RISCHIO ASTEROIDI E RICERCA SCIENTIFICA

Il cielo che ci cade sulla testa

Il cielo che ci cade sulla testa, edito da Il Mulino, racconta come il rischio di impatto asteroidale sulla Terra sia costantemente monitorato da scienziati e astronomi nel mondo e come sia possibile migliorare la qualità della prevenzione da impatto. L’autore è Ettore Perozzi, altrimenti chiamato Asteroide 10027, che abbiamo intervistato

     16/12/2016

Ettore Perozzi, napoletano di nascita, è laureato in fisica ed è associato Inaf. Si occupa professionalmente di scienze planetarie, missioni spaziali e divulgazione scientifica. Il cielo che ci cade sulla testa – Impatti cosmici e incontri ravvicinati è il suo ultimo libro, edito da il Mulino per la collana Farsi un’idea.  Centotrentadue pagine di racconto leggero, ma rigoroso, sul rischio di impatto asteroidale, che rientra tra le catastrofi naturali possibili e per le quali la scienza e la tecnologia restano sentinelle di avvistamento a protezione della Terra.

Noto per la sua passione per i fumetti, anche questa volta Perozzi non perde l’occasione per strappare un sorriso raccontando come ha trovato l’incipit perfetto per la storia di questo libro. La magica penna di René Goscinny, descrivendo in Asterix il Gallico le paure dei Galli ai tempi di Giulio Cesare, scriveva: «…mentre i Romani sono terrorizzati dai Galli, anche i Galli hanno a volte paura… dei Romani? No di certo! L’unica cosa di cui hanno paura è che il cielo possa cadergli sulla testa».

Perozzi, perché preoccuparsi dei NEO (Near-Earth Objects), oggetti potenzialmente a rischio di collisione con il nostri pianeta? Siamo a rischio?

«La risposta più semplice è: per non fare la fine dei dinosauri!  In realtà il pericolo di una estinzione di massa a seguito di un impatto è ormai quasi del tutto scongiurato proprio perché nell’ultimo decennio il rischio asteroidale è stato preso sul serio e si sono intensificate le osservazioni sistematiche del cielo. Ormai conosciamo il 95% degli oggetti più grandi di un chilometro, tra cui ci sono appunto i “dinosaur-killer asteroids”, e nessuno di loro è in rotta di collisione nel prossimo secolo».

La ricerca scientifica e il continuo monitoraggio degli astronomi per scongiurare impatti asteroidali può rassicurarci? E quanto?

Ettore Perozzi

«Può fare molto. Tra una catastrofe globale e la innocua caduta di un meteorite ci sono molti casi intermedi che siamo già in grado di affrontare, ma a una sola condizione: conoscere per tempo la minaccia. Le soluzioni poi vanno dall’invio di una sonda kamikaze che colpisca l’oggetto deviandone la traiettoria, alla mitigazione del danno provocato dall’esplosione di un meteoroide nell’atmosfera. Quando nel 2013 un mini-asteroide di una ventina di metri è apparso sopra i cieli della città di Chelyabinsk disintegrandosi in volo, i feriti sono stati causati dall’esplosione delle finestre all’arrivo dell’onda d’urto o dal panico che ne è seguito. Sarebbe bastato prevedere l’evento, anche solo con qualche giorno di anticipo, per organizzare una efficace campagna di informazione su come comportarsi. Per questo bisogna intensificare ulteriormente le scoperte. Su questo lato c’è una buona notizia: l’ESA sta realizzando un telescopio innovativo di ideazione INAF (chiamato “fly-eye” perché permetterà di coniugare un grande campo di vista a una alta sensitività) in grado di garantire all’Europa un ruolo di primo piano proprio nella scoperta di NEO».

Quanto è importante la comunicazione del rischio in questo settore? Fate esercitazioni o simulazioni di impatto per meglio comunicare che stiamo per essere colpiti? Il rapporto tra la scienza e la comunicazione nei casi di catastrofi è cruciale?

«Chi si occupa di rischio asteroidale non può prescindere dalla comunicazione con il pubblico – le teorie cospirazioniste sono sempre in agguato. Ma abbiamo anche imparato che non bisogna né eccedere nelle rassicurazioni né esagerare con gli allarmismi: è un equilibrio delicato quello tra scienza e comunicazione. Per questo motivo simulare uno scenario di impatto è molto utile. Una delle esercitazioni più riuscite, che ho raccontato in dettaglio nel libro, ha visto come protagonisti i partecipanti alla Planetary Defense Conference, che riunisce a scadenza biennale gli esperti del campo, ospitata lo scorso anno all’ESRIN di Frascati. Si trattava di gestire una emergenza impatto in Bangladesh e ha evidenziato come anche le differenze culturali giochino un ruolo importantissimo».

Ci sono nuovi progetti o missioni spaziali per intervenire in caso di avvistamento di asteroide o di altro corpo celeste in rotta di collisione con la Terra?

«Ci sono molte tecniche potenzialmente valide: a una brutale deflessione “cinetica” (con o senza l’uso di ordigni nucleari) si può opporre il più immaginifico “trattore gravitazionale” che sfrutta la sua stessa attrazione per far cambiare lentamente rotta a un asteroide. La missione americana Deep Impact ha mostrato nel 2005 che siamo in grado di colpire un piccolo corpo celeste lanciato a folle velocità nello spazio interplanetario. Il prossimo passo è organizzare una “prova generale” che dimostri l’efficacia delle tecniche di mitigazione nello spazio».

Ma non potremmo pensare di “sfruttare” a nostro vantaggio gli asteroidi? In fondo sono delle miniere di idrogeno e ossigeno?

«In effetti negli Stati Uniti sono nate alcune compagnie private che si propongono di aprire delle “miniere asteroidali” per raccogliere i materiali preziosi di cui sono composti. Ma i costi per lanciare una sonda nello spazio interplanetario sono ancora troppo alti e dal punto di vista strettamente economico oggi non sarebbe per nulla conveniente. Diverso è il caso se guardiamo agli asteroidi come delle potenziali “stazioni di servizio” nello spazio su cui fermarsi per fare il pieno di idrogeno e ossigeno – ottimo carburante spaziale. Si rimuoverebbe così una delle maggiori limitazioni che affligge da sempre l’esplorazione del sistema solare».