INTERVISTA ALL’ASTROFISICO DAVIDE GEROSA

Fusioni gerarchiche di buchi neri

Mentre la maggior parte degli eventi di fusione fra oggetti estremi rilevati da Ligo e Virgo è prodotta da buchi neri cosiddetti “di prima generazione” formati dal collasso di stelle, altri potrebbero invece essere di seconda (o terza) generazione, in cui uno degli oggetti che fonde proviene già da una (o più) precedente fusione fra buchi neri. Un articolo pubblicato oggi su Nature Astronomy passa in rassegna tutti i risultati teorici, i modelli e gli eventi di onde gravitazionali rilevati e provenienti da fusioni gerarchiche di buchi neri di massa stellare

     26/07/2021

Generazioni a confronto. Generazioni di buchi neri, che si fondono in un’unica entità producendo “vibrazioni” dello spazio-tempo, rilevate sulla Terra grazie agli interferometri Ligo e Virgo. E se la prima generazione proviene da due buchi neri formati dal collasso di stelle massicce al termine della loro vita, è possibile che la storia si ripeta, e il buco nero risultante si fonda nuovamente con un oggetto simile, dando vita a un buco nero di seconda generazione. Per riconoscere la posizione esatta di questi oggetti stellari estremi nell’albero genealogico dei buchi neri, occorre osservare l’impronta che le fusioni lasciano sulle onde gravitazionali. E non è tutto, perché in realtà buchi neri del genere potremmo averli già osservati. È quanto si legge in un articolo di review pubblicato oggi su Nature Astronomy da Davide Gerosa, giovane astrofisico dell’università di Birmingham prossimo al rientro in Italia con un biglietto di sola andata firmato Erc, che lo vedrà nel ruolo di professore associato all’università Milano-Bicocca. Gerosa si occupa di astronomia delle onde gravitazionali, sia studiando dal punto di vista teorico la dinamica delle sorgenti (le coppie binarie di buchi neri, appunto), analizzando statisticamente i dati.

Davide Gerosa, astrofisico all’università di Birmingham e primo autore dell’articolo di review sulle generazioni di buchi neri

Nella vostra review si parla di buchi neri di seconda o terza generazione. Esistono stime statistiche su quanti oggetti del genere possano esistere, su quali siano le probabilità di formarli e, fra questi, quanti siano effettivamente osservabili?

«A oggi Ligo e Virgo hanno osservato circa 50 eventi. Uno di questi (Gw 190521) ha caratteristiche (in particolare la massa) tipiche di un evento di seconda generazione. Basandosi sul solo campione osservato, una stima grossolana del tasso di incidenza è quindi 1/50. Bisogna però tenere conto del bias osservativo – eventi che coinvolgono masse elevate sono più facili da osservare – e di come diversi ambienti astrofisici possono assemblare le generazioni successive di mergers. È un problema molto aperto, e spero che questo traspaia dalla nostra review».

Si tratta di oggetti formati di recente, da cercare quindi nell’universo vicino?

«Non necessariamente, ma con la strumentazione attuale siamo sensibili solo ad eventi che avvengono a redshift minore di 1»

Cosa li differenzia dai buchi neri che provengono da una fusione di prima generazione?

«La massa coinvolta, innanzitutto, che è più alta per eventi di seconda o terza generazione. Questo è particolarmente interessante perché i modelli di evoluzione stellare predicono un limite superiore sulla massa di buchi neri che si formano dal collasso di stelle massive, che è circa 50 volte la massa del Sole. Se Ligo o Virgo misurano un evento con massa più elevata, occorre chiamare in causa uno scenario di formazione diverso. Abbiamo parlato di quest’idea in un articolo del 2017 (e presentata anche in un altro articolo indipendente uscito lo stesso giorno) e l’evento del 2019 sembra averla confermata. La massa, da sola, può avere però anche altre origini».

Cos’altro, dunque?

«La produzione di buchi neri di generazione diversa dalla prima ha anche un effetto molto caratteristico sullo spin. Si tratta di un fenomeno relativistico chiamato orbital hang up che regola il numero di orbite compiute dalla binaria al variare dello spin: buchi neri gerarchici hanno spin tipicamente attorno al valore caratteristico 0.7 (in unità adimensionali in cui lo spin varia fra 0 e 1)».

Essendo un segnale generato da oggetti massicci, è più semplice da rilevare con gli attuali rivelatori?

«Eccome. Infatti, tendenzialmente ne abbiamo già visto uno, Gw 190521. Il segnale è più facile da individuare per oggetti più massivi. Bisogna fare attenzione che non siano troppo massivi, altrimenti il segnale esce dalla banda campionata dai detector, anche se questi oggetti sono intrinsecamente pochi».

Ci sono casi osservati che presentano caratteristiche dubbie e potrebbero appartenere a questa categoria?

«Nel caso di Gw 190521, come abbiamo detto, la principale interpretazione è che si tratti di un merger di seconda generazione. Ma non è l’unica. Un altro evento di seconda generazione, anche se un po’ più incerto, potrebbe essere Gw 190412».

Come mai?

«Perché la massa coinvolta è più bassa, e in questo caso sono il rapporto fra le masse e lo spin suggeriscono che si tratti di una fusione mista in cui un buco nero è di seconda generazione l’altro di prima. Questi due dati – rapporto fra le masse e spin – sono però indicatori più “deboli”: formare un simile evento utilizzando modelli teorici “normali” è raro ma non impossibile».

Come fare per confermare in modo definitivo che l’evento deriva da un merging di seconda o terza generazione?

«La certezza nella scienza si accumula pian piano. Con più eventi (ne aspettiamo migliaia nel giro di qualche anno) diventerà chiaro se una sottopopolazione di buchi neri di generazione successiva alla prima è necessaria per spiegare i dati».


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