INTERVISTA AL PRIMO AUTORE, L’ASTROFISICO PIERLUIGI RINALDI

Un universo primordiale pieno di galassie starburst

Dall’analisi di oltre 20mila galassie condotta da un gruppo guidato da Pierluigi Rinaldi dell’Università di Groningen (Paesi Bassi), è emerso che nei primi miliardi di anni dopo il Big Bang l’universo conteneva molte più galassie starburst del previsto. Dal 60 al 90 per cento delle stelle presenti nell’universo primordiale sembra essere stato prodotto da queste galassie. Tutti i dettagli su The Astrophysical Journal

     12/04/2022

La galassia baby-boom è un esempio di galassia lontana con un repentino incremento di crescita. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Subaru/Stsci/P. Capak

Da un’analisi di oltre 20mila galassie lontane condotta da un gruppo di ricerca guidato dall’astrofisico italiano Pierluigi Rinaldi dell’Università di Groningen (Paesi Bassi), è emerso che nei primi miliardi di anni dopo il Big Bang l’universo conteneva molte più galassie starburst del previsto. In particolare, dal 60 al 90 per cento delle stelle presenti nell’universo primordiale sembra essere stato prodotto da queste impetuose galassie.

Le galassie starburst sono galassie in cui il processo di formazione stellare è eccezionalmente violento, rispetto al tasso di formazione caratteristico della gran parte delle galassie. In altre parole, producono molte più stelle del normale in un periodo di tempo relativamente breve. Questa repentina crescita stellare dura da 10 a 100 milioni di anni. La vita delle galassie è molto lunga, spesso vivono per miliardi di anni e possono subire diverse fasi di crescita repentina. Per innescare questo “scatto” nella crescita, è necessario un improvviso afflusso di gas, che porta nuovo materiale con cui formare nuove stelle. Un tale afflusso può verificarsi, ad esempio, quando due galassie si avvicinano l’una all’altra.

Rinaldi e il suo gruppo hanno studiato i dati di oltre 20mila galassie lontane, raccolti negli ultimi anni con il telescopio spaziale Hubble, con lo strumento Muse sullo European Very Large Telescope in Cile e con lo Spitzer Space Telescope. Con questi telescopi è stato possibile studiare le galassie che si sono formate da 11 a 13 miliardi di anni fa.

L’analisi mostra che nei primi miliardi di anni dopo il Big Bang, circa il 20-40 per cento di tutte le galassie che formano stelle erano galassie starburst. Queste galassie hanno portato dal 60 al 90 per cento dell’aumento di stelle. Per confronto, l’universo di oggi è molto più tranquillo e solo il 10 per cento circa delle nuove stelle nasce nelle galassie starburst. L’analisi mostra inoltre che gli scatti nella crescita si verificano più spesso nelle galassie più piccole che in quelle più grandi. I risultati sono stati una sorpresa perché fino a poco tempo fa le galassie starburst erano considerate insolite e di minore importanza nella formazione e crescita delle galassie. Nemmeno gli ultimi e più sofisticati modelli di formazione delle galassie lo avevano previsto. Media Inaf ne ha parlato con lo stesso Rinaldi.

Qual è stata l’idea alla base di questo lavoro?

«L’idea iniziale di questo lavoro era quella di sfruttare il lensing gravitazionale di alcuni ammassi di galassie dell’Hubble Frontier Fields per studiare un campione di star-forming galaxies ad alto redshift (confermate spettroscopicamente) con lo scopo di focalizzarci su una ormai nota relazione: massa stellare (M*) – star formation rate (Sfr), la cosiddetta “Main sequence of star-forming galaxies“. Questa relazione rappresenta un tassello fondamentale nella teoria di formazione ed evoluzione delle galassie perché ci dà informazioni sul fenomeno di build-up della massa stellare all’interno di una galassia (quindi dei meccanismi dietro l’aumento di massa stellare di questi sistemi). In particolare, tutti gli studi di letteratura hanno mostrato che la relazione fra Sfr e M* per le galassie star-forming è quasi lineare, con un aumento della normalizzazione di questa relazione nel momento in cui andiamo verso l’universo ad alto redshift (i.e., man mano che ci spostiamo indietro nel tempo, appare chiaro come le galassie avessero una riserva di gas maggiore e potessero formare stelle con tasso superiore rispetto a quello che possiamo osservare nell’universo locale). L’idea di fondo dietro questo studio era di studiare la posizione di queste galassie nel piano Sfr-M*, sperando di poter avere indizi sulla natura delle galassie starburst».

Tra il 60 e il 90 per cento delle stelle dell’universo primordiale sembrano essere state prodotte da galassie in fase di crescita (spicchi rossi dei diagrammi a torta). Crediti: P. Rinaldi (Rug)/D. Aversa/Nasa

Quali altri tipi di galassie si trovano in questo “piano” definito dalla massa stellare e dal tasso di formazione stellare?

«Oggi sappiamo che il piano Sfr-M* è popolato da tre tipologie di galassie. Le cosiddette main-sequence galaxies [ndr, galassie di sequenza principale] che appunto giacciono su questa relazione quasi lineare e che ci dice che le galassie crescono in maniera autosimilare catturando gas dall’esterno (cold accretion). Le galassie quiescenti, ovverosia quelle galassie che hanno ormai terminato di formare stelle. Infine, le galassie di tipo starburst, la cui natura non è ancora del tutto chiara (i.e., non si sa se siano una fase della vita della galassia o se altri fenomeni, tra cui merger e instabilità di disco, le abbiano portate a sperimentare, data una certa massa, un alto tasso di formazione stellare). Nel corso del lavoro, ci si è resi conto che queste galassie fossero davvero particolari. Grazie al lensing gravitazionale, abbiamo potuto studiare giovanissime galassie con una massa compresa fra 100mila e 10 miliardi di masse solari, dandoci per la prima volta la possibilità di studiare, ad alto redshift, il piano Sfr-M* su un grandissimo intervallo di masse solari e mettendo in evidenza, ancora una volta, la potenza del fenomeno di lente gravitazionale. Allo stesso tempo, è stato anche possibile capire cosa potremmo aspettarci di vedere una volta che James Webb Space Telescope (Jwst) inizierà la sua campagna di osservazioni al termine del commissioning time».

Oltre all’Hubble Frontier Fields, avete considerato altre galassie nel vostro studio?

«Sì, abbiamo deciso di espandere il nostro studio considerando un altro campione (Cosmos/Smuvs) che coprisse lo stesso intervallo in redshift di quello iniziale (z tra 3 e 6.5). Questo ci ha permesso di estendere il nostro lavoro su più di 20mila galassie, dandoci la possibilità di aumentare la statistica dello studio. Dall’analisi di più di 20mila galassie è emersa chiaramente una bimodalità [ndr, in statistica, si parla di distribuzione bimodale quando ci sono due diversi valori intorno ai quali sono distribuite le misurazioni], ad alto redshift, fra le galassie di sequenza principale e le starburst nel piano Sfr-M*. Questa bimodalità era stata già proposta in recenti studi, ma nel nostro lavoro mettiamo in evidenza che essa esiste indipendentemente dal metodo che si decide di adottare per la stima del tasso di formazione stellare (nel nostro caso, abbiamo utilizzato i flussi osservati nella parte Uv dello spettro di queste galassie). Ma non è tutto, il nostro studio ha messo in evidenza, rispetto ad altri lavori condotti a più basso redshift, che le galassie di tipo starburst sembrano essere in numero maggiore rispetto a quanto si pensasse anni fa. In particolare, nel nostro lavoro mostriamo che questo tipo di galassie possa aver avuto un ruolo fondamentale nella cosmic star formation history perché sembra che fra z = 3 e z = 6.5, lo star formation rate budget (quanto tasso di formazione stellare finisce in galassie di sequenza principale e di tipo starburst) sia quasi del tutto collocato (tra il 60 e il 90 per cento) nelle galassie di tipo starburst, sebbene in numero siano sempre minori rispetto alle galassie sulla sequenza principale. Questo risultato potrebbe giocare un ruolo fondamentale nei modelli di formazione ed evoluzione delle galassie».

L’astrofisico italiano Pierluigi Rinaldi, ex studente della laurea magistrale in astrofisica e cosmologia presso l’Università di Bologna. Attualmente è PhD student presso il Kapteyn Astronomical Institute di Groningen e lavora con la professoressa Karina Caputi. Il suo gruppo di ricerca è coinvolto nel Miri Gto program, nel quale Rinaldi ricopre attivamente un ruolo nello studio e preparazione per l’imaging con NirCam, uno degli strumenti a bordo di Jwst. Crediti: P. Rinaldi

Esistono delle simulazioni che tentano di riprodurre la distribuzione delle galassie nell’universo, alcune delle quali molto famose. Avete confrontato i vostri risultati con queste simulazioni?

«Sì, ci siamo chiesti se le moderne simulazioni fossero in grado di riprodurre i risultati ottenuti. A tal proposito, abbiamo fatto uso delle IllustrisTng. Queste simulazioni rappresentano un fiore all’occhiello per i modelli di formazione ed evoluzione delle galassie. Dal nostro confronto però è emerso che queste simulazioni non sono in grado di riprodurre la bimodalità tra sequenza principale e galassie starburst che abbiamo ritrovato nel nostro studio. In particolare, sembra che queste simulazioni non siano in grado di produrre affatto le galassie starburst, suggerendo che il fenomeno di starburst possa avvenire su scale troppo piccole rispetto a quelle che gli attuali modelli possono prevedere. Questo studio lascia aperti, dunque, molti interrogativi ai quali non vediamo l’ora di rispondere! Sarà presto possibile rispondere a questi quesiti grazie al James Webb Space Telescope, attualmente in fase di commissioning, ed in futuro anche grazie ai vari Euclid, Vera Rubin, E-Elt, etc. L’epoca d’oro della astronomia extra-galattica è alle porte e sapere di poterne fare parte è elettrizzante».

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