. Questo fenomeno, predetto dalla teoria della relatività di Albert Einstein, ha amplificato la debolissima luce proveniente dalla galassia di ben dieci volte, rendendola così individuabile nelle riprese del telescopio spaziale Hubble. Il team è quindi riuscito a determinare la distanza della galassia analizzando la sua luce non lo spettrometro Mosfire installato al telescopio da 10 metri Keck I alle isole Hawaii.

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