“OSSERVATO” NEL 1917 SENZA RENDERSENE CONTO

Quel sistema planetario nello scantinato

Le righe d’assorbimento d’uno spettro impresso un secolo fa su una lastra di vetro conservata ai Carnegie Observatories rappresentano la prima prova mai ottenuta d’un sistema planetario extrasolare. A scoprirla, un astronomo dello University College London, Jay Farihi

     12/04/2016
Crediti: Carnegie Institution for Science

Crediti: Carnegie Institution for Science

L’astronomo è un po’ archeologo, si dice. Perché scrutare lontano nello spazio implica guardare indietro nel tempo. Così che di una stella distante cento anni luce da noi quel che vediamo oggi, in realtà, è l’aspetto che aveva un secolo fa.

Ma a volte non serve nemmeno il telescopio, per guardare così indietro nel tempo. A volte può bastare scendere le scale che portano giù, nello scantinato, per ritrovarsi all’improvviso a quasi un secolo di distanza, al 1917. E scoprirvi un mondo. Un mondo che mai nessuno aveva “visto” prima. Un mondo alieno. Anzi, un intero sistema planetario, in orbita attorno a una nana bianca, nota agli astronomi come “la stella di van Maanen”, a circa 14 anni luce da noi.

La storia raccontata oggi sul sito della Carnegie Institution for Science, se da una parte consente – pur con tutti i limiti del caso – di retrodatare di quasi ottant’anni la “scoperta” del primo esopianeta, o meglio del primo sistema planetario extrasolare, dall’altra ha tutti gli ingredienti per un romanzo.

È la storia di un ricercatore, di uno scantinato e di una lastra di vetro.

Il ricercatore si chiama Jay Farihi, lavora allo University College London, e circa un anno fa contattò John Mulchaey, direttore dei Carnegie Observatories, per un articolo sulle nane bianche al quale stava lavorando. La nana bianca che interessava Farihi era Gliese 35, nota, appunto, anche come “la stella di van Maanen” dal nome dell’astronomo che nel 1917 per primo la osservò: l’olandese naturalizzato statunitense Adriaan van Maanen.

Ebbene, rovistando nello scantinato dei Carnegie Observatories, proprio come Farihi sperava e s’aspettava, ecco emergere la lastra fotografica che vedete qui di seguito, e della quale ci occuperemo fra qualche riga, all’interno della custodia riportata nell’immagine di apertura, compilata a mano niente meno che da Walter Adams, all’epoca direttore del leggendario osservatorio di Mount Wilson – quello dal quale Edwin Hubble scoprì che l’universo s’espande e Fritz Zwicky che esiste la materia oscura, per dirne due.

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La lastra fotografica del 1917 con lo spettro della stella di van Maanen conservata nell’archivio dei Carnegie Observatories. A sinistra, il dettaglio ingrandito delle porzioni di spettro assorbite. Crediti: Carnegie Institution for Science

L’osservazione di Walter Adams, datata 24 ottobre 1917, non contiene però – almeno a prima vista – alcunché di nemmeno vagamente paragonabile, quanto a importanza, alle scoperte di Hubble e Zwicky. Due serie di punti neri talmente ravvicinati da sembrare righe continue e, al centro, una terza riga più sottile che sul lato sinistro si va affievolendo, mostrando qualche interruzione qua e là. Questa terza riga, la più fine, è lo spettro della luce emessa dalla stella di van Maanen quel lontano mercoledì di un secolo addietro.

Nulla di speciale, dicevamo, almeno a prima vista. Ma a volte l’essenziale è invisibile agli occhi, e non tanto perché non lo si veda bene che col cuore – almeno non in questo caso – quanto perché l’essenziale, in quella fioca traccia, è in ciò che non si vede. Nei buchi. Nei tratti mancanti. Gli intervalli quasi impercettibili che interrompono la traccia, sulla sinistra, prima che questa scompaia del tutto, corrispondono infatti a lunghezze d’onda assorbite da altrettanti elementi: sono le firme da essi impresse sullo spettro d’assorbimento. Firme che, quando le ha riconosciute, hanno lasciato Jay Farihi senza fiato. Ad apporle, in quel lontano ottobre, sulla luce proveniente dalla stella di van Maanen, erano stati atomi di calcio, di magnesio e di ferro. Atomi troppo pesanti per trovarsi sulla stella stessa, soprattutto sulla sua superficie. E allora dove si trovavano, quando hanno scarabocchiato il loro nome fissandolo per sempre sulla lastra di vetro conservata nello scantinato della Carnegie?

Erano attorno alla stella. Nel disco di detriti che l’avvolge. Gli astronomi dell’epoca non lo potevano sapere, perché solo negli ultimi 12 anni si è compreso che la stella di van Maanen, così come le altre nane bianche con la firma di elementi pesanti nei loro spettri, rappresentano un tipo di sistema planetario con vasti anelli di residui planetari rocciosi che lasciano detriti nell’atmosfera stellare. Nane bianche contaminate, è l’etichetta che hanno affibbiato loro gli astronomi, alquanto sorpresi: le nane bianche sono infatti, alla fine della loro vita, stelle come il nostro Sole, quindi non era affatto previsto che ci fosse ancora, in quella fase, materiale planetario residuo attorno a loro.

«Aver scoperto che questa lastra del 1917, conservata nel nostro archivio, contiene la prima prova mai registrata d’un sistema di nana bianca contaminata è semplicemente incredibile», dice Mulchaey. «E il fatto che sia opera d’un astronomo di primo piano come Walter Adams non fa che accrescere l’eccitazione».

Tornando al presente: contaminazione a parte, ci sono o no dei pianeti, in orbita là attorno Gliese 35? Se sì, ancora non sono stati individuati. Né attorno alla stella di van Maanen, né attorno a sistemi simili. Ma Farihi è sicuro che sia solo solo una questione di tempo. E fra lui e il tempo, per quel poco che abbiamo visto, pare ci sia un’ottima intesa.