ASTROBIOLOGIA, COMUNICAZIONE, SCIENZA E SOCIETÀ

La vita extraterrestre istruzioni per l’uso

Come andrebbe affrontata, valutata e annunciata la scoperta di potenziali tracce di vita extraterrestre? Ne parla uno studio pubblicato su Nature a fine ottobre, firmato da ricercatori della Nasa, nel quale si avanza la proposta di una scala standard per misurarne il grado di incertezza. Abbiamo chiesto un commento all’astrobiologo dell’Inaf John Brucato e al giornalista scientifico Fabio Pagan

     31/12/2021

A sinistra: le molecole di ozono nell’atmosfera di un pianeta potrebbero indicare attività biologica ma l’ozono, l’anidride carbonica e il monossido di carbonio, senza metano, rappresentano probabilmente un falso positivo. A destra: ozono, ossigeno, anidride carbonica e metano in assenza di monossido di carbonio, potrebbero invece essere una prova biologica. Crediti: Nasa

Sembra ormai un’ipotesi realistica che tocchi alla nostra generazione scoprire le prime evidenze di vita al di fuori dalla Terra. Come potremmo reagire se accadesse? E se invece si trattasse di falsi allarmi? La domanda cruciale ‘siamo soli nell’universo?’ lascia spazio alla possibilità che l’eventuale risposta positiva abbia implicazioni maggiori dei dati stessi da cui ha origine questa evidenza. Poiché il rilevamento di tracce biologiche extraterrestri diventa un obiettivo sempre più centrale nelle scienze spaziali, è essenziale aprire un dialogo collettivo su quale sia il modo migliore per trasmettere informazioni su un tema che non solo è complesso ma anche ad alto rischio di sensazionalismo. L’articolo “Call for a framework for reporting evidence for life beyond Earth”, pubblicato da sei ricercatori della Nasa alla fine di ottobre su Nature, pone le basi di un dialogo importante tra scienza e società.

I rapidissimi progressi nel campo delle scienze planetarie, dell’astronomia, della biologia e lo sviluppo delle tecnologie correlate lasciano sospesa ma incalzante la questione della vita nell’universo come mai prima, una questione da affrontare con rigore scientifico e non solo come narrativa possibilista. Una sfida parallela è delegata alla comunicazione da parte della comunità scientifica a caccia di prove. Proprio la ricerca di tali prove è spesso inquadrata come un risultato binario: sì o no, tutto o niente, o una missione spaziale restituisce prove definitive della vita extraterrestre o non ha raggiunto il suo obiettivo. «Questa natura polarizzata rappresenta un rischio per l’impresa complessiva perché causa aspettative irrealisticamente alte nelle eventuali fasi iniziali della scoperta», dice James Green, primo autore dell’articolo e chief scientist alla Nasa.

Definire come comunicare la presenza di vita fuori dalla Terra può essere utile a stabilire aspettative ragionevoli rispetto alle fasi di un’impresa estremamente impegnativa, determinando a priori il valore da dare ai passi incrementali compiuti lungo il percorso che porta alla scoperta. Stabilire il tipo di impatto della comunicazione dei risultati – e dei fallimenti – della scienza è fondamentale per costruire un rapporto di fiducia con la società nel suo complesso, chiarendo che le false partenze e i vicoli ciechi sono parte integrante e potenzialmente produttiva del processo scientifico. E svalutare il procedimento che produce risultati parziali rispetto a un problema rischia seriamente di erodere la fiducia del pubblico.

Nel caso particolare in questione – la vita nell’universo – la sfiducia aumenta se le segnalazioni di rilevamento biologico si rivelano ambigue o imprecise. In effetti, in passato ci sono stati numerosi annunci di ritrovamento di tracce di vita fuori dalla Terra che in seguito si sono rivelate errate o poco significative nel contesto di una risposta esclusivamente binaria. In futuro, sarebbe auspicabile riformulare il discorso sulla ricerca della vita come uno sforzo progressivo, trasmettendo il valore delle osservazioni contestuali, magari suggestive ma non ancora definitive, sottolineando intoppi e fallimenti di un processo tutt’altro che lineare.

La realizzazione di questo approccio richiede un dialogo a livello comunitario tra scienziati, tecnologi e media per stabilire a priori quali siano gli standard oggettivi per considerare effettiva una prova di vita extraterrestre e quali siano le migliori pratiche correlate per comunicare i risultati. La comunicazione all’interno della comunità scientifica e verso l’esterno dovrebbe informare, non persuadere; rivelare incertezze; definire la qualità delle prove e vaccinare contro la disinformazione. Queste linee guida sono rilevanti in tutte le discipline scientifiche, in particolare su argomenti complessi, sfaccettati e con un alto potenziale di essere fraintesi.

Gli scienziati della Nasa propongono una scala progressiva per comunicare la natura dei risultati relativi alla ricerca di vita extraterrestre. Crediti: per l’illustrazione artistica a sinistra: Nasa/Aaron Gronstal; per lo schema della CoLD scale a destra: J. Green et al., Nature, 2021

Quale potrebbe essere quindi la soluzione? Le National Academies of Sciences, Engineering, and Medicine (Nasem) statunitensi propongono di valutare le misurazioni di rilevamento della vita principalmente rispetto al loro potenziale di produrre falsi-negativi e/o falsi-positivi. Sulla base di queste premesse nasce l’idea di definire una scala mono-dimensionale di attendibilitá delle prove di vita extraterrestre, chiamata CoLD scale (confidence of life detection). Associare un certo grado di incertezza al risultato farebbe corrispondere in modo chiaro un valore di impatto sull’interpretazione e sulla diffusione dell’informazione successiva. Sebbene sia pratica comune nella scienza per trasmettere l’incertezza associata a misurazioni specifiche (tra esperti), la proposta degli autori è che anche questo sia chiaramente articolato per l’interpretazione complessiva del risultato e veicolato in tutti i livelli della comunicazione (anche verso i non esperti).

«Nei prossimi anni verranno riportati a Terra frammenti di suolo che il rover Perseverance della Nasa sta raccogliendo in questi giorni su Marte», ricorda John Brucato, astrobiologo dell’Istituto nazionale di astrofisica, al quale ci siamo rivolti per un commento. «Scoprire l’eventuale presenza di vita, anche se microbica, in questi campioni rivoluzionerà la nostra percezione come esseri viventi di centralità e unicità nell’universo; sarà una nuova rivoluzione copernicana. Perché questo accada dovremo essere in grado non solo di utilizzare le tecniche di analisi appropriate ma, cosa ancor più importante, di avere la certezza di aver rivelato vita extraterrestre».

«Vorrei sottolineare che riuscire a identificare la presenza di organismi viventi, siano essi attivi o estinti, richiede informazioni che provengono da tecniche analitiche distinte, una sorta di puzzle da comporre man mano che i risultati saranno ottenuti», precisa Brucato. «Nell’articolo pubblicato su Nature gli autori si propongono di dare agli scienziati un metodo, man mano che le analisi procedono, con cui gradualmente essere fiduciosi dei risultati che si stanno scoprendo. Noi scienziati dovremo imparare a diventare più efficaci nel comunicare i risultati della ricerca, evitando ambiguità e fraintendimenti, infondendo tutto l’entusiasmo e la meraviglia che contraddistingue il nostro lavoro».

«Fa piacere che in questo lavoro venga data evidenza anche all’aspetto della comunicazione delle scoperte (o presunte tali) in materia di astrobiologia», dice Fabio Pagan, giornalista scientifico e biologo di formazione, «perché mi pare che stia proprio qui uno degli aspetti critici ai quali bisognerebbe cercare di porre rimedio».

Da sinistra: Giovanni Caprara, David McKay, William Schopf, Fabio Pagan. Archivio fotografico: F. Pagan

Nel loro articolo su Nature Green e colleghi citano come esempio la vicenda del meteorite marziano ALH84001, trovato in Antartide: la presenza al suo interno di composti organici poteva far pensare all’azione metabolica di batteri alieni, tanto che nell’agosto del 1996 fu addirittura l’allora presidente Bill Clinton ad annunciare la scoperta delle prime tracce di vita al di fuori della Terra.

«Questa interpretazione fu soggetta negli anni seguenti a forti critiche da parte di altri ricercatori», racconta Pagan. «Nel 2000, in un panel che ebbi la ventura di coordinare all’Ictp di Trieste nell’ambito delle periodiche Conferenze sull’evoluzione chimica, il primo firmatario del famoso paper su Science, David McKay, un esperto planetologo del Johnson Space Center della Nasa, difendeva l’interpretazione biologica dei composti individuati nel meteorite marziano. A contestarlo in quell’occasione fu il battagliero Bill Schopf, paleobiologo di Ucla, che intrecciò con lui un memorabile duello scientifico. Oggi l’ipotesi di McKay e colleghi è sostanzialmente caduta – anche se McKay ha continuato a sostenerla fino alla sua morte, avvenuta nel 2013. Fu quella una vicenda emblematica del cortocircuito scientifico, mediatico e addirittura politico innescato da una ricerca astrobiologica».

Sia pure in modo meno eclatante, non sono mancate successivamente altre vicende, come la recente notizia della possibile origine biologica della fosfina identificata nell’alta atmosfera di Venere o la disputa sulla presenza o meno di bacini d’acqua salmastra al di sotto della superficie di Marte. «Tutte vicende che rendono evidente la necessità di un maggiore autocontrollo da parte dei diversi attori coinvolti: gli autori delle ricerche, le grandi riviste internazionali che pubblicano i loro risultati, gli scienziati che li commentano e naturalmente i giornalisti e i comunicatori scientifici che li diffondono. Ne va della serietà della scienza in generale e dell’astrobiologia in particolare», conclude Fabio Pagan.

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