A frugare tra i segreti della polvere si è messo un gruppo internazionale di ricercatori guidati da Noel Richardson, professore di fisica e astronomia all’Embry-Riddle Aeronautical University, in Arizona. La polvere cosmica, diversa da quella che tanto ci tedia nelle nostre abitazioni, è costituita prevalentemente da silicati, grafite e da aggregati ricchi di carbonio. In luoghi polverosi nascono le stelle, così come ricchi di polveri sono i dischi protoplanetari, da cui pianeti come il nostro hanno preso forma. Non si conosce ancora bene come e quando venga prodotta tutta la polvere che c’è nell’universo, e anche alcuni dettagli sulla sua composizione chimica sfuggono agli astronomi. Che, per penetrarne i segreti, hanno messo gli occhi su un gruppo di stelle evolute dalle caratteristiche peculiari, chiamate stelle di Wolf-Rayet.
«Le stelle di Wolf-Rayet sono essenzialmente stelle massicce altamente evolute che non presentano nessuna traccia di idrogeno», dice Richardson, primo autore di uno studio sulla polvere che avvolge questi oggetti celesti uscito ieri su The Astrophysical Journal. «Hanno perso l’idrogeno nella parte esterna della stella, fondendo l’elio nel nucleo, il che significa che si stanno avvicinando alla fine del loro ciclo vitale».
Quando i venti prodotti da queste stelle prossime alla fine collidono con quelli generati da stelle massicce situate nei paraggi, si vengono a formare delle strutture concentriche ricche di polvere a base di carbonio. Sinora, questi gusci polverosi erano stati osservati su grande scala in un’unica stella di Wolf-Rayet, chiamata Wr-140. Nelle immagini ad alta risoluzione ottenute con lo strumento Miri del James Webb Space Telescope, si vedono chiaramente ben 17 gusci che circondano il sistema binario di Wr-140. Adesso i ricercatori hanno puntato il più potente telescopio al mondo verso altre quattro stelle di Wolf-Rayet. Scoprendo che anche queste ultime sono accerchiate da strutture concentriche ricche di polvere.

La stella di Wolf-Rayet Wr-140 immortalata dal James Webb Space Telescope. La stella è circondata da 17 gusci di polvere, catturati dallo strumento Miri di Webb. Crediti: Nasa, Esa, Csa, StScI, Nasa-Jpl, Caltech
«Non solo abbiamo scoperto che la polvere in questi sistemi è longeva e si diffonde nello spazio, ma abbiamo anche scoperto che questo non riguarda solo un sistema», aggiunge Richardson. “Longeva”, in questo caso, significa che la polvere è in vita da 130 fino a oltre 300 anni, in alcuni sistemi binari.
Tra i coautori della ricerca c’è Ryan Lau, dell’Nsf NoirLab di Tucson, in Arizona, secondo cui il nuovo studio «ha confermato che stiamo osservando in altri sistemi lo stesso schema di gusci di polvere ancora in vita che abbiamo osservato intorno a Wr-140. Queste osservazioni dimostrano che la polvere prodotta dalle stelle di Wolf-Rayet può sopravvivere al difficile ambiente stellare». Ciò significa che bisogna tenere conto della polvere generata attraverso questo canale quando si vuole stimare il contenuto totale di polvere nelle galassie.
Per un’analisi accurata delle polverose strutture, fondamentale è stato rimuovere gli artefatti che spesso costellano le immagini di Webb e che possono inficiare lo studio delle sorgenti astrofisiche, lavoro meticoloso svolto dalla studentessa Corey Kehl dell’Embry-Riddle. «Credo che essere coinvolti nella ricerca sia l’epitome di cosa significhi essere uno scienziato, soprattutto un fisico», dice Kehl. «Vedi i principi per cui hai lavorato così duramente come studente universitario davvero in azione».

Le nuove osservazioni di Miri che ritraggono quattro stelle di Wolf-Rayet in sistemi binari. Come per Wr-140, anche in questi casi sono visibili diversi gusci di polvere che attorniano le stelle. Crediti: Nasa, Esa, Csa, Richardson et al.
Ultimo tassello: gli spettri. Oltre a confermare la presenza della polvere, gli spettri sono necessari per rivelare la composizione chimica dei grani e provarne a prevedere le sorti. Per il futuro gli scienziati sperano di ottenerli per rispondere ad alcune domande attualmente insolute. «Dove va a finire questa polvere?» si chiede Lau. «Vogliamo capire esattamente qual è la sua chimica. Per farlo, dobbiamo analizzare gli spettri per identificare la composizione specifica dei grani – le proprietà fisiche – e farci un’idea del contributo chimico al mezzo interstellare».
Per saperne di più:
- Leggi su The Astrophysical Journal l’articolo “Carbon-rich Dust Injected into the Interstellar Medium by Galactic WC Binaries Survives for Hundreds of Years” di Noel D. Richardson, Micaela Henson, Emma P. Lieb, Corey Kehl, Ryan M. Lau, Peredur M. Williams, Michael F. Corcoran, J. R. Callingham, André-Nicolas Chené, Theodore R. Gull, Kenji Hamaguchi, Yinuo Han, Matthew J. Hankins, Grant M. Hill, Jennifer L. Hoffman, Jonathan Mackey, Anthony F. J. Moffat, Benjamin J. S. Pope, Pragati Pradhan, Christopher M. P. Russell, Andreas A. C. Sander, Nicole St-Louis, Ian R. Stevens, Peter Tuthill, Gerd Weigelt e Ryan M. T. White






