INTERVISTA A JOCELYN BELL BURNELL

“Ho dovuto imparare come non arrossire”

Jocelyn Bell Burnell, l’astronoma che nel 1967 – all’epoca studentessa 24enne – scoprì la prima pulsar, era la settimana scorsa in Italia alla “Conferenza internazionale supernova”, nei Laboratori nazionali del Gran Sasso dell’Infn. Chiara Badia l’ha intervistata per Media Inaf

     06/06/2023

Jocelyn Bell Burnell. Crediti: Chiara Badia/inaf

Irlandese di origini, Jocelyn Bell Burnell, oggi professoressa alla Oxford University, durante il suo dottorato in Scozia, nel 1967, ha osservato la prima radio pulsar, poi successivamente identificata come stella di neutroni. L’anomalo segnale registrato proveniva da Psr B1919+21. Denominata all’inizio con la sigla Cp 1919, dove ‘Cp’ sta per Cambridge pulsar, la pulsar nella costellazione della Volpetta è stato il primo oggetto astronomico di questo tipo mai scoperto, e la potenza e la regolarità del suo segnale radio fecero per un breve periodo pensare che tale segnale fosse in realtà inviato da una qualche civiltà extraterrestre. Per questo motivo, la sorgente del segnale – che poi si scoprì essere appunto una pulsar – fu battezzata Lgm (e in seguito Lgm-1), dalle iniziali di little green men.

Autrice di una delle principali scoperte dell’astrofisica, Bell Burnell non ricevette però il Premio Nobel, che fu invece assegnato al suo supervisore di tesi. Per le sue indiscutibili qualità e conoscenze scientifiche, Bell Burnell, nominata “Dame of the British Empire”, ha ricoperto numerosi incarichi prestigiosi, è stata presidente della Royal Astronomical Society, presidente dell’Institute of Physics, e vincitrice del Breakthrough Prize in fisica fondamentale nel 2018 e della Copley Medal nel 2021. Una carriera ricca di sfide e di conquiste, tra aneddoti e racconti che hanno reso speciale la vita di Jocelyn – così vuol essere semplicemente chiamata –, che martedì scorso, in una mattinata di fine maggio quasi invernale, in occasione della “Conferenza internazionale supernova”, ospitata dai Laboratori nazionali del Gran Sasso dell’Infn, ha concesso un’intervista in esclusiva per Media Inaf.

Jocelyn, lei è spesso chiamata Lady of pulsars, quindi considerata un po’ come la mamma delle stelle pulsar. Quando è perché ha deciso di studiare fisica? Ha sempre sognato di diventare una scienziata?

«A partire dall’età di 13-14 anni sapevo già di voler fare l’astronoma. Non sapevo bene quale tipo di astronomia, perché, avendo necessità di dormire, quella ottica non mi sembrava una buona idea. Poi ho scoperto la radioastronomia e deciso che avrei lavorato in quel campo, indirizzando così i miei studi scolastici e universitari verso la di fisica e la matematica per poter diventare un radioastronomo».

Ha ricevuto sostegno dalla sua famiglia o c’erano, per le figlie, altre aspettative a quei tempi?

«La mia famiglia mi ha sostenuto molto, ma la società in generale no. A quel tempo nell’Irlanda del Nord, dove vivevo, le ragazze erano destinate a diventare casalinghe, mogli e madri, e non avevano bisogno di molta istruzione, erano i ragazzi ad averne bisogno e a riceverla. La mia scuola aveva stabilito che le ragazze ricevessero lezioni per imparare a cucinare e a ricamare e i ragazzi lezioni di scienze. I miei genitori lottarono contro le decisioni della scuola, e finì che a 12 anni ero in una classe di scienze tutta maschile ma con tre ragazze».

Lei ha iniziato a studiare fisica a Glasgow nel 1961, molti anni fa ormai e in una società differente da quella odierna. Ha dei ricordi e aneddoti di quegli anni? 

«A Glasgow ho frequentato Honors Physics, il corso avanzato di fisica, e mi sono ritrovata a essere l’unica donna della classe assieme a 49 uomini. Ovviamente ero sotto la lente di ingrandimento, tutti i docenti sapevano chi ero e controllavano se stavo andando bene o male. A quel tempo a Glasgow era tradizione che quando una donna entrava in aula tutti gli uomini fischiassero e facessero cat calling, muovendo i banchi contro il pavimento e facendo più rumore possibile. Generalmente in quei casi le donne si radunavano fuori dall’aula, aspettando e entrando poi insieme; essendo l’unica donna del corso ho dovuto affrontare tutto ciò da sola cercando di non arrossire. E sai cosa ho scoperto? Che si possono controllare le proprie reazioni e non arrossire. Così ho imparato a controllare il mio rossore in viso quando entravo in aula e affrontavo tutti quei rumori e richiami volgari».

In qualche modo, arrossire era inteso come essere più debole agli occhi dei compagni?

«Certo, sicuramente li incoraggiava a fare ancora più rumore e caos».

Poi è andata a Cambridge e le sue ricerche, durante il dottorato, erano dedicate allo studio e alla registrazioni dei segnali dall’universo…

«In quegli anni ero un’addetta alla radioastronomia, una dottoranda, e avevo passato due anni ad aiutare a costruire un grande radiotelescopio e per diversi mesi sono stata l’unica persona ad usare quel telescopio a Cambridge. Ero molto spaventata, non c’erano tante donne oltre me, gli uomini sembravano tutti molto intelligenti e molto sicuri di sé. Ogni giorno pensavo che avessero sbagliato sul mio conto mi dicevo “Non sono abbastanza intelligente. Non avrebbero dovuto darmi un posto, lo scopriranno e mi butteranno fuori, ma finché non mi butteranno fuori lavorerò sodo, farò del mio meglio”. E così, mentre esaminavo attentamente i dati provenienti dal radiotelescopio che stavo usando, notai un segnale di circa cinque millimetri che non aveva senso, non riuscivo a comprenderlo».

Spesso noi veniamo a conoscenza di una scoperta ma ne ignoriamo il lungo viaggio che precede, gli sforzi che ci sono dietro. Lei ha passato molto tempo all’osservatorio, a Cambridge, e anche molti giorni lavorando sul campo, magari anche con il maltempo. Quale era la sua routine di una giornata tipica in quel periodo?

«Per i primi due anni ho aiutato a costruire il radiotelescopio, quindi lavoravo nel sito dell’osservatorio per mettere le spine ai cavi, martellare i pali nel terreno… potevo brandire una grande martello pesante tre o quattro chili. Sono letteralmente diventata molto forte fisicamente, c’era molto freddo e umido. Molto esercizio, poco cervello, diciamo. Ero anche responsabile di tutti quei cavi, e nei radiotelescopi ci sono chilometri di cavi. Ho quindi passato due anni ad aiutare a costruire il radiotelescopio e poi, quando finito, le altre cinque o sei persone che erano con me hanno iniziato a lavorare su altri progetti. Sono così rimasta da sola a gestire e far funzionare il radio telescopio».

Jocelyn Bell Burnell (a destra) con Chiara Badia al termine dell’intervista. Crediti: Chiara Badia/Inaf

Ora vorrei farle una domanda più personale. Subito dopo la scoperta lei ha deciso di sposarsi e mettere su famiglia. Come questa scelta ha influenzato la sua carriera? 

«Sì, mi sono sposata dopo la consegna della mia tesi di dottorato e prima della sua discussione. Quando mi sono sposata, avevo da poco finito gli studi a Cambridge. Da quel momento ho iniziato a rendermi conto di quanto fosse difficile trovare un buon lavoro per due persone nello stesso posto e ho finito per cambiare più volte lavoro. Quando a mio marito veniva offerta altrove una promozione, io cercavo di capire quale ricerca in astronomia avrei potuto fare in quella nuova parte del Paese. Così sono passata dalla radioastronomia all’astronomia dei raggi gamma, dai raggi gamma ai raggi X, poi agli infrarossi e all’astronomia millimetrica. Infine, il mio matrimonio è finito e ho deciso che avrei studiato le stelle compatte a qualsiasi lunghezza d’onda utile per l’avanzamento della conoscenza».

La sua carriera quindi ha dovuto adattarsi spesso alle esigenze della vita privata quindi. Ha qualche rimpianto?

«Sono un po’ infastidita dal fatto che sia sempre il lavoro della donna a essere compromesso. Mentre l’uomo può avere una carriera normale, quella di una donna se ha dei figli viene compromessa. Purtroppo ciò è legato a come funziona la società e la comunità scientifica, dove è il modello maschile a essere la regola».

Nella moderna astronomia e in astrofisica – oltre alla sua, ovviamente – quale scoperta l’ha maggiormente colpita?

«Mi sono divertita particolarmente quando lavoravo nell’astronomia a raggi X, alla fine degli anni ’70. Il mio lavoro consisteva nel controllare i dati che arrivavano dal satellite Ariel 5 e nel pianificare il programma di osservazione. Poiché arrivavano tantissimi dati sulla mia scrivania, potevo vedere che oltre a quell’ammasso di galassie c’era magari dell’altro, quindi correvo a cercare qualche giovane studente di riserva che controllasse i dati. Così, di settimana in settimana, succedeva sempre qualcosa di nuovo: magari stavamo osservando un quasar e si scopriva un’altra sorgente transitoria. L’astronomia dei raggi X si è rivelata molto più eccitante di quanto mi aspettassi, perché ci sono molte cose che cambiano d’intensità, transienti che esplodono e muoiono, periodicità inaspettate nei dati, stelle di neutroni e tanto altro».

Secondo lei, quale scoperta ci attende dietro l’angolo? 

«Se me l’avessi chiesto qualche anno fa, avrei detto le onde gravitazionali: ci ho creduto fin da quando ero studentessa. Sono stata fortunata durante l’ultimo anno a Glasgow ad avere come tutor il professor Ronald Drever, uno scienziato entusiasta, e mi dicevo: “Sarò attenta a ogni nuovo campo in cui Ron Drever farà ricerca”. Infatti, poco dopo iniziò a dedicarsi alle onde gravitazionali, seguendone gli studi. Sapevo che ci sarebbe stata una rivelazione di onde gravitazionali, ma non ero sicura che sarei stata ancora qui in vita per vederne la scoperta».

Torniamo alle discriminazioni che ha incontrato lungo il suo percorso di studi, dall’inizio fino alla mancata consegna del Nobel, forse proprio perché scienziata donna: ci sono stati altri episodi? E cosa è avvenuto negli anni successivi? 

«La situazione migliora continuamente. Non so abbastanza sul ruolo delle donne in questo Paese, ma nel mio è cambiato molto dopo la Seconda Guerra Mondiale. Durante la guerra le donne lavoravano perché gli uomini erano fuori a combattere, quando la guerra finì fu difficile riportare le donne in case e considerarle di nuovo solo come mogli e madri. In Gran Bretagna le donne hanno gradualmente conquistato un proprio posto nel mondo del lavoro».

Nobel mancato, ma lei ha poi ricevuto il più ambito e ricco Breakthrough Prize per la fisica dal valore di 3 milioni di dollari. Premio che ha deciso di usare come fondo per aiutare donne, appartenenti a minoranze e rifugiati nel loro percorso per diventare ricercatori in fisica. Una causa che le sta molto a cuore…

«Ho deciso che dovevo sbarazzarmi di quel denaro molto rapidamente, altrimenti il telefono non avrebbe mai smesso di squillare! Credo ci siano due aspetti strettamente connessi alla mia scoperta delle pulsar: l’essere donna, quindi una minoranza, e il fatto di aver dovuto lavorare più duramente degli uomini per giustificare il mio posto nella società e nel mondo scientifico. Così ho pensato che finanziando altri giovani appartenenti a delle minoranze forse anche loro, lavorando con impegno, potrebbero un giorno fare nuove scoperte. Quindi il premio è stato utilizzato dal nostro istituto per borse di studio in fisica per studenti che provengono da realtà difficili o dimenticate, per esempio di differenti etnie, di genere femminile, persone con disabilità e tutte le minoranze in genere».

Lei è considerata una figura d’ispirazione per le nuove generazioni, una role model per scienziate e ricercatrici, un simbolo di lotta contro le discriminazioni di genere. Chi le è stato d’ispirazione? 

«Non credo di aver avuto un modello di riferimento, non c’era una persona del genere ai miei tempi. Mio padre mi ha sostenuto molto, il che è stato positivo, ma credo che per la maggior parte del tempo abbia dovuto fare il mio percorso da sola, ci sono state pochissime altre donne. Sono stata io a tracciare il sentiero».


È possibile ascoltare l’intervista originale (in lingua inglese):