SARÀ LA CONTROPARTE OTTICA DI QUEL CHE FARÀ ELT NELL’INFRAROSSO

Con Mavis immagini tre volte più nitide di Hubble

Intervista a Giovanni Cresci (Inaf) sul nuovo strumento appena approvato da Eso per il Vlt, Mavis. Costerà circa 12 milioni di euro (8 già finanziati), farà ottica adattiva nel visibile e consentirà al telescopio di raggiungere la sensibilità e la risoluzione dei telescopi giganti della prossima generazione, rimanendo in prima linea nella ricerca astronomica

     01/06/2021

Rendering dello strumento Mavis. Crediti: Eso/Mavis consortium/L. Calçada

Con la firma dell’accordo con Eso (annunciata oggi, martedì primo giugno), il progetto Mavis – un nuovo strumento innovativo pensato per il Vlt – entra nella cosiddetta Fase B. Comincia quindi la progettazione dello strumento in vista della prossima tappa, la Preliminary Design Review. Quali caratteristiche deve avere uno strumento per essere considerato degno di essere inserito in un sistema che – fra i singoli telescopi Vlt e la rete Vlti – ne vanta già almeno altri quindici? Media Inaf è andata a chiederlo a Giovanni Cresci, co-project scientist di Mavis e ricercatore dell’Inaf di Arcetri.

Con l’inizio della Fase B, si comincia a fare sul serio. I passi da compiere però sono ancora molti. Quali sono le tempistiche?

«Direi che la data più importante da tenere a mente è quella in cui lo strumento dovrà essere operativo al telescopio: questo è ciò che interessa agli astronomi e anche a coloro che vogliono vedere i risultati in termini di performance dello strumento. Parliamo circa del 2028, data in linea – fra l’altro – con la messa in opera dei primi strumenti dell’Extremely large telescope (Elt), il telescopio da 30 metri dell’Eso che sarà presto costruito in Cile».

Come mai sottolinea questo allineamento?

«È una combinazione interessante perché da un lato avremo Mavis, che otterrà delle immagini con risoluzione angolare altissima nel visibile, dall’altra Elt, che raggiungerà la stessa risoluzione nell’infrarosso. Potrà instaurarsi una sinergia unica fra i due».

Circa sette anni per passare dal concetto alla realizzazione. È verosimile come arco temporale?

«La nostra schedula prevede che lo sia, anche se imprevisti e ritardi possono sempre accadere. Fino a ora comunque, nonostante la pandemia – che ha limitato molto la possibilità di interazione e il lavoro nei laboratori – siamo riusciti a rimanere nei tempi e a concludere la Fase A con ottimi risultati. Il consorzio Mavis è composto prevalentemente da alcune sedi dell’Inaf in Italia e da vari istituti australiani, più un contributo dal Laboratoire d’Astrophysique de Marseille (Lam): lavoriamo con differenze di fuso orario di dieci ore e il fatto di non potersi vedere di persona ha pesato molto».

Prima di guardare da vicino la divisione dei ruoli fra i partner, però, facciamo un passo indietro. Che cos’è Mavis?

«Mavis è uno strumento che farà ottica adattiva multiconiugata nel visibile: utilizzerà 8 stelle di guida laser e 3 stelle di guida naturali per fare una correzione della turbolenza introdotta dall’atmosfera terrestre su un campo molto grande di 30×30 secondi d’arco – anziché correggere un campo di vista molto piccolo come fanno gli strumenti oggi disponibili. Per di più, lo farà a lunghezze d’onda ottiche».

Che è una novità assoluta, giusto?

«Esatto. Da pochi anni si è cominciato a fare ottica adattiva anche a lunghezze d’onda ottiche ma limitandosi a una sorgente piccola al centro del campo, mentre questo strumento consentirà di farlo su un campo grande. Mavis consentirà al suo imager di ottenere immagini a una risoluzione tre volte migliore di quella del telescopio spaziale Hubble. Inoltre, è dotato anche di uno spettrografo a campo integrale, che fornirà uno spettro con una risoluzione di circa 20 milliarcosecondi per ogni punto di un campo di 6×6 secondi d’arco. È uno strumento rivoluzionario che, grazie alla sua risoluzione angolare e alla sua sensibilità, ci permetterà di fare astronomia come non abbiamo mai fatto finora».

Lo spettrografo a campo integrale sarà meglio di Muse?

«Sarà diverso e in un certo senso complementare a Muse – che è uno spettrografo che copre un campo molto grande, 1×1 primi d’arco. Con Mavis potremo studiare le regioni al centro delle galassie o degli ammassi globulari dove le sorgenti hanno una densità molto elevata e non sono risolvibili singolarmente con Muse».

Che altri strumenti di ottica adattiva sono attualmente presenti al Vlt?

«Gli strumenti adattivi nel visibile sono Sphere e Muse, e hanno due limitazioni principali: lavorano su campi molto piccoli e hanno bisogno di una stella molto brillante per guidare il sistema di ottica adattiva. Mavis supererà questi limiti, e potrà vedere circa un ordine di grandezza in più di sorgenti fra quelle attualmente osservabili nel visibile. Per fare un esempio, al Polo galattico, dove ci sono meno stelle, Muse riesce a vedere solo il 5 per cento delle sorgenti. Con Mavis invece riusciremo ad arrivare al 50 per cento».

Quali sono i principali rischi e le principali sfide tecnologiche nella realizzazione di Mavis?

«Come dicevo prima, è la prima volta che si fa ottica adattiva multiconiugata nel visibile – di solito si fa nell’infrarosso. Questa è la nostra grande sfida tecnologica. Pensiamo però che le tecniche sviluppate fino a oggi nell’infrarosso siano mature abbastanza da permettere un’estensione di questo tipo. È difficile, ma possiamo anche contare su quello che già ci offre il Vlt».

Quattro luci laser attualmente in funzione sul Vlt, a Paranal. Crediti: Eso/F. Kamphues

Ovvero?

«L’idea è quella di usare un’infrastruttura già presente in uno dei quattro telescopi, che ha uno specchio secondario deformabile con 1170 attuatori e quattro stelle di guida laser che lavorano per Muse».

Le quattro stelle però non bastano, secondo quello che mi diceva prima.

«No, abbiamo bisogno di otto stelle. La nostra soluzione è dividere in due il fascio laser di ciascuna: anziché avere quattro laser ne avremo otto con una potenza ridotta».

Quanti soldi sono stati stanziati per questo strumento?

«Dunque, la forza lavoro è fornita dai partner, che riceveranno circa 150 notti di tempo d’osservazione garantito. Inaf avrà quindi circa il 45 per cento di queste notti. Per quel che riguarda l’hardware, Eso ci finanzierà con otto milioni di euro, che però non sono sufficienti per completare lo strumento. Abbiamo bisogno di circa 10 milioni più due di contingency – per gli imprevisti. Stiamo lavorando per trovare la somma mancante».

Come pensate di fare?

«Innanzitutto, partecipando a bandi di finanziamento e grant europei e australiani, oppure individuando un nuovo partner che voglia entrare nel consorzio portando i soldi che mancano per riuscire a realizzare lo strumento. Pensiamo di farcela in tempi brevi, dato che il grosso della somma già ce l’abbiamo».

Cosa ha portato alla firma di questo accordo, oggi?

«Abbiamo dovuto superare una prima revisione alla fine della cosiddetta Fase A, in cui Eso ha verificato che il progetto dello strumento rispondesse alle esigenze che l’ente aveva per lo stesso. Prima della firma abbiamo anche dovuto contrattare i requisiti tecnici e scientifici di Mavis per rendere espliciti gli obiettivi da raggiungere».

Come sarà diviso il lavoro fra i partner?

«La maggior parte dello sforzo è diviso fra Inaf e un consorzio di istituti australiani. Per quel che riguarda Inaf, ci occuperemo soprattutto dell’ottica adattiva e del software dello strumento, mentre gli australiani si concentreranno sui sensori di fronte d’onda per i laser e sulla strumentazione postfocale: imager e spettrografo. Il Lam invece si occuperà soprattutto del postprocessing dei dati grezzi, in particolare della ricostruzione della point spread function. Infine c’è Eso, che si occuperà dell’inserimento dello strumento nel telescopio e dell’interfaccia con gli altri strumenti».

Tutte queste parti, quindi, verranno sviluppate separatamente. In quale laboratorio avverrà poi l’integrazione?

«In Australia, all’osservatorio di Stromlo. E infine in Cile per l’integrazione al telescopio».

In Italia, invece, in quali laboratori si lavorerà?

«Nei laboratori della sede Inaf di Padova».

Esempio di osservazione di una galassia a z=5. Il primo pannello mostra la galassia simulata “Athena” di Pallottini et al. (2017). Gli altri pannelli mostrano come la galassia apparirebbe se osservata nella stessa banda ottica rispettivamente da Hst, Elt/Micado, Jwst/Nircam e Vlt/Mavis, con tempo di esposizione di 1 ora. MAVIS è in grado di ottenere dettagli invisibili per gli altri strumenti a queste lunghezze d’onda. Crediti: Mavis collaboration

Se dovesse individuare un caso scientifico emblematico al quale contribuirà Mavis, cosa direbbe?

«Dunque, è un po’ difficile, perché questo strumento affronterà casi scientifici numerosissimi e diversissimi: dal Sistema solare fino alle galassie più lontane. Un po’ come ha fatto Hubble, e in effetti Mavis si prepone di essere un po’ il sostituto di Hubble quando questo non potrà più funzionare. Comunque, posso citare qualcosa di particolarmente interessante: innanzitutto, vogliamo realizzare l’immagine più profonda mai realizzata dell’universo. Con 10 ore di integrazione sarà possibile osservare galassie ancora più deboli di quelle viste nell’Ultra deep field di Hubble, l’immagine più profonda dell’universo che abbiamo finora. Si potrà anche indagare l’origine dei buchi neri supermassicci, i cui semi primordiali dovrebbero risiedere al centro di oggetti di piccola massa come gli ammassi globulari o le galassie nane. Prima di Mavis, non avevamo la risoluzione angolare necessaria per fare astrometria a questo livello di precisione».

Quindi, se tutto procede come dovrebbe, Mavis non avrà nulla da invidiare a un telescopio spaziale come Hubble nonostante sia sulla Terra?

«Esattamente. Anzi, dovrebbe essere più sensibile e riuscire a scorgere dettagli più fini. Con questo sistema di ottica adattiva, infatti, l’effetto dannoso dell’atmosfera terrestre dovrebbe essere superato. Ma, soprattutto, sarà interessante il fatto che Mavis sarà la controparte ottica di quel che faremo nell’infrarosso con i grandi telescopi del futuro come Elt».

Come a dire che darà una nuova vita a Vlt consentendolo di rimanere in pista a fianco dei telescopi del futuro.

«Proprio così».

Giovanni Cresci, ricercatore all’Inaf di Arcetri e co-project scientist del nuovo strumento per il Vlt Mavis

Qual è il suo ruolo in Mavis?

«Per quel che riguarda la parte scientifica, abbiamo due project scientists: uno per la parte australiana e uno per Inaf, che sono io. Mi occupo soprattutto di far sì che le caratteristiche dello strumento siano quelle ottimali per fare la scienza che si richiede. Per la parte scientifica, poi, c’è anche un rappresentante per ogni sede che partecipa alla costruzione dello strumento. Nel caso di Inaf, quindi, le sedi di Arcetri, Roma e Padova. Nell’individuazione dei casi scientifici per Mavis, l’Italia ha fatto la parte del leone: quando c’è stata la call da parte di Eso per la presentazione delle proposte scientifiche, più della metà dei progetti proposti avevano principal investigator italiano».

Lei, oltre a essere coinvolto in molti progetti di strumenti per telescopi, li usa per fare scienza. Di che cosa si occupa?

«Mi occupo di evoluzione delle galassie – soprattutto di evoluzione chimica – dall’universo locale fino a quello più lontano. Mi occupo anche di co-evoluzione fra buco nero centrale e galassia ospite. Anche per il progresso scientifico di questi due ambiti Mavis sarà uno strumento rivoluzionario. Come diceva, mi occupo anche molto di strumentazione: penso che sia interessante per noi scienziati capire qual è tutto il processo che serve per costruire e ottimizzare gli strumenti, e permettere loro di ottenere i risultati che andiamo cercando da essi».

Conoscere a fondo gli strumenti consente anche di pensare a casi scientifici più adeguati?

«Certamente. E anche comprendere meglio quali sono problemi possono insorgere nei dati e come risolvere eventuali stranezze o artefatti che si possono comprendere solo conoscendo a fondo lo strumento».