PROGETTATI PER I FUTURI TELESCOPI SPAZIALI

CubeSats come stelle guida artificiali

Un team di ricercatori del Massachusetts Institute of Technology ha progettato un satellite miniaturizzato contenente un laser che, fungendo da sorgente di luce fissa di riferimento, potrebbe portare la stabilità dei futuri grandi telescopi spaziali per lo studio degli esopianeti fino a 10 picometri

     08/01/2019

Nei prossimi decenni, potranno essere lanciati enormi telescopi spaziali segmentati per scrutare ancora più da vicino i pianeti extrasolari e le loro atmosfere. Per mantenere stabili questi mega-scopi, i ricercatori del MIT affermano che piccoli satelliti possono seguire e agire come “stelle guida”, puntando il laser su un telescopio per calibrare il sistema, per produrre immagini migliori e più accurate di mondi lontani. Crediti: Christine Daniloff, MIT.

Immaginate di dover mandare nello spazio un enorme telescopio capace di osservare lontano, al di là del Sistema solare, alla ricerca di esopianeti. Adesso, considerate il fatto che l’unico modo che avete per beccarne uno è quello di osservare una riduzione della luminosità della luce della sua stella quando il pianeta transita davanti a essa, il metodo dei transiti – così si chiama. Misurate dunque differenze di intensità di luce. Fin qui niente di complicato. Ma come fate a dire che quella differenza di intensità luminosa che osservate è reale e non è invece frutto di un movimento del telescopio nello spazio?

Un team di ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (Mit), all’interno dei laboratori del dipartimento di aeronautica e astronautica, ha risolto così: ideando, prima, e progettando, poi, un oggetto dalle dimensioni di una scatola di scarpe: un CubeSat – un satellite miniaturizzato che, una volta lanciato a una certa distanza dal grande telescopio spaziale a caccia di esopianeti, funzionerà da “stella guida”. Grazie al laser al suo interno, infatti, sarà possibile l’emissione di una luce fissa e nota da una posizione prossima a quella del sistema bersaglio – un esopianeta, ad esempio – che il telescopio spaziale può usare come riferimento per il puntamento, e correggere, eventualmente, la sua posizione in caso di movimenti che possono avvenire nello spazio. Correzioni necessarie affinché si abbia la certezza che le variazioni di luminosità, osservate con il metodo dei transiti tra un esopianeta e la sua stella, siano reali e non dovute, appunto, a un movimento.

Ma cerchiamo di fare chiarezza e come si dice in questi casi: partiamo dall’inizio.

Fuori dal Sistema solare ci sono più di 3.900 esopianeti confermati. La maggior parte di essi è stata individuata con il metodo dei transiti, cui abbiamo accennato. Un metodo che consente agli astronomi non solo di individuarli ma anche di ottenere informazioni sulla loro dimensione e sulla distanza dalla loro stella.

Altre informazioni circa questi esopianeti – come la presenza di acqua, di ossigeno o di altri segni di vita, le cosiddette biosignatures – richiedono strumenti più potenti degli attuali telescopi: richiedono telescopi spaziali con specchi delle dimensioni dei grandi osservatori terrestri. Come il prossimo James Webb Space Telescope della Nasa,  il cui specchio primario segmentato ha un diametro di 6,5 metri ed è formato da 18 segmenti esagonali. Ma i telescopi spaziali di prossima generazione dovrebbero avere dimensioni ancora maggiori, nell’ordine dei 15 metri, e con oltre 100 segmenti esagonali.

Per questi enormi telescopi la sfida è quella di mantenere stabili i singoli segmenti che compongono lo specchio segmentato, affinché puntino collettivamente verso il bersaglio: nel nostro caso, l’esopianeta. Questi telescopi saranno equipaggiati con coronografi – strumenti progettati per discernere la luce emessa da una stella da quella, considerevolmente più debole, emessa da un pianeta orbitante – e il minimo spostamento del telescopio orbitante potrebbe alterare le misurazioni dello strumento relative ai dati dell’esopianeta bersaglio, impedendo e/o falsando le misurazioni stesse.

Ed è qui che potrebbe intervenire il CubeSat progettato dagli ingegneri del Mit, posto in orbita insieme allo stesso telescopio spaziale. Posizionato a una certa distanza dal telescopio, il laser di cui è equipaggiato, fornendo una luce fissa e brillante, fungerà da stella guida, che il telescopio potrà usare come riferimento di posizione. Una variazione nell’intensità della luce proveniente dalla stella guida segnalerà dunque un movimento del telescopio, rendendo necessario un riposizionamento degli specchi fino a che l’intensità non ritorni quella nota, e dunque le differenze osservate tra stella ed esopianeta siano quelle reali.

I risultati dei ricercatori del Mit, pubblicati su Astronomical Journal, hanno mostrato che la progettazione di un simile satellite miniaturizzato, con la tecnologia attualmente disponibile, sarebbe fattibile. «Il nostro lavoro suggerisce che in futuro potremmo essere in grado di costruire telescopi un po’ meno intrinsecamente stabili, grazie all’uso di una fonte luminosa come riferimento per mantenere la loro stabilità», dice Ewan Douglas, postdoc al Mit e primo autore dell’articolo.

Per oltre un secolo gli astronomi hanno utilizzato stelle reali come guida per stabilizzare i telescopi terrestri. Negli anni Novanta, poi, l’innovazione: laser che da terra, puntati verso il cielo, generavano un punto luminoso fungendo da stella guida artificiale. Gli astronomi potevano dunque stabilizzare un telescopio usando questa fonte di luce che poteva essere generata ovunque l’astronomo volesse puntare il telescopio. «Ora stiamo estendendo quest’idea», speiga Douglas, «cioè piuttosto che puntare un laser da terra nello spazio, lo inviamo direttamente nello spazio per farlo brillare dove serve».

L’idea di una stella guida artificiale nello spazio, nata da un progetto della Nasa con lo scopo di ridurre i costi di realizzazione di grandi osservatori orbitanti estremamente stabili, è stata successivamente sviluppata attraverso studi che hanno esaminato se un laser integrato in un piccolo minisatellite – un CubeSat, appunto, o uno SmallSat, leggermente più grande – potesse essere usato per mantenere la stabilità di un grande telescopio spaziale segmentato.

Dagli studi, i ricercatori hanno concluso che un tale telescopio, utilizzando questa tecnologia, dovrebbe rimanere perfettamente immobile entro i 10 picometri: un quarto del diametro di un atomo di idrogeno. In questo modo il coronografo a bordo potrà effettuare misurazioni accurate e reali. Una soglia importante, questa dei 10 picometri. «Se si hanno spostamenti più grandi di 10 picometri», spiega infatti Douglas, «si inizia a vedere una variazione nel pattern di luce stellare all’interno del telescopio, e una variazione comporta che non puoi sottrarre in modo perfetto la luce della stella per vedere la luce riflessa del pianeta».

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