LO STUDIO È STATO PUBBLICATO SU THE ASTROPHYSICAL JOURNAL LETTERS

C’è molta più luce nell’universo primordiale

Analizzando le immagini dello spazio profondo catturate dallo strumento NirCam di Jwst, un team di ricercatori guidati dal Center for Astrobiology ha trovato nell'universo primordiale, ossia a pochi milioni di anni dopo il Big Bang, molte più galassie di quelle previste dalle simulazioni cosmologiche. Galassie che, oltretutto, sembrano essere molto più luminose e compatte di quanto si pensasse

     03/07/2023

A sinistra, immagine del campo ultra-profondo utilizzato dalla collaborazione Miri Deep Imaging Survey (Midis) per la ricerca di galassie primordiali. L’immagine combina i dati acquisiti con la fotocamera NirCam, che opera alle lunghezze d’onda del vicino e del medio infrarosso. Nei riquadri a destra sono mostrate invece alcune delle 44 galassie ad alto redshift identificate nello studio. Si sarebbero formate nei primi 200-500 milioni di anni dopo il Big Bang, quando l’età dell’universo era dall’1 al 5 per cento della sua età attuale. Crediti: Pierluigi Rinaldi, Rafael Navarro-Carrera, Pablo G. Pérez-González.

I modelli e le osservazioni astronomiche sono strumenti essenziali nel campo dell’astrofisica. I modelli permettono ai ricercatori di simulare e prevedere un’ampia gamma di fenomeni astronomici, come la formazione e l’evoluzione delle galassie, l’evoluzione delle stelle e la dinamica dei sistemi planetari. Le osservazioni forniscono invece le prove empiriche di questi fenomeni.

L’utilizzo di questi due approcci alla ricerca prevede naturalmente il confronto dei dati ottenuti. Quando ciò avviene, la condizione ideale è che i risultati siano concordanti. Tuttavia non sempre è così. Può capitare infatti che i dati raccolti siano in contrasto con le osservazioni, o dissimili da quelli che emergono dalle simulazioni, mettendo in discussione le previsioni fatte dai modelli.

È quanto è successo a un team internazionale di ricercatori guidati dal Center for Astrobiology (Cab) che, analizzando i dati ottenuti dal telescopio spaziale James Webb (Jwst), ha trovato nell’universo primordiale, quello cioè formatosi pochi milioni di anni dopo il Big Bang, molta più luce di quella prevista dalle simulazioni cosmologiche.

I risultati di questa ricerca sono stati pubblicati di recente sulle pagine della rivista The Astrophysical Journal Letters. Il titolo della pubblicazione è Life beyond 30: Probing the −20 < MUV < −17 Luminosity Function at 8 < z < 13 with the NIRCam Parallel Field of the MIRI Deep Survey, dove Life beyond 30, spiega a Media Inaf  Pierluigi Rinaldi, dottorando all’Università di Groningen e co-autore dell’articolo, «si riferisce al fatto che oggi, grazie al Jwst, è possibile ottenere immagini molto profonde dell’universo, con appunto una profondità maggiore di 30 in magnitudine (più alto è il suo valore, più ci si sta spingendo verso sorgenti molto deboli)».

Nello studio, Pablo G. Pérez-González, astrofisico del Cab, e colleghi hanno raccolto dati da una regione dello spazio situata nella costellazione della Fornace, contenente migliaia di galassie che esistevano già 13 miliardi di anni fa – circa 700 milioni di anni dopo il Big Bang. Si tratta di uno spicchio di cielo su cui il telescopio spaziale Hubble ha messo già gli occhi, tant’è che è conosciuta col nome di Hubble eXtreme Ultra-deep Field (Xdf). Le osservazioni sono state condotte utilizzando la Near-Infrared Camera (NirCam), l’imager principale e strumento di prima luce di Webb, in grado di acquisire immagini ad alta risoluzione.

«Fino allo scorso anno», prosegue Rinaldi, «le immagini più profonde dello spazio provenivano dall’Hubble eXtreme Deep Field, con una profondità (5 sigma) attorno a magnitudine 29.5. Oggi, invece, grazie al Jwst, e in particolare allo strumento NirCam, ci si può spingere oltre, quindi beyond, e osservare l’universo più profondo».

«Nel dicembre 2022 abbiamo raccolto dati in un’area del cielo nota come Hubble Ultra-deep Field utilizzando lo strumento Miri di Jwst, che ha trascorso 50 ore a raccogliere fotoni di galassie lontane» dice Göran Ostlin, Co-Principal Investigator dello strumento e co-autore dello studio. «Parallelamente», continua Ostlin, «è stato acceso anche lo strumento NirCam, la camera più sensibile di Jwst, e con esso, nell’ambito del programma Miri Deep Imaging Survey (Midis), abbiamo raccolto dati che ci hanno permesso di rilevare galassie dieci volte più deboli di quelle che erano state studiate durante i primi sei mesi di attività scientifiche di Jwst».

Il passo successivo nel lavoro di ricerca è stato quello di selezionare, tra le miriadi di galassie individuate, quelle ad alto spostamento verso il rosso, in particolare quelle con un redshift compreso tra otto e tredici, cioè galassie formatesi da 500 milioni a circa 350 milioni di anni dopo il Big Bang. L’analisi ha permesso di individuare un campione di galassie formatesi nei primi 600 milioni di anni dell’universo, meno del 4 per cento della sua età attuale (stimata in circa 13,7 miliardi di anni), alcune delle quali risalenti addirittura ai primi 200 milioni di anni dell’universo, l’1 per cento circa della sua età.

«Ci siamo focalizzati su galassie ad altissimo redshift (z>8), da 600 milioni di anni dopo il Big Bang a circa 350 (z ~ 12)», sottolinea a questo proposito Rinaldi. «Analizzando i dati NirCam in Hudf-P2, e con l’aiuto di dati ausiliari di Hst, è stato possibile trovare 44 galassie che presentano dropout a 1.15 micron o 1.5 micron, dove con dropout si intende che prima di queste lunghezze d’onda non c’è alcuna emissione e che le galassie iniziano ad apparire a più alte lunghezze d’onda di quelle sopra elencate. Questo a causa del mezzo intergalattico che assorbe tutti i fotoni Uv emessi a lunghezze d’onda minore di 1216 ångström (Lyman Alpha) a questi redshift».

Il campione così costituito è stato quindi utilizzato per la fase successiva: la costruzione della cosiddetta funzione di luminosità Uv, che prevede il conteggio di galassie in funzione della magnitudine a diversi redshift. «Jwst è in grado di misurare la quantità di energia emessa nell’ultravioletto da galassie lontane. Per effetto dell’espansione dell’universo, oggi quell’energia assume la forma di fotoni infrarossi, che sono quelli che lo strumento NirCam di Jwst è in grado di rivelare» aggiunge Rinaldi. «La luce che abbiamo studiato è quella emessa da giovani stelle che stanno formandosi all’interno di giovani galassie all’alba dell’universo primordiale. Catturare questa luce (Uv), però, ha richiesto osservazioni molto profonde a lunghezze d’onda che prima non erano in alcun modo accessibili, ma che oggi col Jwst sta diventando molto più semplice fare».

Il confronto delle proprietà di queste antiche galassie e della quantità di fotoni ultravioletti emessi con quanto previsto dalle simulazioni cosmologiche è stato l’ultimo atto dello studio. Il risultato? I ricercatori hanno trovato molte più galassie del previsto. Non solo. Questi oggetti sono molto più piccoli e luminosi di quanto le simulazioni predicano, arrivando a produrre dieci volte più fotoni ultravioletti.

La domanda a questo punto è: a cosa è dovuta questa discordanza tra modelli e osservazioni? Gli scienziati un’idea se la sono fatta, ma è solo un’ipotesi.

«I fotoni ultravioletti possono essere creati da stelle giovani e calde – molto più calde del Sole – che si evolvono rapidamente e poi scompaiono, ma possono anche essere creati da buchi neri supermassicci», dice Pérez-González. «Nel nostro studio», aggiunge lo scienziato, «abbiamo trovato che le galassie primordiali sono anche molto più compatte, 2-3 volte più del previsto, il che potrebbe essere collegato alla presenza di questi buchi neri».

Se così fosse, però, le domande si moltiplicano: come hanno potuto formarsi così in fretta questi buchi neri supermassicci? Ma soprattutto, attraverso quale processo? Si sono formati forse da buchi neri primordiali che esistono quasi dal Big Bang stesso? Oppure da buchi neri che non si evolvono da stelle, come avviene normalmente, ma direttamente dal gas primordiale?

«Ancora oggi non conosciamo granché di quello che accadeva a quei redshift, ad esempio non conosciamo precisamente la fisica che c’è dietro la formazione di galassie, e questo può sicuramente influire sui modelli e sulla loro incapacità attuale di predire cosa accadde nell’universo primordiale», conclude Rinaldi. «Grazie a Jwst, osservazioni profonde e sistematiche del cielo miglioreranno la nostra conoscenza, permettendoci di collezionare molta più statistica (robusta) a quei redshift e perciò migliorare i nostri modelli di formazione ed evoluzione di galassie».

Per saperne di più:

  • Leggi su The Astrophysical Journal Letters l’articolo “Life beyond 30: Probing the −20 < MUV < −17 Luminosity Function at 8 < z < 13 with the NIRCam Parallel Field of the MIRI Deep Survey” di Pablo G. Pérez-González, Luca Costantin, Danial Langeroodi, Pierluigi Rinaldi, Marianna Annunziatella, Olivier Ilbert, Luis Colina, Hans Ulrik Noorgaard-Nielsen, Thomas Greve, Göran Ostlin, Gillian Wright, Almudena Alonso-Herrero, Javier Álvarez-Márquez, Karina I. Caputi, Andreas Eckart, Olivier Le Fèvre, Álvaro Labiano, Macarena García-Marín, Jens Hjorth, Sarah Kendrew, John P. Pye, Tuomo Tikkanen, Paul van der Werf, Fabian Walter, Martin Ward, Arjan Bik, Leindert Boogaard, Sarah E. I. Bosman, Alejandro Crespo Gómez, Steven Gillman, Edoardo Iani, Iris Jermann, Jens Melinder, Romain A. Meyer, Thibaud Moutard, Ewine van Dishoek, Thomas Henning, Pierre-Olivier Lagage, Manuel Guedel, Florian Peissker, Tom Ray, Bart Vandenbussche, Ángela García-Argumánez, Rosa María Mérida