Ai costruttori di mega acceleratori di particelle non piacerà l’articolo uscito ieri su Physical Review Letters a firma di Andrew Mummery e Joseph Silk, fisico teorico a Oxford il primo, cosmologo vincitore nel 2011 del premio Balzan il secondo, oggi professore emerito anch’egli a Oxford. Articolo nelle cui conclusioni possiamo leggere, senza troppi giri di parole, che i buchi neri nel cuore degli Agn potrebbero rappresentare un complemento astrofisico dai costi relativamente contenuti alla costruzione di un Fcc – acronimo per Future Circular Collider. Detto altrimenti: collisori di particelle in grado di sprigionare un’energia paragonabile ai 100 TeV promessi dal successore di Lhc – costo stimato attorno ai 40 miliardi di dollari, dice Sabine Hossenfelder – potrebbero già essere disponibile in natura.
L’analogia fra oggetti celesti e acceleratori di particelle non è certo nuova, anzi: è un’immagine che anche qui su Media Inaf abbiamo usato più volte per descrivere processi in grado di spingere raggi cosmici e neutrini a energie impensabili – ultimo in ordine di tempo il superneutrino intercettato dall’esperimento Km3Net al largo di Portopalo di Capo Passero. La novità che più balza agli occhi nell’articolo di Mummery e Silk è proprio l’esplicito riferimento ai costi, riferimento che soprattutto in quest’epoca di tagli feroci alla scienza come quelli auspicati dall’amministrazione Trump non passa certo inosservato.
Rappresentazione artistica di un buco nero supermassiccio – con una massa pari a miliardi di volte quella del Sole – come quelli che si trovano al centro delle galassie. La rapida rotazione del buco nero e i potenti campi magnetici che lo circondano possono produrre enormi getti di plasma nello spazio, un processo che potrebbe potenzialmente generare gli stessi risultati dei supercollisori costruiti qui sulla Terra. Crediti: Roberto Molar Candanosa/Johns Hopkins University
«Una delle grandi speranze riposte nei collisori di particelle come il Large Hadron Collider è che possano generare particelle di materia oscura, ma per ora non abbiamo ancora avuto alcuna prova di ciò. Ecco dunque che si sta valutando di costruirne una versione molto più potente», ricorda Silk, professore di astrofisica alla Johns Hopkins e all’Università di Oxford, «un supercollisore di nuova generazione. Ma non è escluso che la natura stessa – mentre stiamo investendo 30 miliardi di dollari, disposti ad attendere 40 anni per costruire questo supercollisore – possa fornirci attraverso i buchi neri supermassicci un assaggio del futuro».
In che modo è presto detto. I flussi di gas in caduta nei pressi di un buco nero potrebbero arrivare – se si tratta di un cosiddetto buco nero di Kerr, dunque se sta ruotando attorno al proprio asse – ad avere un’energia persino maggiore di quella pur notevole che già gli astrofisici stimano. Gli urti caotici fra particelle che ne conseguono fanno sì che un buco nero come quello descritto si comporti, appunto, da collisore di particelle naturale con energie del centro di massa comprese tra 10 e 100 teraelettronvolt. In altre parole, un supercollisore.
Poi però occorre intercettarle e misurarle, le nuove particelle eventualmente prodotte da queste collisioni. Negli acceleratori costruiti qui sulla Terra ci pensano i rivelatori: strumenti come Atlas e Cms, i due rivelatori di Lhc che hanno consentito di confermare l’esistenza del bosone di Higgs. Ma per le particelle che dovessero formarsi attorno ai buchi neri?
«Alcune delle particelle provenienti da queste collisioni finiscono giù nella gola del buco nero e spariscono per sempre. Ma la loro energia e la loro quantità di moto fanno sì che altre, invece, riescano a uscirne fuori, e sono proprio queste che escono ad essere accelerate a energie mai viste prima», spiega Silk. A rilevarle potrebbero dunque pensarci gli osservatori che già usiamo per le supernove, per le emissioni dai buchi neri massicci e altri eventi cosmici, continua Silk: osservatori come IceCube al Polo Sud o, appunto, Km3Net, il Cubic Kilometre Neutrino Telescope, in via di completamento nel Mediterraneo
Per saperne di più:
- Leggi su Physical Review Letters l’articolo “Black hole supercolliders”, di Andrew Mummery e Joseph Silk