SPECIALE ESA M5: SPICA

Spettri spaziali con lo specchio ultragelido

Costo stimato un miliardo di euro, da dividere grosso modo a metà fra Esa e Jaxa, lo Space Infrared telescope for Cosmology and Astrophysics è uno dei tre candidati in gara alla selezione per la selezione M5 della Cosmic Vision Esa. Ne parliamo con il responsabile italiano del progetto, Luigi Spinoglio dell’Inaf Iaps di Roma

     04/06/2019

Luigi Spinoglio, responsabile italiano del progetto Spica

Immagini sì, ma soprattutto spettri. Spettri infrarossi come non se ne sono mai visti, da 12 a 230 micron, con una sensibilità almeno cento volte superiore rispetto a quella dei suoi predecessori, Herschel dell’Esa e Spitzer della Nasa – le due missioni dedicate, rispettivamente, al lontano infrarosso e al medio infrarosso. Stiamo parlando di Spica, acronimo di Space Infrared telescope for Cosmology and Astrophysics, una proposta che coinvolge sia l’Agenzia spaziale europea (Esa) che quella giapponese (Jaxa). È una delle tre proposte rimaste in gara – le altre due sono Theseus, che vi abbiamo presentato l’estate scorsa, ed EnVision, che approfondiremo a breve – nella selezione per M5, la quinta missione di classe media dell’Esa. Di che missione si tratta e quali siano i suoi assi nella manica lo abbiamo chiesto al responsabile italiano del progetto, Luigi Spinoglio dell’Inaf Iaps di Roma.

«Spica sarà soprattutto una missione spettroscopica. Questo perché abbiamo uno specchio di due metri e mezzo – dunque più piccolo di quello del predecessore Herschel, che misurava tre metri e mezzo – mantenuto a temperature dell’ordine di 6-8 gradi kelvin grazie al raffreddamento attivo di criogeneratori. È il motivo per cui la sensibilità spettroscopica sarà cento volte migliore di quella di Herschel: il raffreddamento e l’impiego di spettrometri a reticolo (che “chiudono” la banda di osservazione) ci permetteranno di “lavorare” in modo limitato dai rivelatori (ad esempio bolometri Tes), che sono oggi ordini di grandezza migliori di quelli utilizzati su Herschel. E di ottenere uno spettro di tutte le sorgenti viste in fotometria da Spitzer ed Herschel».

Qual è il vantaggio della spettroscopia, rispetto alle normali immagini astronomiche?

«È presto detto: la fisica dei fenomeni la possiamo studiare meglio con la spettroscopia, piuttosto che con le immagini o con la fotometria. Questo perché la spettroscopia ci mostra la firma sperimentale dei processi che avvengono. Ci fa capire da quali fenomeni le righe spettrali del gas – in emissione o assorbimento – sono eccitate, dunque la fisica che c’è dietro. Ci fa comprendere l’evoluzione chimica, le velocità… Insomma, puntare sulla spettroscopia ci consente un salto di qualità, rispetto ad Herschel e a Spitzer».

Avrà uno specchio raffreddato a 6-8 gradi kelvin, ci stava dicendo. È di quelli che si aprono una volta in orbita?

«No, non è deployable, è uno specchio in carburo di silicio come quello di Herschel. Non avrà problemi meccanici come quelli che hanno rallentato la costruzione di Jwst. E Spica sarà il primo telescopio ad avere uno specchio di queste dimensioni raffreddato attivamente, con una catena di criogeneratori in cascata».

Raffreddato ma anche più piccolo – il diametro è un metro in meno – rispetto a quello di Herschel. Come mai?

«Lo specchio si è ridotto a due metri e mezzo perché la configurazione è diversa. Per poter rispettare le dimensioni del razzo, il telescopio è collocato “seduto”, non più in verticale ma in orizzontale. In tal modo guadagna enormemente sul fronte del raffreddamento passivo: i criogeneratori possono partire da temperature dell’ordine dei 40 kelvin, e non degli 80 kelvin come sarebbe stato con una configurazione verticale. Questo ha però comportato una riduzione dello specchio: gli ingegneri termici dell’Esa hanno imposto come limite superiore uno specchio di due metri e mezzo. In realtà potremmo forse anche arrivare, con uno specchio ellittico, a un’area equivalente a quella di uno specchio di tre metri, però è una variazione che dobbiamo guadagnarci sul campo».

Schema del payload di Spica nei suoi componenti primari. Fonte: Team Spica-Safari / Inaf Iaps Roma

Un vantaggio dal punto di vista del raffreddamento, dunque, ma in termini di risoluzione quanto vi penalizza, avere uno specchio più piccolo?

«Ci penalizza quanto il rapporto dei diametri, cioè perdiamo in risoluzione proporzionalmente al rapporto dei diametri. Quindi, rispetto a Herschel, da tre e mezzo a due e mezzo. Non dimentichiamo, però, che questo non sarebbe comunque uno strumento ad alta risoluzione spaziale: le informazioni le forniscono la spettroscopia e la polarimetria, che apre un capitolo nuovo. In altre parole, la novità di Spica è la spettroscopia, dunque la risoluzione ci interessa molto di meno, perché riusciamo a distinguere le sorgenti spettralmente anziché spazialmente».

Significa che dobbiamo attenderci tanti bei codici a barre, però allo stesso tempo meno belle immagini, tipo quelle spettacolari della Via Lattea che ci aveva mostrato Herschel?

«No, avremo anche immagini: immagini in polarimetria, che ci diranno come si dispone il campo magnetico. E faremo più fisica. Prendiamo l’esempio dell’evoluzione delle galassie. Noi sappiamo che l’evoluzione delle galassie – perlomeno negli ultimi 10-12 miliardi di anni – avviene in ambiente “oscurato”. Questo perché la formazione stellare è oscurata: la polvere si forma molto presto, nell’universo, a causa delle supernove. Dunque noi viviamo in un universo oscurato. Lo Hubble Space Telescope e i telescopi terrestri vedono solo la “buccia” di quello che succede. Per poter guardare sotto a questa buccia, per poter osservare i fenomeni, abbiamo bisogno dell’infrarosso. E soprattutto della spettroscopia infrarossa, perché quantifica le informazioni che ci occorrono».

A proposito di spettrometria: quali strumenti monterà, Spica?

«Gli spettrometri saranno due. Uno è per il lontano infrarosso: si chiama Safari, va da 35 a 230 micron, ed è uno strumento europeo – a cui anche noi, come Inaf, partecipiamo. Poi c’è uno spettrometro giapponese che va da 12 a 35 micron, dunque per il medio infrarosso, e che ha anche una camera per immagini. Infine c’è un terzo strumento, questa volta francese, per fare immagini in polarimetria. È uno strumento del tutto nuovo: il primo a bordo di un satellite in grado di fare polarimetria tra i 70 e i 350 micron. Ed è molto interessante per studiare in polarimetria, ad esempio, il ruolo dei campi magnetici nella formazione stellare e andare ad analizzare quali sono i meccanismi che entrano in gioco nella formazione stellare. Sappiamo che viene rallentata dai campi magnetici, sappiamo anche che ci sono tutti questi filamenti in cui la materia collassa e dà origine alle nuove stelle. È ora il momento di studiare i campi magnetici in questi filamenti».

Qual è la durata prevista della missione?

«Per ora la Jaxa garantisce tre anni, ma dobbiamo arrivare a cinque anni. Parliamo di un oggetto da un miliardo di euro, dunque con un “costo orario” per il tempo osservativo molto elevato. È chiaro che questo ci spingerà ad avere una missione di cinque anni, e penso che ci si possa arrivare. D’altronde abbiamo ancora quasi 15 anni di lavoro davanti a noi».

Ecco, a proposito del costo: un miliardo di euro significa che Spica – rispetto alle altre due proposte in gara, Theseus ed EnVision – è di gran lunga la più cara…

«Sì, ma la quota a carico dell’Esa è di circa la metà, 550 milioni. A questa si devono aggiungere 300 milioni da parte del Giappone – la quota Jaxa. Infine c’è il costo degli strumenti sul piano focale, i due strumenti europei, e parliamo di circa 250-300 milioni. Quindi è vero che il costo globale della missione supera il miliardo, ma per l’Esa è comunque vantaggioso, perché si ritroverebbe di fatto ad avere una missione di taglia large pagandola quanto una medium size mission».

Nel frattempo gli Stati Uniti stanno lavorando all’Origins Space Telescope. Prevedono anche loro uno specchio raffreddato, addirittura a 4 kelvin, dunque una temperatura persino più bassa di quella di Spica. Potrebbe diventare un vostro rivale?

«Be’, loro partono dai nostri risultati e rilanciano… con uno specchio di 5.9 metri e un costo di 5 miliardi di dollari. Benissimo, tanti auguri! Voglio dire, non siamo in competizione, anzi: Origins rafforza l’idea di fare un supertelescopio, perché significa che questo filone di ricerca – del lontano infrarosso, soprattutto della spettroscopia – è un filone importante nell’astrofisica moderna. Infatti con Origins non c’è competizione, c’è collaborazione: l’Europa sta mettendo in campo forze per lo spettrometro ad alta risoluzione eterodina, anche il mio gruppo collaborerà in futuro con loro, io stesso spero di partecipare a Origins… Insomma, con gli americani c’è una piena collaborazione».

Male che vada, se Spica non dovesse venir selezionato dall’Esa, potreste comunque continuare il progetto scientifico su Origins?

«Ma sì, in fondo il team di Origins ha “copiato”, tra virgolette, il nostro caso scientifico, nel senso che quanto abbiamo sviluppato negli ultimi dieci anni è diventato un punto di partenza della loro proposta. Ma se devo fare una previsione, credo che difficilmente Origins sarà selezionato prima che Jwst sia lanciato e abbia avuto successo. Anche se a lunghezze d’onda complementari, Jwst è pur sempre un telescopio infrarosso (arriva a 28 micron)».

Ecco, a proposito: quali sono gli obiettivi scientifici chiave di Spica?

«Anzitutto lo studio dell’evoluzione delle galassie da redshift zero a redshift quattro con la spettroscopia infrarossa, perché ci permette di distinguere tra processi di accrescimento di buchi neri e di formazione stellare in modo fisico, cioè con misure spettrali che ci spiegano la fisica degli oggetti. Poi c’è anche un progetto importante per quel che riguarda i dischi protoplanetari, visto che lo strumento giapponese ha un canale ad alta risoluzione e capacità spettroscopiche eccellenti per capire qual è la transizione tra un disco protoplanetario e un sistema planetario vero e proprio. Infine, lo studio della polarimetria nelle nubi di formazione stellare. Ne approfitto per ricordare che proprio la settimana scorsa si è tenuta, nell’isola di Creta, la conferenza internazionale dedicata a Spica. C’erano oltre 160 ricercatori di tutto il mondo, fra i quali un gruppo di cosmologia della Scuola Normale Superiore di Pisa che ha presentato un risultato esemplare per illustrare le potenzialità di Spica».

Predizioni sulle potenzialità di Spica per lo studio delle antiche galassie. Crediti: Cosmology Group @ Scuola Normale Superiore

Di che risultato si tratta?

«Alma ha rivelato galassie formatesi poche centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang con formazione stellare attiva e una grande quantità di polvere, del tutto inaspettata per quelle epoche cosmiche. L’ipotesi più accreditata è che siano state le prime supernove esplose nell’universo. Il confronto dei dati Alma, Spitzer e Hubble con i modelli ha permesso al gruppo di Pisa di determinare le proprietà di una di queste galassie, YD4. Da questo risultato sono state fatte predizioni che dimostrano come Spica sarà in grado non solo di scoprire altre galassie simili nell’epoca della reionizzazione, ma anche di studiare per la prima volta origine, proprietà e composizione della polvere in galassie primordiali, e forse anche di identificare le prime stelle dell’universo».

Quali compiti saranno a carico dell’Europa e quali spettano invece al Giappone?

«Il lanciatore è giapponese, il payload è anch’esso di responsabilità giapponese, lo specchio e il service module sono europei, e gli strumenti – come dicevo – sono due europei e uno giapponese».

E l’Italia?

«La preparazione della parte scientifica della Fase A di Spica è coordinata dall’Inaf Iaps di Roma e coinvolge ben 11 gruppi di lavoro in Italia, finanziati dall’Agenzia spaziale italiana: oltre allo Iaps ci sono l’osservatorio Inaf e l’università di Bologna, l’università di Padova, la Scuola Normale Superiore di Pisa, le università Sapienza e Roma Tre e l’Osservatorio Inaf di Monte Porzio a Roma e l’Osservatorio Inaf di Arcetri a Firenze. La parte tecnologica, sempre coordinata dall’Inaf Iaps, coinvolge poi l’Osservatorio Inaf di Torino e, a Roma, il Dipartimento di ingegneria della Sapienza.  Parteciperemo anche agli instrument control center della missione, quindi seguiremo l’analisi dei dati, avremo accesso ai dati e saremo fra gli istituti più importanti a farlo, perché scriviamo il software di bordo e conosciamo gli strumenti e i dati prodotti. Insomma avremo una posizione privilegiata per sfruttare i dati a posteriori».

Non è la prima volta che Spica gareggia per una selezione. Ripercorriamo in breve com’è andata in passato.

«Nel 2009, a Parigi, eravamo candidati alla Cosmic Vision di Esa, insieme a Plato ed Euclid, entrambe missioni ormai approvate. All’epoca eravamo in competizione con loro, poi visto il forte impegno – almeno presunto – da parte del Giappone, che avrebbe dovuto metterci 700 milioni di dollari, l’Esa decise di considerare Spica una cosiddetta mission of opportunity. Con un contributo europeo relativamente piccolo, dunque: avremmo dovuto fornire lo specchio e una delle basi a terra per seguire la missione, parliamo di un impegno di 150 milioni di euro. Così siamo stati parcheggiati su questo binario. Poi, però, si è rivelato un binario morto».

In che senso?

«Dopo lo tsunami, dopo i problemi che ha avuto, il Giappone ha fatto marcia indietro e ha dimezzato la sua quota. Va però detto che, nel frattempo, la missione si è irrobustita tantissimo: è ormai molto consolidata, ci abbiamo lavorato per 13 anni, a questo progetto. Ora sia l’Esa che la Jaxa vogliono fare questo telescopio, conviene a entrambe. E se non sbagliamo qualcosa andremo al lancio».

La Jaxa pensate di convincerla, l’Esa pure… Ma noi comuni cittadini europei? Perché, potendo idealmente prendere parte al processo di selezione, dovremmo investire 550 milioni in Spica, preferendola a EnVision o a Theseus? D’altronde, c’è stato da poco Herschel, e il resto lo fa quasi tutto Alma…

«Spica è l’unica missione che ci permetterà di far luce sui processi oscurati di formazione ed evoluzione delle strutture, dalle galassie alle stelle ai pianeti. E grazie alla spettroscopia, vent’anni dopo Herschel – spento nel 2013, mentre la data di lancio prevista per chi supererà la selezione M5 è il 2032 – potremo studiare la fisica delle sorgenti oscurate. Non dimentichiamoci che le nuove misure fornite da Alma sulle galassie primordiali mostrano come gran parte della “vita” dell’universo sia stata “oscurata”, e sia quindi invisibile nell’ottico e nell’ultravioletto. Inoltre, noi ci occupiamo di tutta l’astrofisica, siamo a campo largo: che si vogliano studiare i pianeti, la formazione stellare, la cosmologia o l’evoluzione delle galassie, un telescopio spaziale infrarosso – un osservatorio a portata di mano di tutti, perché tutti potranno avere tempo di osservazione su questo telescopio – ci dà più possibilità che non concentrarci su un particolare fenomeno, magari molto importante, ma che non soddisfa tutta la comunità. Con Spica fai di tutto e di più: è un telescopio che ci può far vedere tutto, in qualunque settore».


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