LA FOTOEMISSIONE DURA UN ATTOSECONDO

Misurare il tempo senza orologi

Al Politecnico di Losanna è stato misurato il ritardo con cui si genera l’emissione dell’elettrone nell’effetto fotoelettrico. È un intervallo piccolissimo, pari a un attosecondo, ovvero un miliardesimo di miliardesimo di secondo. Ma il fatto straordinario è che la misura è stata fatta sullo spin dell’elettrone, senza l’utilizzo di alcun orologio. Come spiega a Media Inaf Mauro Fanciulli, leader della ricerca

     08/02/2017

Una misura di tempo senza un orologio? Uno studio su Physical Review Letters spiega come. Crediti: EPFL

L’effetto fotoelettrico, ovvero l’emissione di elettroni dalla superficie di un materiale colpita da radiazione luminosa di sufficiente energia (fotoemissione), è stata rilevato per la prima volta da Heinrich Rudolf Hertz nel 1887, denominato come tale negli stessi anni dal bolognese Augusto Righi, e spiegato da Albert Einstein nel 1905. Proprio per i suoi studi sull’effetto fotoelettrico e la conseguente scoperta dei quanti di luce (più tardi chiamati fotoni) Einstein ricevette il premio Nobel per la fisica nel 1921, così come Kai Siegbahn nel 1981 per lo sviluppo della spettroscopia a fotoemissione (o spettroscopia fotoelettronica).

Oltra a dare fondamento alla fisica quantistica ed essere utilizzata in molte applicazioni pratiche, la fotoemissione permette agli scienziati di studiare le proprietà degli elettroni in un solido attraverso tecniche di spettroscopia fotoelettronica. Una delle proprietà più sfuggenti degli elettroni è lo spin, una proprietà quantistica intrinseca che – detto in breve – assomiglia alla rotazione dell’elettrone attorno al proprio asse. Il grado con cui questo asse è allineato verso una determinata direzione è denominato polarizzazione di spin.

Studiando la polarizzazione di spin, un gruppo di ricerca europeo guidato da Mauro Fanciulli, dottorando al Politecnico federale di Losanna, in Svizzera, è riuscito ora a misurare il tempo intercorrente tra l’arrivo del fotone su un cristallo di rame e la conseguente emissione dell’elettrone. In un nuovo studio pubblicato su Physical Review Letters, i ricercatori spiegano come la fotoemissione non sia istantanea ma avvenga in un attosecondo, un miliardesimo di miliardesimo di secondo dopo l’arrivo del fotone. Il fatto veramente inconsueto è che per cronometrare questo infinitesimo record non c’è stato bisogno di alcun orologio, come spiega lo stesso Fanciulli intervistato da Media Inaf.

Mauro Fanciulli, alla lavagna, e il suo supervisore di dottorato J. Hugo Dil al Politecnico di Losanna, in Svizzera. Crediti: EPFL

Cosa avete visto in questo esperimento?

«Nel nostro esperimento, in pratica, riusciamo a misurare quanto tempo ci mette un elettrone a essere emesso da un materiale, in questo caso un cristallo di rame, dopo che il cristallo è stato eccitato con della radiazione luminosa. La particolarità del nostro esperimento è che siamo riusciti a determinare questo tempo senza utilizzare nessun tipo di orologio, anche perché bisognerebbe misurare un tempo troppo breve».

Come l’avete cronometrato, dunque?

«Non abbiamo utilizzato tecniche avanzate di laser, come si fa in altri casi, ma abbiamo misurato un’altra proprietà dell’elettrone fotoemesso, lo spin, che, secondo il modello teorico da noi sviluppato, si può collegare al tempo che impiega per completare questo processo».

Com’è nata l’idea di questo esperimento?

 «È un ambito di ricerca sviluppato già negli anni ’80 quando si è visto che lo spin dell’elettrone poteva essere legato direttamente alla fase della sua funzione d’onda. Solo negli ultimi anni, con lo sviluppo tecnologico, si sono cominciati a misurare questi tempi di fotoemissione con dei laser. Noi che siamo un gruppo che lavora con la fotoemissione, ma dal punto di vista dello spin, ci siamo resi conto che le due cose si potevano legare, in modo da misurare il tempo attraverso l’intensità dello spin».

Quindi la fotoemissione non è istantanea, ma ci vuole “un attimo” perché si produca?

«Gli studi sulla fotoemissione risalgono ormai a più di un secolo fa e continuano tuttora. Il punto è che nella descrizione teorica del processo della fotoemissione viene sempre trascurato il tempo, cioè quanto ci mette l’elettrone a passare dallo stato in cui sta nel materiale allo stato in cui è un elettrone libero, che poi viene misurato. Viene trascurato perché trattare con il tempo in meccanica quantistica è sempre un po’ complicato, e poi perché è un tempo molto molto breve, approssimabile a un’emissione istantanea».

Quali possibili applicazioni pratiche?

«Questo è un’importante risultato, prima di tutto, dal punto di vista della fisica di base. Un’importante applicazione del metodo che abbiamo sviluppato è che potremmo ottenere, una volta comprese queste nuove proprietà, un nuovo tipo d’informazione sul materiale che stiamo esaminando. Per questo studio abbiamo utilizzato un cristallo di rame, che ha un comportamento “modello” per la fotoemissione, ma stiamo già facendo esperimenti su materiali nuovi e interessanti, come il grafene o materiali superconduttori, su cui potremmo imparare delle cose nuove e suggerire, ad esempio, una modalità di produzione più efficiente».

Per saperne di più:

  • Leggi il preprint dello studio “Spin polarization and attosecond time delay in photoemission from spin degenerate states of solids”, di Mauro Fanciulli, Henrieta Volfová, Stefan Muff, Jürgen Braun, Hubert Ebert, Jan Minár, Ulrich Heinzmann e J. Hugo Dil, in pubblicazione su Physical Review Letters

Correzione del 09.02.2017: modificato nel primo capoverso “radiazione luminosa di sufficiente intensità” con “radiazione luminosa di sufficiente energia”; sostituita nel virgolettato la parola “empty” con “tempi”.