LO STUDIO SU SCIENCE ADVANCES

Magnetismo lunare: una storia da riscrivere

Nel 1971 gli astronauti dell’Apollo 15 riportarono con loro diversi chili di rocce lunari. Rocce che hanno ancora oggi segreti da svelare. Un’analisi della loro magnetizzazione residua ha offerto importanti indizi sull’evoluzione del campo magnetico del nostro satellite, suggerendo che esso sia durato tra 1 e 2,5 miliardi di anni più di quanto stimato finora

     09/08/2017

La roccia studiata da Sonia Tikoo e il suo team. Il frammento è composto da basalto e legato assieme da composti vitrei, creati dopo l’impatto di qualche asteroide. Il cubo nero in basso a destra (per scala) è di un centimetro. Crediti: Rutgers University

Lo spazio è un luogo pericoloso, e un forte campo magnetico offre una protezione indispensabile dalle radiazioni e dai venti solari che colpiscono tutti i corpi celesti in prossimità di una stella. La mancanza di un campo magnetico, ad esempio, può rendere impossibile la presenza di acqua sulla superficie di un pianeta, pregiudicandone la sua abitabilità. Per questo motivo, lo studio dell’origine e dell’evoluzione dei campi magnetici è di grade importanza, incluso quello del corpo celeste a noi più vicino: la Luna.

Un recente studio, pubblicato oggi su Science Advances e condotto da Sonia Tikoo della Rutgers University, ha cambiato ciò che sappiamo del campo magnetico della Luna, suggerendo che questo sia stato più longevo di quanto si pensasse. Tikoo e il suo team hanno condotto degli esperimenti su una roccia lunare raccolta nel 1971 dagli astronauti David Scott and James Irwin della missione Apollo 15, proveniente dal bordo del cratere Dune e risalente a circa 2 miliardi di anni fa. Riscaldando questa roccia fino a 780 gradi in un’atmosfera controllata, al Mit di Boston, e misurando la forza e la direzione del suo campo magnetico, Tikoo ha potuto risalire alla sua magnetizzazione originale: i risultati di questi test suggeriscono che il campo magnetico della Luna sia durato più a lungo di quanto si pensava. Mentre 3.5 miliardi di anni fa il campo magnetico lunare era forte quanto quello della Terra, nel corso del tempo è diminuito, fino ad essere quasi del tutto scomparso ai giorni nostri. Ma questa diminuzione è avvenuta più lentamente del previsto: i dati ottenuti dal team di Tikoo dimostrano come il campo magnetico sia durato tra 1 e 2,5 miliardi di anni più di quanto si pensasse. Oggi, il campo magnetico lunare è causato dalla magnetizzazione residua, appunto, nella crosta e nelle rocce che si trovano in superficie.

Un risultato importante in sé, ma anche perché solleva altri interrogativi. Considerato che la presenza di un campo magnetico dipende dalla composizione del nucleo di un corpo celeste (il campo magnetico è prodotto dalla rapida rotazione del nucleo, come fosse una dinamo) la revisione della durata del campo magnetico lunare mette in questione la composizione, e il ciclo vitale, del nucleo della Luna. Sappiamo per certo che questo è composto per lo più da ferro, ma potrebbero essere presenti anche altri materiali (come carbonio o zolfo), dato che la durata del campo magnetico sembra suggerire che i processi di raffreddamento e di cristallizzazione del nucleo siano stati più lenti del previsto.

Sonia Tikoo-Schantz esamina frammenti di suolo lunare. Crediti Rutgers University

E oggi? La Luna che osserviamo ai giorni nostri è un corpo celeste assai differente da quello di diversi miliardi di anni fa, quando «la luna era geologicamente molto più attiva. In particolare», spiega Sonia Tikoo a Media Inaf, «vi era moltissima attività vulcanica, che formò grandi pianure colmando i crateri da impatto: queste sono le aree più scure che possiamo osservare sul lato della Luna che è rivolto verso la Terra. Questo vulcanismo è andato scemando negli ultimi 3 miliardi di anni, e oggi la Luna non è più attiva. Questo ci dice che l’interno era molto più caldo nel passato».

«Il nostro studio», conclude Tikoo, «dimostra come corpi celesti piccoli come la Luna possano avere campi magnetici che durano miliardi di anni. Questo è un passo importante per stabilire dei limiti minimi riguardo alla dimensione di pianeti che possono preservare un’atmosfera ed essere dunque abitabili».

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