Sembrava una cometa ‘kamikaze’, destinata a sfidare il Sole passandole a soli 140.000 chilometri e poi ad evaporare completamente. Ma inaspettatamente, gli strumenti scientifici puntati sull’evento, invece di riprendere gli istanti finali della cometa Lovejoy, lo sventurato corpo celeste, ne hanno invece immortalato la sua sopravvivenza, testimoniandone l’allontanamento dal Sole. Un’occasione davvero ghiotta per sfruttare la Lovejoy come una sonda naturale e studiare le regioni più interne della corona solare. Così un gruppo di ricercatori guidato da Cooper Downs, del Predictive Science Inc. di San Diego negli Stati Uniti, ha analizzato le sequenze di immagini raccolte durante il transito da AIA (Atmospheric Imaging Assembly) a bordo del Solar Dynamics Observatory insieme a EUVI-A ed EUVI-B installati sulle sonde gemelle della missione STEREO e ne riporta i primi risultati in un articolo appena pubblicato sulla rivista Science. Le riprese ottenute dagli strumenti in orbita mostrano il ‘dimenarsi’ della coda della cometa nella zona più interna dell’atmosfera del Sole, un fatto che i ricercatori indica rapidi cambiamenti nel modo in cui gli ioni che la compongono interagiscono con l’ambiente coronale che stanno traversando. Un andamento complesso, in cui bisogna tenere in considerazione anche la presenza dei campi magnetici che vanno a determinare la strana ‘danza’ della coda.
“Queste osservazioni hanno dato un’idea della traiettoria della cometa a distanze dal Sole estremamente limitate e anche dell’evoluzione della sua emissione nell’ultravioletto nelle fasi del suo passaggio ravvicinato alla nostra stella” commenta Daniele Spadaro, dell’INAF-Osservatorio Astrofisico di Catania. “I due dati hanno permesso di testare, così come hanno fatto gli autori, modelli che descrivono sia la configurazione del campo magnetico nella corona estesa, ma anche delle sue condizioni termodinamiche”.
Il team ha infatti messo a confronto le riprese di SDO e STEREO con ricostruzioni virtuali del transito della Lovejoy attraverso la corona solare basate su due modelli teorici: quello fondato sulle equazioni della magnetoidrodinamica (MHD, Magneto Hydro Dynamics) e quello basato sull’estrapolazione dei campi magnetici misurati sulla superficie del Sole.
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“Dove la configurazione del campo magnetico è relativamente semplice, l’accordo con le osservazioni è abbastanza buono, specie per il modello MHD” prosegue Spadaro. “Dove la configurazione è più complessa, ad esempio in prossimità delle cuspidi degli streamer coronali, l’accordo non è ancora soddisfacente e quindi probabilmente ci vuole un approccio ancor più completo e sofisticato alla modellistica”.