HA VIAGGIATO PER QUASI 13 MILIARDI DI ANNI

La flebile luce delle prime galassie

Un team guidato da astronomi dell'INAF ha studiato i segnali emessi dalle più antiche galassie che hanno popolato l'universo primordiale. Il lavoro, in corso di pubblicazione su The Astrophysical Journal, è stato condotto grazie alle osservazioni del Very Large Telescope dell'ESO e del telescopio spaziale Hubble.

     12/10/2011

Visione artistica delle galassie primordiali nel primo miliardo di anni dopo il Big Bang, quando l'universo era ancora parzialmente avvolto nella nebbia di idrogeno neutro che assorbiva la radiazione ultravioletta. (Crediti: ESO/M. Kornmesser)

Ha viaggiato per quasi 13 miliardi di anni. Un cammino lunghissimo nello spazio e nel tempo che ne ha modificato profondamente la sua lunghezza d’onda, ‘stirandola’ per effetto dell’espansione dell’universo. Ma alla fine, seppur molto debole e ‘arrossata’, la luce delle prime galassie che hanno popolato l’universo è giunta fino a noi ed è stata captata da due dei nostri telescopi più potenti, il Very Large Telescope sulle Ande cilene e Hubble che orbita a circa 600 chilometri sopra le nostre teste. Un risultato eccezionale, merito di un gruppo di astronomi dell’INAF che non solo sono riusciti a scovare questi debolissimi segnali, ma hanno ottenuto per la prima volta l’evidenza che le galassie che li hanno prodotti erano ancora parzialmente avvolte nella “nebbia primordiale” composta da idrogeno neutro che ha permeato l’Universo per centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang. Le accurate misure hanno permesso anche di ricostruire per la prima volta l’evoluzione temporale del processo noto come reionizzazione, che circa 13 miliardi di anni fa ha dissolto quella “nebbia primordiale”. La scoperta è descritta in un articolo in corso di pubblicazione sulla rivista The Astrophysical Journal.

Non è stato facile arrivare a queste conclusioni. Il team di scienziati ha infatti intrapreso una lunga e complessa serie di osservazioni, condotte nell’arco di tre anni, che hanno coinvolto il grande telescopio da 8,2 metri del Very Large Telescope dell’ESO. Grazie ad esso è stato possibile ottenere le migliori osservazioni spettroscopiche delle più antiche galassie nell’universo, alcune delle quali già individuate dal telescopio spaziale Hubble. Osservazioni che hanno permesso di calcolare con precisione la loro distanza e la quantità di radiazione ultravioletta assorbita. “Nel nostro lavoro abbiamo vestito un po’ i panni degli archeologi” commenta Adriano Fontana, dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Roma, che ha coordinato il progetto di ricerca. “Con i telescopi a nostra disposizione siamo riusciti a gettare lo sguardo direttamente sul passato remoto del nostro universo e osservare la debolissima luce proveniente da galassie che si trovavano in epoche differenti dell’evoluzione cosmica”.

E  le galassie passate al setaccio degli scienziati sono quelle più antiche finora scoperte. “Quando abbiamo analizzato questi oggetti primordiali ci siamo accorti di come una certa componente della loro luce, che in gergo tecnico chiamiamo ‘riga Lyman-alfa’ dell’idrogeno, fosse molto più debole di quanto ci aspettavamo, o addirittura assente” commenta Laura Pentericci, dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Roma, che ha guidato lo studio. “La spiegazione più probabile è che essa sia stata letteralmente nascosta dalla grande quantità di idrogeno neutro che ancora permeava lo spazio: abbiamo stimato che in tale epoca, a soli 780 milioni di anni dal Big-Bang, questo elemento dovesse costituire dal 10 al 50 percento del volume dell’universo. Sappiamo che appena 200 milioni di anni dopo questo livello è molto più basso, con valori analoghi a quelli che osserviamo ai giorni nostri: sembra dunque che la reionizzazione sia avvenuta molto più rapidamente di quanto finora pensato”.

Che cosa può essere stata allora la causa che avrebbe prodotto questo fenomeno? Per i ricercatori gli indiziati principali sono le prime stelle che si sono formate dopo il Big Bang. “Le prime stelle che hanno illuminato il cielo erano probabilmente molto più grandi, calde e luminose del nostro Sole” dice Eros Vanzella, dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Trieste, che ha partecipato allo studio. “Anche se la loro esistenza è stata relativamente breve – solo qualche milione di anni – la loro intensa radiazione sarebbe stata in grado di dissolvere la nebbia primordiale di idrogeno neutro che permeava l’universo primordiale. Ulteriori osservazioni sono però necessarie per verificare questa ipotesi”.

 

Nel team che ha condotto lo studio, oltre Laura Pentericci, Adriano Fontana ed Eros Vanzella, hanno partecipato i ricercatori INAF Marco Castellano, Andrea Grazian, Kostantina Boutsia, Emanuele Giallongo, Roberto Maiolino, Paola Santini (Osservatorio Astronomico di Roma) e Stefano Cristiani (Osservatorio Astronomico di Trieste).

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