LO STUDIO DEI RICERCATORI INAF

Uno ‘scrub’ spaziale per Mercurio

Non sono stati solo gli impatti dei meteoriti a modellare l'aspetto esteriore di Mercurio, ma anche l'attività del Sole. I suoi effetti su tempi di miliardi di anni possono essere soprendentemente rilevanti, come mettono in evidenza i risultati di uno studio realizzato da ricercatori dell'Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali dell'INAF

     25/07/2014
Mercurio ripreso dalla sonda Messenger. Crediti: NASA

Mercurio ripreso dalla sonda Messenger. Crediti: NASA

Non ha certo la ‘pelle’ liscia e uniforme come una biglia, ma anche se ci appare così butterata di crateri, la superficie di Mercurio ha di certo subito in almeno 4 miliardi di anni – tanto è il tempo che ci separa dalla sua formazione – più di qualche semplice ritocchino. Ovviamente, ci sono stati gli impatti di meteoriti, più o meno grandi, che si sono schiantati sul pianeta, specie nel corso dei primi 500 milioni di anni dopo la formazione. Ma oltre ai potenti colpi di maglio delle meteoriti, altri processi, più ‘gentili’ ma altrettanto significativi, hanno contribuito a modellare il profilo della superficie di Mercurio così come è oggi: gli effetti indotti dal vento solare e dalla radiazione, soprattutto quella ultravioletta (UV), proveniente dalla nostra stella. Quantificare questi effetti è senza dubbio un compito molto difficile, ma la sfida è stata raccolta da un team di ricercatori dell’INAF-Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali di Roma guidato da Stefano Orsini (Principal Investigator dell’insieme di strumenti scientifici SERENA sulla missione BepiColombo dell’ESA e della JAXA che studierà Mercurio). Il loro lavoro, pubblicato sulla rivista Icarus, ha fornito una stima degli effetti dei processi di rimodellamento superficiale di Mercurio da parte dell’attività solare. Ed i risultati sono sorprendenti:

“Questo lavoro è nato dal desiderio di valutare come e quanto il Sole possa avere modificato, nel corso di miliardi di anni, le caratteristiche superficiali di Mercurio tramite due noti processi quali ‘Ion Sputtering’ (IS, emissione di atomi e molecole planetarie indotte dall’impatto di particelle del vento solare) e ‘Photon Stimulated Desorption’ (PSD, emissione di particelle volatili, quali il sodio, indotta dalla radiazione UV del Sole)” dice Orsini. “Con nostra sorpresa, i calcoli ci hanno dato un tasso di perdita molto significativo, specie nei primi miliardi di anni, tanto che il primo processo potrebbe ever fatto sparire qualche metro della superficie, mentre il secondo avrebbe sottratto moltissimo sodio,  al punto da portare alla sua completa rimozione  se non ci fosse stato un efficace rifornimento dagli strati più profondi della superficie”.

Uno degli elementi chimici che risulterebbe maggiormente eroso, tra quelli considerati ‘volatili’, è appunto il sodio. Lo studio prende quindi in esame sia l’erosione complessiva che la perdita specifica del sodio nella crosta di Mercurio. L’abbondanza cosmica di questo elemento chimico generata nella formazione del Sistema solare è pari a circa il 7% del totale. Su Mercurio però questa percentuale, misurata grazie alle osservazioni da Terra ed ai dati della sonda americana MESSENGER, è oggi scesa al 2,5%. Questo dato ci dice che la PSD ha prodotto effetti significativi, ma allo stesso tempo ha spinto i ricercatori a chiedersi perché ci sia ancora sodio nelle rocce superficiali di Mercurio. In effetti, dai calcoli svolti, tutto il sodio presente in quasi 1 km di spessore superficiale avrebbe dovuto essere rimosso, ma non a causa della PSD, perché questo processo è in grado di agire solo su un sottilissimo strato superficiale. Oppure, si doveva pensare ad una irrealistica crosta piena di sodio al 100% e in questo caso quasi un centinaio di metri di superficie sarebbero svaniti. Però, è impossibile che una tale configurazione possa aver avuto luogo. Un’indagine complessa dunque, che necessariamente solleva anche profonde speculazioni sul passato geologico del pianeta: l’attività del Sole, in particolare il flusso continuo di raggi UV e particelle solari potrebbe aver cancellato ogni traccia di elemento volatile – sodio incluso – sulla superficie del pianeta, che però avrebbe subito nel tempo significativi fenomeni di ‘resurfacing’, ovvero di rimodernamento del suo aspetto esteriore, dovuti ad esempio a vulcanismo o a impatti con grossi asteroidi, che avrebbero rimescolato profondamente la composizione della crosta del pianeta, rifornendola anche di sodio. Non un semplice lifting della superficie insomma, ma una radicale plastica facciale!

Un altro punto di forza dello studio è quello di avere anche considerato come il Sole e la sua attività sono cambiati nei miliardi di anni presi in esame nell’indagine: grazie agli studi sulle stelle e la loro evoluzione, sappiamo che gli astri, anche quelli più regolari, variano la loro attività nel corso del tempo: nelle prime fasi del loro ciclo evolutivo, la radiazione e le particelle emesse sono molto maggiori che quelle rilasciate in età più avanzate.

Quello dell’evoluzione planetaria è un tema affascinante, difficile da affrontare perché l’arco della nostra vita e delle nostre esperienze è minimo rispetto alla dinamica di questi fenomeni, ma d’altro canto la capacità di ricostruire il progredire dell’universo è la caratteristica che accomuna noi astrofisici e che ci rende peculiari nel quadro scientifico, sempre a cavallo come siamo tra scienza e filosofia, tra una realtà locale ed un’altra di valore universale” commenta Orsini. “Per questo studio oggi pubblicato è stato necessario uno sforzo interdisciplinare, dalla chimica alla geologia, dalla fisica delle particelle alle teorie dei campi elettromagnetici, dall’astrofisica alla fisica fondamentale. Con questo stesso spirito, col mio team ho accettato la sfida di mettere una suite internazionale di strumenti scientifici a guida italiana sulla missione BepiColombo dell’ESA e della JAXA, convinti di poter aggiungere un tassello alla conoscenza di uno dei pianeti più ‘contrastati’ del Sistema solare, così vicino al Sole da sentirne un’influenza sostanziale nella sua evoluzione fino al suo stato attuale. L’osservazione ‘in situ’ di Mercurio con una strumentazione complessa e ‘multi-purpose’ quale è quella di BepiColombo ci aiuterà a comprenderne i numerosi enigmi ed a trovare risposte a quesiti a tutt’oggi ancora irrisolti, dal suo interno alla superficie, dall’esosfera alla magnetosfera, inclusi quegli effetti gravitazionali che consentiranno una miglior definizione della teoria della Relatività Generale. Ritengo che il dedicare buona parte della mia vita scientifica a questa missione sia un impegno utile e fondamentale, un prolifico testimone da lasciare alle future generazioni di scienziati ed astronomi”.

Per saperne di più:

  • l’articolo The influence of space environment on the evolution of Mercury di Stefano Orsini, Valeria Mangano, Alessandro Mura, Diego Turrini, Stefano Massetti, Anna Milillo, Christina Plainaki pubblicato sulla rivista Icarus