VITA QUOTIDIANA, SUCCESSI, DUBBI, SCONTRI, AMICIZIE

Ricordando Riccardo Giacconi

I ricordi personali di chi ha conosciuto e lavorato con il premio Nobel 2002 per la Fisica e ha voluto testimoniarlo qui, sulle pagine di Media Inaf: Salvatore Sciortino, Sperello di Serego Alighieri, Gianni Zamorani, Piero Rosati, Stefano Borgani, Roberto Gilli, Maurizio Paolillo e Paolo Tozzi

     14/12/2018

Riccardo Giacconi (1931-2018)

La scomparsa lo scorso 9 dicembre di Riccardo Giacconi, premio Nobel per la Fisica nel 2002 per il suo lavoro pionieristico nel campo dell’astronomia a raggi X, lascia un grande vuoto nel mondo della scienza. Alcuni ricercatori italiani che lo hanno conosciuto e hanno lavorato con lui ci hanno inviato i loro personali ricordi di Giacconi. Li abbiamo raccolti qui su Media Inaf.


“Un ricordo personale di Riccardo Giacconi”, Salvatore Sciortino (Inaf – Osservatorio astronomico di Palermo)

«Nel corso degli anni mi è capitato di incrociare Riccardo Giacconi diverse volte, la sua presenza è comunque sempre rimasta sullo sfondo delle attività di ricerca che ho perseguito. Questa presenza, al di là del fatto di essermi concentrato sull’astrofisica nei raggi X, fondava sulla amicizia che legava sia me che Riccardo a Pippo Vaiana. Riccardo e Pippo si erano incontrati negli anni ‘60, al tempo in cui il gruppo di Giacconi ad AS&E aveva avviato quella che sarebbe stato lo sviluppo dell’Astronomia X; si erano intesi subito e Pippo aveva rapidamente assunto la direzione del programma di sviluppo degli specchi ad incidenza radente per missioni solari (che porto al lancio del telescopio X solare S-054 sullo Skylab), passo essenziale nel programma che porto alla realizzazione prima di Einstein e poi di Chandra. Io avevo conosciuto Pippo, appena tornato dagli USA, nel 1977 quando gli chiesi la tesi di laurea. Erano anni di transizione in cui Pippo (e il suo gruppo) sarebbero passati da un consolidato programma di fisica coronale ad un innovativo programma di studi delle corone stellari basato sui dati di Einstein. Sin dall’inizio Riccardo sostenne questo programma e sostenne la nuova avventura scientifica che esso apriva ed il fatto che Pippo volesse farne un elemento di rilancio dell’astrofisica a Palermo. La conferma di questa consapevole volontà emerge con chiarezza dalla lettura di alcune pagine della sua narrazione dell’astrofisica moderna, The secret of the hoary deep, dove i giovani ricercatori del rinascente Osservatorio di Palermo sono descritti come parte integrante delle attività del gruppo al CfA (Mass, USA) che Riccardo aveva fondato e guidato fino al successo di Einstein. Ricordo distintamente come nel 1984 (poco prima o poco dopo il meeting “X-ray Astronomy ‘84” organizzato da G. Palumbo a Bologna) Riccardo fosse a Palermo e venne portato dal vulcanico Pippo in Osservatorio (a quel tempo in piena fase di ristrutturazione edilizia con infiniti disagi logistici) e come Pippo chiese a tutti i giovani ricercatori, borsisti, laureandi di raccontare a Riccardo cose stessero facendo e ricordo, che in questo posto ancora completamente da ricostruire in cui io e Giusi, mia moglie, ci avventuravamo con Luisa la nostra figlia nata da meno di 1 anno, ognuno espose quel che faceva e come Riccardo seguisse con attenzione facendo qua e la domande. Ebbi allora la sensazione che, nonostante lo stato delle cose materiali intorno a noi, si fosse convinto che si stava facendo della buona scienza e la sensazione è stata poi confermata, molti anni dopo, dalla lettura delle sue parole.

Un altro momento che mi piace ricordare è collegato a quello che probabilmente fu il cruccio scientifico maggiore di Riccardo (come ebbe a dire in diverse occasioni private e pubbliche), cioè la mancata approvazione e realizzazione di un missione con a bordo un Wide Field X-ray Telescope. Riccardo e i suoi collaboratori provarono molte volte a farla approvare, in una di queste volte, quando la proposta venne avanzata ad ASI io fui intensamente impegnato nella stesura della proposta (guidata da G. Chincarini e dal compianto S. Murray) e ricordo come la figura di Riccardo spesso aleggiasse nelle molte discussioni durante i complessi lavori per arrivare alla proposta finale. La convinzione che un WFXT fosse un passo importante che doveva essere fatto era così forte in Riccardo che, fra il 2008 e il 2010, decise di “scendere nuovamente in campo” e questo mi porta a ricordare uno dei nostri ultimi incontri in occasione di un workshop dedicato alla scienza con un WFXT. Durante una pausa pranzo ci sedemmo vicini e, mangiando pane e salame e bevendo un po’ di vino, ci mettemmo a parlare di tante cose e fra le tante chiacchiere ricordo che mi diceva che con la moglie da un po’ di tempo discutevano della necessità di comprare un cellulare di nuova generazione e che la cosa che li tratteneva era che nessuno di loro avrebbe avuto la pazienza di leggere il libretto di istruzioni (il fisico sperimentale che era radicato in lui questo si aspettava di dover fare …). La mia risposta fu di non preoccuparsi di comprare pure un cellulare tipo Iphone che tanto non ci sarebbe stato nessun libretto da leggere … si trattava solo di ammaccare dei bottoni ..

Riccardo è stato certamente il padre dell’astronomia a raggi X che grazie a lui e al suo gruppo, in soli 40 anni, è passata dalla rivelazione di Sco X-1 degli anni ‘60 alle spettacolari immagini   rese possibile da Chandra. Personalmente ritengo che il suo ruolo sia stato cruciale perfino in senso ancora più  ampio, infatti si deve a Riccardo l’ideazione, un anno dopo il lancio di Einstein, dei Guest observer programs, il cui motto in estrema sintesi è “mettere le migliori infrastrutture osservative al servizio delle migliori intelligenze”. Questo approccio dopo l’indiscusso successo di  Einstein è divenuto il comune modo di operare della moderna Astrofisica e credo sia alla base del suo clamoroso sviluppo negli ultimi 4 decenni. Un modello vincente, ideato da Riccardo Giacconi, che dovremo preservare con attenzione per il futuro».


“Il taglio di La Silla – Un ricordo di Riccardo Giacconi”, Sperello di Serego Alighieri (Inaf – Osservatorio astrofisico di Arcetri)

«Quando Riccardo Giacconi era Director General dell’ESO, nella seconda metà degli anni ‘90 sono stato membro dell’Users Committee (UC) dell’ESO e ne sono stato anche chairman. Era il periodo in cui l’ESO era concentrato sulla costruzione del VLT e, quando fu deciso che il VLT sarebbe andato a Paranal, c’era forte preoccupazione su come si sarebbe riusciti ad operare due osservatori; si parlava addirittura di chiudere completamente La Silla e di trasferire l’NTT a Paranal. Furono istituiti comitati per studiare come tagliare risorse a La Silla per averne per la gestione di Paranal. Naturalmente anche l’UC fu coinvolto e chiaramente fra gli utenti dell’ESO c’era gran preoccupazione che i tagli da applicare a La Silla potessero portare alla dismissione di telescopi e strumenti essenziali per molti astronomi europei. Come chairman dell’UC mi sentivo in prima linea in questa difesa di La Silla e, conoscendo Riccardo come una persona molto determinata, ma anche disposta ad ascoltare (veniva sempre alle riunioni dell’UC) mi presentai ad una di queste riunioni con un grande poster di La Silla, ben arrotolato e legato con un bel nastro, e un paio di forbici e ne feci dono a Riccardo dicendogli: “Se proprio devi tagliare La Silla, comincia da questo poster!” Lui si mise a ridere e la cosa finì lì, ma poi il ridimensionamento di La Silla fu dilazionato e molto graduale».


“Riccardo Giacconi: un ricordo personale”, Gianni Zamorani (Inaf – Osservatorio di astrofisica e scienza dello spazio di Bologna)

«Conobbi Riccardo Giacconi quasi esattamente quaranta anni fa, quando, a gennaio 1979, arrivai al Center for Astrophysics (CfA) a Cambridge, con una borsa di studio dell’Agenzia Spaziale Europea, per lavorare sui dati del satellite Einstein che era stato lanciato un paio di mesi prima. Riccardo era il Direttore della “Divisione di Alta Energia” del CfA.

Era la mia prima esperienza lavorativa all’estero e, non avendo mai lavorato nell’astronomia dei raggi X, ero preoccupato di quello che sarei riuscito a fare lavorando nell’istituto che in quel momento era al centro  dei nuovi sviluppi nell’astronomia delle alte energie. La mia preoccupazione durò pochissimo perché ben presto mi resi conto che lavorare al CfA era come far parte di una grande famiglia, in cui Riccardo era il padre, rispettato da tutti, amato da molti e temuto da alcuni. Altri erano i fratelli maggiori come, ad esempio, Harvey Tananbaum, Steve Murray, Ethan Schreier e Daniel Schwartz, che avevano già lavorato con Riccardo all’American Science and Engineering all’epoca della costruzione e del lancio di UHURU, il primo satellite per l’astronomia a raggi X,  che all’inizio degli anni ’70 aveva aperto con grande successo una finestra completamente nuova  nello studio delle sorgenti celesti. E poi c’erano i fratelli minori, più giovani, che, come me, si affacciavano allora alla ricerca.

Come in ogni grande famiglia, c’erano anche dei momenti di tensione e disaccordo, ma allora Riccardo interveniva e, facendo anche leva su quel “senso di appartenenza” che era fortissimo nel gruppo, tutto magicamente si appianava. Ricordo con enorme piacere e un po’ di nostalgia le riunioni periodiche nel grande ufficio di Riccardo, in cui ciascuno raccontava quello che stava facendo, ci si confrontava sui rispettivi risultati e Riccardo dispensava a tutti consigli e suggerimenti, in modo a volte anche brusco e diretto, come era nel suo carattere.

Ero ancora al CfA nel 1981 quando Riccardo ricevette l’offerta di diventare direttore di quello che sarebbe diventato lo Space Telescope Science Institute (STScI) e ricordo una lunga conversazione, anche questa nel suo ufficio, in cui mi diceva quanto fosse incerto se accettare o declinare l’offerta.  Era preoccupato che gli astronomi ottici avrebbero potuto considerare la sua nomina a direttore dello STScI come un’invasione di campo e si era preso una settimana di tempo per decidere.  Non era facile per lui, sia per motivi professionali che affettivi, lasciare il gruppo di persone con cui aveva lavorato per due decenni, però era sicuro che anche da soli avrebbero continuato a lavorare benissimo. Come poi scrisse nella sua autobiografia (Secrets of the hoary deep – A personal history of modern astronomy), alla fine decise di accettare anche perché avrebbe così potuto creare da zero un Istituto sulla base della sua visione di come dovrebbe funzionare un’organizzazione scientifica che, diceva, deve avere una forte visione e uno scopo condiviso, in cui la libertà di ricerca e lo scambio libero di idee sia però accoppiato con una ferrea disciplina interna necessaria per massimizzare i risultati degli sforzi comuni.

E così divenne direttore di STScI; il nuovo Istituto a Baltimora non riproduceva affatto l’ambiente “famiglia” del CfA: troppa gente veniva da esperienze e paesi diversi per potersi amalgamare rapidamente. Riccardo reagì muovendosi su un doppio binario: da una parte chiamò a STScI un certo numero di “figli” della famiglia delle alte energie, che gli garantivano di continuare a fare ricerca nel suo filone prediletto e di avere un rapporto già consolidato con alcuni dei dipendenti, e dall’altra iniziò una campagna indefessa di promozione interna ed esterna del nuovo Istituto che gli procurò la stima anche di chi all’inizio era scettico. La sua strategia manageriale si dimostrò essenziale e vincente nelle due peggiori crisi affrontate da STScI durante la sua direzione: il disastro del Challenger nel gennaio del 1986 (che ebbe anche la conseguenza di rimandare il lancio di HST) e la scoperta del difetto dello specchio primario, che fu poi corretto nel 1994, quando lui aveva già lasciato quello scettro per prendere quello dell’ESO. Ricordo come fosse ieri la reazione pessimista di tutti noi a quelle funeste circostanze e, viceversa, il suo atteggiamento immediato di riscossa, di incoraggiamento per tutti, di lavorio indefesso e convincente presso NASA e il Congresso americano per trasformare la disgrazia in un miglioramento del progetto. A posteriori, l’enorme successo dell’Hubble Space Telescope dimostra che anche in quel caso Riccardo fece le scelte giuste, come in tante delle sfide da lui accettate e vinte».


“Ricordo personale di Riccardo Giacconi”, Piero Rosati (Università di Ferrara e Inaf), Stefano Borgani (Università di Trieste e Inaf), Roberto Gilli (Inaf Bologna), Maurizio Paolillo (Università Federico II di Napoli e Inaf), Paolo Tozzi (Inaf Arcetri)

«A pochi giorni dalla scomparsa di Riccardo Giacconi, siamo ancora sgomenti e increduli all’idea che non potremo più parlargli e chiedere consigli su dove puntare il timone nel vasto settore della ricerca astrofisica da Terra e dallo spazio. Come spesso succede nel momento in cui viene a mancare una figura del suo calibro, chi scrive si rende pienamente conto del grande privilegio di averci lavorato a stretto contatto per circa venti anni, e di essere stati guidati negli aspetti scientifici, tecnici e manageriali di progetti di grande rilevanza. Non è certo questo il luogo per ricordare la portata storica dei contributi di Riccardo (come si faceva chiamare da tutti, anche dagli studenti, sin dal primo incontro) all’astronomia a raggi X e alla realizzazione di diverse facilities osservative spaziali e da Terra, che la comunità scientifica mondiale può oggi sfruttare per ricerche in tutti campi dell’astrofisica. Questo percorso è ben descritto nel suo libro “Secrets of the hoary deep”, e gli aspetti salienti del suo contributo possono essere apprezzati nella sua Nobel Lecture e nei necrologi che suoi principali collaboratori stanno scrivendo.

Ci piace qui ricordare alcuni aspetti del suo insegnamento che hanno influenzato notevolmente la nostra formazione scientifica e che pensiamo possano essere utili per nuove generazioni di ricercatori. Chi scrive ha in particolare collaborato strettamente con Riccardo sul Chandra Deep Field South (CDFS) e nello studio di fattibilità di una missione a raggi X a grande campo, ottimizzata per eseguire surveys su vasti volumi di Universo, Wide Field X-ray Telescope (WFXT).

Il CDFS fu concepito nel suo ufficio quando era Direttore Generale dell’ESO nel corso del 1999: la scelta del campo, la strategia osservativa con il telescopio Chandra, di cui lui era uno dei Principal Investigators, così come le prime osservazioni nell’ottico (imaging  e spettroscopiche) furono pianificate proprio nel periodo in cui Riccardo, in qualità di Direttore Generale, aveva la responsabilità di arrivare alla prima luce del Very Large Telescope (VLT) dell’ESO, rispettando i tempi ed i limiti di budget  prestabiliti.  Con le osservazioni dell’Advanced Camera for Surveys a bordo dell’Hubble Space Telescope (HST) prima e via via con tutte le facilities osservative spaziali e da Terra, dall’X fino al radio, il CDFS è diventato nel corso degli anni la regione di cielo più studiata dagli astronomi di tutto il mondo, ed ha aperto la strada a innumerevoli studi, e stimolato surveys in altre zone di cielo con la stessa strategia. L’obiettivo principale era quello di svelare la natura delle sorgenti che compongono il fondo cosmico a raggi X, che lui stesso aveva scoperto 40 anni prima, sfruttando la straordinaria risoluzione angolare del telescopio Chandra, una caratteristica da lui fortemente voluta e che lo ha reso uno strumento senza rivali fino ad oggi e che probabilmente non ne avrà almeno nei prossimi 10 anni.

Il concepimento del Wide Field X-ray Telescope, in un articolo pubblicato nel 1992 (con Burrows e Burg) e da lui definito come “la sua più brillante idea di missione”, rimane un chiaro esempio del metodo che ha sempre guidato il suo percorso scientifico, benché questo progetto  non abbia mai visto la luce. Questo il suo metodo: prima di tutto è necessario individuare un problema di fondamentale importanza, in questo caso si trattava della scoperta di ammassi di galassie distanti, che è essenziale per la formazione ed evoluzione delle strutture cosmiche e per la cosmologia. Poi, non lasciarsi influenzare troppo dell’evidenza dell’epoca, che sfavoriva l’esistenza di ammassi distanti (frutto di pregiudizi teorici e della scarsa conoscenza dei limiti osservativi in quegli anni). Definire quindi i parametri necessari per raggiungere tale obiettivo scientifico, nello specifico l’area di raccolta del telescopio, la risoluzione angolare e il campo di vista. Realizzare infine un disegno delle ottiche a raggi X che garantisse queste caratteristiche. Gli ammassi di galassie hanno sempre attirato la curiosità scientifica di Riccardo e ne aveva parlato spesso con Alfonso Cavaliere, tra i primi a capire negli anni 70 la natura fisica della loro emissione X diffusa.  Ad iniziare dalla seconda metà degli anni 90, abbiamo cominciato a lavorare sulla realizzazione di WFXT, in particolare sul vasto spettro degli obiettivi scientifici. Fondamentale per questo progetto era il know-how in tema di ottiche a largo campo sviluppato all’osservatorio di Brera-Merate nel corso degli anni da Oberto Citterio, Guido Chincarini e Giovanni Pareschi, con i quali Riccardo ha avuto una lunga collaborazione.  Per oltre vent’anni, abbiamo continuato questo lavoro senza mai riuscire a convincere le agenzie spaziali, nonostante i diretti sforzi di Riccardo,  o comunque la comunità scientifica americana ed europea che una survey wide-and-deep con ottima risoluzione angolare fosse una priorità  per l’astronomia a raggi X. Nel frattempo, la comunità scientifica ha imparato ad apprezzare la straordinaria portata della Sloan Digital Sky Survey nell’ottico. Allora molti hanno cominciato a realizzare che una survey equivalente nella banda X sarebbe stata fondamentale per il progresso in molti campi dell’astrofisica extra-galattica e della cosmologia, in particolare per lo studio dei fenomeni più energetici nell’Universo, e del ruolo dei buchi neri super-massicci nella formazione delle prime galassie. Ma oramai la comunità dell’astronomia X aveva deciso di perseguire altre strade, senza per altro progredire in modo significativo nello sviluppo della qualità ottica dei telescopi X. In un decennio in cui il progresso tecnologico ha portato l’astronomia ottica, infrarossa, sub-millimetrica e radio a dotarsi di strumenti rivoluzionari in grado di eseguire tali surveys nelle rispettive bande, l’assenza di una missione quale WFXT fa tornare alla nostra mente come la visione cristallina del futuro fosse una caratteristica distintiva di Riccardo.

Anche se WFXT non è stato (ancora) realizzato, il suo studio ha dato a noi l’opportunità di assorbire la metodologia scientifica che Riccardo aveva perseguito nel realizzare con successo prima il satellite Einstein, negli anni 70, poi HST e il VLT. Lavorare con Riccardo significava anche avere la doppia fortuna di poter interagire con i migliori scienziati al mondo di cui lui si contornava per la costruzione e la gestione dei grandi osservatori che ha diretto. Tra i tanti eminenti scienziati con i quali abbiamo avuto la fortuna di lavorare nello sviluppo di WFXT, ci piace ricordare Colin Norman e Steve Murray che è venuto a mancare tre anni fa.  Riccardo sicuramente preferiva aver a che fare con collaboratori che lo sfidassero intellettualmente per un punto programmatico ben preciso: solo in questo modo si poteva allargare la sfera di competenze per raggiungere i suoi ambiziosi obiettivi.

Un concetto di missione andava ideato lasciandosi guidare dai soli obiettivi scientifici, consapevoli però che il telescopio e la strumentazione dovevano essere in grado di aprire un discovery space più vasto possibile, senza pregiudizi  di alcun tipo su quello che si andava ad esplorare. Era questo un atto di grande umiltà di fronte alla sfida della comprensione del Cosmo, consapevole che la scalata alla conoscenza rimane illimitata. Diceva spesso di diffidare di coloro che pensano di “sapere più della Natura”, e ripeteva spesso: “listen to Nature”. Riteneva che le scoperte importanti non si fanno per caso (a cominciare da quella della prima sorgente galattica Scorpius X-1 e del fondo a raggi X nel volo pionieristico del 1962), ma solo grazie ad una accurata progettazione e ad una formulazione senza pregiudizi delle domande fondamentali. Era convinto che l’efficacia ed il successo della fase realizzativa di una missione dipendessero dalla sinergica collaborazione e dal mutuo rispetto tra ingegneri e scienziati. Una volta stabiliti gli aspetti essenziali di una missione, si passava quindi alla sua progettazione curando tutto nei minimi dettagli, end-to-end come ripeteva spesso, utilizzando modelli fisici delle varie componenti strumentali ed eseguendo simulazioni di osservazioni per verificare quantitativamente gli obiettivi scientifici. Gli aspetti metodologici rivestivano un ruolo centrale, nella fase di progettazione e test di tutte le componenti del sistema end-to-end.  Anche gli algoritmi matematici utilizzati nella varie fasi rivestivano un ruolo importante. Nella realizzazione di una missione, era necessario mettere in piedi un piano globale minuziosamente concepito e testato in ogni suo aspetto, da un processo di selezione assolutamente trasparente delle migliori proposte scientifiche, alle operazioni (modalità di osservazione), alla riduzione dei dati grezzi fino alla produzione di dati calibrati ed opportunamente archiviati, pronti per essere sfruttati scientificamente. Il concetto di “open access” ai dati ridotti (si direbbe oggi high-level data products) era un suo principio guida, non solo per motivi etici, ma soprattutto per la consapevolezza che il fattore limitante nella scalata alla conoscenza è il “brain power” di tutta la comunità, e che quindi l’accesso ai dati non deve essere limitato ad una piccola cerchia di privilegiati.

Tanti incontri e discussioni rimangono scolpiti nelle nostre menti. In questi incontri, Riccardo era sempre avanti con il pensiero ed aveva solitamente la capacità di andare al cuore di una discussione scientifica, aggirando complessità non rilevanti, e riportando il timone sull’obiettivo finale. Talvolta tali discussioni erano decisamente “accese”, lui stesso riteneva che un “brutale confronto intellettuale” fosse essenziale per far progredire un progetto. La determinazione con la quale esponeva le sue idee e perseguiva certi obiettivi, mai prescindevano però dalla correttezza professionale e dal massimo rispetto per le opinioni dei suoi collaboratori. Quelle (poche) volte che risultava aver torto su qualche argomento tecnico-scientifico, ci pensava su e magari il giorno dopo veniva a chiedere scusa senza mezzi termini. La fiducia reciproca con i suoi più stretti collaboratori rivestiva un ruolo centrale nei suoi rapporti.  Durante pranzi e cene si finiva a volte per parlare (spesso in italiano) di questioni di natura filosofica ed antropologica, che ancora oggi custodiamo come lezioni altrettanto preziose di quelle prettamente scientifiche.

Il suo approccio verso la ricerca è sempre stato improntato da un’onestà intellettuale assoluta, senza compromessi. Negli ultimi tempi, spesso aveva espresso, anche in interventi pubblici, la sua seria preoccupazione che la necessità di apparire “politically correct”, in conferenze internazionali o in commissioni, non permettesse, soprattutto ai giovani, di contrastare il pensiero dominante su certe strategie da seguire, di proporre liberamente idee diverse. Temeva che in questo clima, i giovani, anche i più brillanti, venissero spinti a salire su “carrozzoni” (utilizzava espressamente in questo caso l’accezione  italiana), che oltre ad essere inefficienti nell’utilizzo delle risorse, soffocano la creatività scientifica. Era convinto  che l’integrità del processo scientifico, senza compromessi di alcuna natura, oltre ad essere garanzia di progresso, rimane l’antidoto alla sopravvivenza stessa della Scienza, a maggior ragione in un’epoca dove pulsioni irrazionali stanno progressivamente (ri)prendendo il sopravvento nelle attività umane. Ammoniva con il suo sorriso un po’ irriverente che “se decidi di fare il patto col diavolo, poi non ti lamentare se non paga”.

Anche se aveva lasciato definitivamente l’Italia negli anni 50 per gli Stati Uniti, che offrivano a quel tempo risorse quasi illimitate nel campo della fisica spaziale (“una grande tela sulla quale dipingere” come disse una volta), ha continuato a tenere un occhio vigile sullo sviluppo scientifico in Italia e stretti contatti con il mondo accademico italiano, in particolare nel campo dell’Astrofisica delle Alte Energie, accogliendo decine di giovani ricercatori italiani nei sui progetti (ad Harvard, STScI, ESO). Non lo faceva per campanilismo, piuttosto esprimeva spesso il suo stupore, in un certo senso quasi ammirazione, per la capacità del sistema italiano di continuare a sfornare eccellenze scientifiche, nonostante le scarse risorse e la poca attenzione del sistema paese per la formazione superiore. Speculava che la causa fossero i semi gettati nel Rinascimento o la sopravvivenza Darwiniana alle difficoltà della ricerca pubblica in Italia.

Tra le tante memorie, ci piace ricordare il suo sguardo illuminarsi, quasi compiaciuto, quando la discussione scientifica da lui energeticamente stimolata prendeva il volo, il confronto diventava strenuo e serrato, e noi, i giovani, mettevamo alla prova le nostre idee senza timori reverenziali, anteponendo la genuina curiosità ad altri calcoli di convenienza che niente hanno a che fare con l’esplorazione scientifica».