LO STUDIO SU NATURE COMMUNICATIONS

Come ti scovo le prime galassie

Un nuovo metodo statistico di analisi delle riprese infrarosse realizzate da Hubble e proposto da un gruppo di astronomi guidato da ricercatori dell’Università della California, a Irvine, indica che, quasi 13 miliardi di anni fa, c'erano molte più galassie di quanto si pensasse finora. Il commento di Adriano Fontana (INAF)

     09/09/2015
I tre pannelli mostrano componenti differenti della radiazione infrarossa di fondo reccolta nelle campagne osservative del cielo profondo con il telescopio spaziale Hubble. In quello a sinistra c'è un mosaico di immagini raccolte in un periodo di oltre 10 anni. Quando tutte le stelle e le galassie presenti vengono mascherate, i segnali di fondo possono essere isolati, come è visibile negli altri due pannelli. Quello centrale, in particolare, mette in evidenza la luce "intra-halo" prodotta da stelle massicce isolate, lontane dalle loro galassie di origine. Il pannello di destra invece mostra i segnali associati alle prime galassie che si sono formate nell'universo. Crediti: Ketron Mitchell-Wynne/UCI

I tre pannelli mostrano componenti differenti della radiazione infrarossa di fondo reccolta nelle campagne osservative del cielo profondo con il telescopio spaziale Hubble. In quello a sinistra c’è un mosaico di immagini raccolte in un periodo di oltre 10 anni. Quando tutte le stelle e le galassie presenti vengono mascherate, i segnali di fondo possono essere isolati, come è visibile negli altri due pannelli. Quello centrale, in particolare, mette in evidenza la luce “intra-halo” prodotta da stelle massicce isolate, lontane dalle loro galassie di origine. Il pannello di destra invece mostra i segnali associati alle prime galassie che si sono formate nell’universo. Crediti: Ketron Mitchell-Wynne/UCI

Alcuni scienziati guidati da Ketron Mitchell-Wynne, studente di dottorato dell’Università della California a Irvine, hanno messo a punto un nuovo metodo statistico per analizzare le immagini del cielo profondo raccolte dal telescopio spaziale Hubble. Con questa tecnica, i ricercatori sono riusciti ad estrapolare nuove preziose informazioni dalle riprese di archivio e dare così una nuova stima del numero di piccole galassie presenti ad appena qualche centinaio di milioni di anni dal Big Bang, che risulta quasi dieci volte maggiore di quanto si ritenesse finora.

L’indagine si è spinta nella cosiddetta “epoca della reionizzazione”, un periodo compreso tra circa 200 e 900 milioni di anni dopo il Big Bang, in cui la radiazione ultravioletta prodotta dalle prime stelle massicce che si sono accese ha ionizzato l’idrogeno neutro che pervadeva l’universo, rendendolo ‘trasparente’.

«E’ proprio a partire da questa epoca che oggi possiamo scorgere e studiare i più remoti oggetti celesti, anche con Hubble. Più indietro non si può andare» dice Mitchell-Wynne, primo autore dell’articolo che descrive la tecnica utilizzata e i risultati ottenuti, pubblicato su Nature Communications.

Il quadro che emerge dallo studio sembra confermare le indicazioni già fornite qualche anno fa da un’altra indagine, che attribuiva almeno una parte dell’eccesso di radiazione di fondo infrarossa alle stelle giganti sfuggite alle galassie primordiali, le cosiddette “stelle intra-halo”. «Oggi, anche grazie ai dati raccolti dalle osservazioni del progetto CIBER, siamo in grado di confermare l’esistenza di questa ‘luce intra-halo’ proveniente da stelle isolate, lontane dalle galassie più distanti che riusciamo a scorgere» commenta Asantha Cooray, professore dell’Università della California a Irvine, che ha guidato gli studi precedenti e partecipato al lavoro appena pubblicato. «Abbiamo però fatto una nuova scoperta, applicando il nostro metodo alle riprese di Hubble in cinque bande nelle lunghezze d’onda dell’infrarosso. Riusciamo infatti a vedere una nuova componente, quella prodotta da stelle e galassie che si sono formate per prime nell’universo».

L’indagine del cielo profondo ha sfruttato parte dei dati raccolti da CANDELS (Cosmic Assembly Near-Infrared Deep Extragalactic Legacy Survey), un ambizioso progetto di ricerca condotto con Hubble. I ricercatori hanno letteralmente “speremuto” le informazioni presenti nelle riprese digitalizzate del telescopio spaziale. «Abbiamo analizzato accuratamente ogni singolo pixel, con una particolare attenzione a quelli ‘vuoti’ che si trovano tra le galassie e le stelle» aggiunge Cooray.  I ricercatori sono riusciti a separare il rumore dal flebile segnale associato alle prime galassie osservando le variazioni di intensità tra un pixel e l’altro, estraendo così un segnale statistico che ci indica la presenza di una popolazione composta da oggetti molto deboli. Il segnale estrapolato è presente solo nella banda infrarossa, non nella luce visibile. E questo per i ricercatori è la conferma che esso ha origine nelle epoche più remote dell’universo.

«Questo metodo indiretto proposto dal team di Mitchell-Wynne in un certo senso va a “grattare il fondo del barile” dei dati di Hubble, alla ricerca di oggetti troppo deboli per essere visti individualmente, ma che comunque possiedono un loro piccolo segnale aggiuntivo, confuso nel rumore di fondo presente nelle immagini digitali” commenta Adriano Fontana, astronomo dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Roma. «Quella proposta è una tecnica molto complessa che permette di stimare quanti oggetti invisibili sono nascosti nelle immagini di Hubble. Certo, a questi livelli di incertezza le interpretazioni dei risultati sono particolarmente delicate. Con l’entrata in funzione dei telescopi della nuova generazione, come E-ELT da terra e il James Webb Space Telescope dallo spazio avremo però a disposizione osservazioni molto più accurate dell’universo remoto che potranno aiutarci a conoscere meglio le proprietà e l’abbondanza delle stelle e galassie che si sono mostrate al termine dell’era della reionizzazione».

Per saperne di più:

  • l’articolo Ultraviolet luminosity density of the universe during the epoch of reionization di Ketron Mitchell-Wynne et al., pubblicato su Nature Communications