Astronauti come in un videogioco sparatutto. Costretti a spostare l’astronave su e giù per evitare l’impatto con i “nemici”. Solo che non siamo in uno dei livelli di Battlezone, Asteroids o qualche altro arcade game d’annata. Qui è tutto vero: succede a 400 chilometri sopra le nostre teste, a bordo della Stazione spaziale internazionale. E succede pure piuttosto spesso: «Di manovre evasive, in inglese collision avoidance maneuver», conferma Claudio Portelli, ingegnere dell’Agenzia spaziale italiana ed esperto in detriti spaziali, «sulla Stazione spaziale ne vengono effettuate tre o quattro all’anno». Ma quel che è peggio è che il “nemico” principale siamo noi. O meglio: la spazzatura che producono i nostri satelliti artificiali quando vanno in frantumi.
Come nel caso della DAM (debris avoidance maneuver) avvenuta alle 04:36 ora italiana del 2 aprile scorso: annunciata sul web della NASA e subito rimbalzata su Twitter («ISS to Perform Engine Burn to Avoid Orbital Debris»), a renderla necessaria è stato il potenziale rischio d’impatto con “l’oggetto 34443”. Vale a dire, un frammento residuo della collisione avvenuta nel febbraio 2009 fra uno dei satelliti commerciali della costellazione Iridium e il satellite russo per telecomunicazioni Cosmos 2251. E, a differenza d’un videogioco, per cambiare rotta non è bastato un tocco sulla tastiera, o una leggera pressione sul joystick. C’è voluta la spinta di ben tre “assistenti”: la capsula Progress e il modulo di servizio russi da una parte, e l’orbit correction system del modulo ATV-2 dell’ESA dall’altra. Tre minuti e 18 secondi d’accensione motori per mettere l’ISS e il suo equipaggio – del quale fa parte anche l’astronauta ESA Paolo Nespoli, a bordo della Stazione dal 17 dicembre scorso – al sicuro. «Uno spostamento minimo. L’importante è far sì che l’ISS e il detrito», spiega Portelli, «non corrano alcun rischio di collisione». E il rischio c’era tutto: stando alle stime del sistema americano di tracking dei detriti, senza alcun tipo d’intervento il temutissimo “oggetto 34443” sarebbe sfrecciato, alla velocità folle di 28mila chilometri all’ora, a poco più di 10 chilometri dalla ISS. «Non esiste sulla Terra nessun proiettile che raggiunga velocità simili. Velocità alle quali anche un oggetto di appena uno o due centimetri di diametro è in grado di perforare qualsiasi corazza protettiva», osserva Portelli.
Come difendersi? Scansandosi, certo, come ha fatto la Stazione spaziale. Ma per spostarsi in tempo occorre avere una mappa aggiornata e dettagliata di tutti questi proiettili vaganti. O perlomeno di tutti quelli abbastanza grandi da causare danni. Sono un numero impressionante: la sola Space Surveillance Network del Dipartimento della Difesa americano ne ha in catalogo quasi 20mila. E purtroppo, sapere che esistono non basta. La loro orbita non è semplice da tracciare, specie per i più piccoli, al punto che, con i mezzi attuali, spesso si riesce a determinare la necessità o meno d’una manovra d’evitamento solo attorno alle 24-48 ore prima del momento del potenziale impatto.
Ora l’ESA, l’Agenzia spaziale europea, sta pensando d’affiancare il sistema Usa con una rete di rilevamento tutta europea. «Il sistema si chiama Space Situational Awareness», dice Portelli, che è il delegato italiano per seguire il board delle attività del programma. «È partito attorno al 2008, e la fase preparatoria durerà fino al 2012. Abbiamo già fatto un censimento delle strutture europee che possono cominciare a contribuire al riempimento del catalogo. E alcune si trovano proprio in Italia: a Medicina, vicino a Bologna, e a Noto, dove sorgono i radiotelescopi dell’Istituto di Radioastronomia dell’INAF. Potrebbero essere adeguati a un servizio di sorveglianza dello spazio. Una sperimentazione è già stata avviata, con un contratto dell’Agenzia spaziale italiana, per rilevare oggetti con dimensioni fino a 3 centimetri: abbiamo capacità ottime, insomma».
E la NASA, nel frattempo, sta pure prendendo in considerazione la possibilità di polverizzare i detriti con un raggio laser. Come in un videogioco sparatutto. Appunto.
Per saperne di più: ascolta l’intervista integrale di Media INAF a Claudio Portelli