DUE ANNI VISSUTI PERICOLOSAMENTE

I dolori della giovane Gaia

Lanciato nel dicembre del 2013, il telescopio spaziale Gaia dell’ESA ha appena completato i primi due anni d’osservazioni dei cinque che ha in programma per studiare la Via Lattea. Molti i successi, ma notevoli anche le sfide che il team della missione ha dovuto affrontare. Ne parliamo con Mario Lattanzi e Alberto Riva dell’INAF di Torino

     17/08/2016
Infografica del satellite. Crediti: Astrium

Infografica sulla missione. Crediti: Astrium

Se ne parla poco, del telescopio spaziale dell’ESA Gaia. E quando d’un satellite si parla poco, a volte è perché c’è qualcosa che non va. In realtà, che si trattasse d’una missione intrinsecamente destinata a una certa riservatezza lo si sapeva sin dall’inizio, visto che il suo obiettivo finale è la somma di miliardi d’osservazioni accuratissime, più che singole immagini memorabili. Ma un aggiornamento dettagliato e avvincente, pubblicato ieri (in occasione dei primi due anni di campagna osservativa) sul sito dell’ESA, conferma come per Gaia la partenza, in effetti, sia stata un po’ in salita. Costellata d’imprevisti piuttosto seri. Non tali, comunque, da pregiudicare la missione, anzi: ora che i problemi, come vedremo, sono stati sviscerati, il project scientist Timo Prusti dell’ESA si dichiara fiducioso. «Siamo ancora convinti di riuscire ad analizzare oltre un miliardo di stelle», spiega, «misurando la posizione e il moto di ciascuna di esse con una precisione fino a 100 volte superiore a quella ottenuta dal predecessore di Gaia, il satellite Hipparcos».

I problemi emersi nel corso dei primi due anni di campagna d’osservazioni – Gaia venne lanciato il 19 dicembre del 2013, ma la fase operativa ebbe inizio circa otto mesi più tardi – elencati nel report dell’ESA sono quattro. Primo, la formazione di ghiaccio d’acqua sugli specchi, che continua a ripresentarsi, nonostante ripetute azioni di “sbrinamento”, in quantità superiore al previsto. Secondo, quella che gli scienziati chiamano stray light: una sorta di “rumore ottico” dovuto alla luce del Sole che s’insinua, non voluta, nel piano focale nonostante lo scudo da 10 metri predisposto, appunto, per proteggere Gaia dalla radiazione solare. Terzo, alcune microvibrazioni meccaniche (clanks) che introducono discontinuità nell’angolo di rotazione del telescopio. Quarto e ultimo problema, rilevato dal laser che tiene continuamente traccia dell’angolo di separazione fra i due telescopi di Gaia, una fluttuazione periodica di questo angolo – dovuta anch’essa, come per i clanks, a espansioni e contrazioni termiche – più ampia di quanto atteso.

Rappresentazione schematica del satellite. Crediti: ESA

Rappresentazione schematica del satellite. Crediti: ESA

Nessuno di questi imprevisti, occorre sottolineare, è risultato grave al punto da rallentare la tabella di marcia. «Oltre 50 miliardi di transiti sul piano focale, 110 miliardi di osservazioni fotometriche e 9,4 miliardi di osservazioni spettroscopiche», elenca Fred Jansen, il mission manager dell’ESA per Gaia «sono state elaborate con successo fino ad oggi».

In attesa della prima release dei dati (relativi alle osservazioni compiute fra il 25 luglio 2014 e il 16 settembre 2015), in calendario per il prossimo 14 settembre, per capire meglio la natura dei problemi che gli scienziati si sono trovati ad affrontare, e soprattutto il loro eventuale impatto sui dati scientifici, Media INAF ha raggiunto Mario Lattanzi, responsabile per l’Italia della missione, e Alberto Riva, membro del payload experts group del satellite, entrambi ricercatori presso l’Osservatorio astrofisico dell’INAF di Torino.

Partiamo dai depositi di ghiaccio sugli specchi: perché, pur evaporando quando li riscaldate, ogni volta si riformano? È sempre la stessa acqua, quella “imbarcata” al momento del lancio?

«Sì, è la stessa acqua, non c’è acqua in L2 [ndr: il secondo punto lagrangiano, a 1.5 milioni di km dalla Terra, dove si trova Gaia]. Il fatto che la tenda “copra” la maggior parte del satellite, impedisce all’acqua “evaporata” di fuggire completamente».

Il degrado in sensibilità introdotto dal ghiaccio, leggiamo nel comunicato dell’ESA, è di 0.2 punti di magnitudine (da 20.7 a 20.5). In termini di “stelle perse” che significa? Di quante sorgenti in meno stiamo parlando, rispetto a quelle attese?

«Non si parla di “stelle perse” nel caso di Gaia. Infatti l’obiettivo è di mappare la volta celeste in modo completo (3 componenti di posizione e 3 di velocità) fino alla magnitudine 20. I problemi riscontrati all’inizio della verifica delle prestazioni scientifiche avevano suggerito di innalzare la soglia della detection al 20.7. La perdita di 2 decimi dovuta al degrado garantisce comunque la completezza fino alla magnitudine 20. La soglia era stata innalzata per avere un margine che tuttora rimane rassicurante».

Passiamo al problema della stray light, la luce solare che s’insinua nel piano focale. In questo caso il peggioramento delle performance sembrerebbe, almeno a prima vista, più preoccupante: la precisione nel localizzare le sorgenti più deboli quasi si dimezza, passando da 300 a 500 microsecondi d’arco. Di più: a differenza del problema del ghiaccio, pare che per questo non ci sia soluzione. È così? Che impatto avrà sulla scienza di Gaia?

«Certo, la perdita di precisione alle magnitudini più deboli è significativa (un po’ più del 60 percento), tuttavia l’impatto sulla scienza di Gaia è modesto. Infatti, per le stelle più deboli, comunque il limite di Gaia (grossomodo l’accuratezza sulla distanza deve essere 10 percento della distanza stessa), l’orizzonte, si riduce da 300 a 200 parsec. Se confrontato con l’orizzonte di Gaia, che per le magnitudini più brillanti raggiunge i 10 mila parsec, si comprende che alle magnitudini più deboli la perdita di accuratezza è certamente sostenibile con un minimo impatto sulla scienza della missione».

Problema micro-clanks, le piccole deformazioni meccaniche dovute a fluttuazioni termiche. Come possiamo tradurre questo termine? E cosa si può fare per gestirlo?

«La traduzione letterale direbbe “rumore metallico”. Potremmo tradurla come ‘’micro aggiustamenti strutturali’’. In pratica Gaia, come tutti gli oggetti costruiti dall’uomo sottoposti a variazione di temperatura, si “aggiusta” e si adegua alle variazioni della temperatura stessa. Variazioni che in questo caso sono dovute alla rotazione del satellite rispetto alla direzione del Sole. Il satellite (o meglio le sue parti, viti comprese) si adegua e riaggiusta per rispondere alle variazioni meccaniche. Non c’è da stupirsi del fatto che Gaia sia “sensibile” a questi clank. La verità è che Gaia è “ipersensibile” a queste variazioni vista la precisione di misura che deve raggiungere».

Una delle due barre del BAM (Basic Angle Monitor Device) di Gaia. Crediti: TNO, Fred Kamphues

Una delle due barre del BAM (Basic Angle Monitor Device) di Gaia. Crediti: TNO, Fred Kamphues

Veniamo infine alle fluttuazioni del “basic angle”, l’angolo di separazione fra i due telescopi: leggiamo che sono circa cento volte superiori al previsto, un dato che suona preoccupante. Di nuovo, che impatto può avere sulla scienza e cosa si può fare per contenerlo?

«Quello che sta accadendo è che le linee di vista si muovono molto più rispetto a quanto previsto dalla missione nominale. La buona notizia, invece, è che il sistema laser di monitoraggio di questo “basic angle” (ovvero il BAM, Basic Angle Monitoring Device) sta funzionano alla perfezione. Quindi il sistema metrologico a bordo ci ha detto in fase di commissioning scientifico – e continua a dirci – che qualcosa di non previsto accade all’angolo di base. Ma proprio questa capacità dell’interferometro BAM ha fatto sì che questo problema, potenzialmente catastrofico, sia ora sotto controllo. Infatti le misure del BAM sono ora incluse nel processo di riduzione dei dati astrometrici e ci stanno permettendo di raggiungere, o quasi, le precisioni previste. Al momento, quindi, la qualità scientifica della missione sembra in linea con quanto previsto».

Quale di questi problemi vi ha dato, o vi sta dando, più filo da torcere?

«Tutti e nessuno. Siamo coinvolti con tre payload experts a tutte le attività di monitoraggio di Gaia, per cui abbiamo affrontato questi problemi assieme ai colleghi europei. Fortunatamente la preparazione e l’impegno ci hanno dato modo di trovare più o meno velocemente delle risposte affidabili ai “prevedibili” imprevisti di una missione spaziale».

Qual è il coinvolgimento dei ricercatori dell’INAF, in questa fase di gestione degli imprevisti?

«Siamo coinvolti in tutti i dispositivi citati. Facciamo parte, appunto, del gruppo dei payload experts, perciò abbiamo dovuto scrivere e testare software che permetta di affrontare adeguatamente i problemi. Inoltre, stiamo attivamente (dal primo giorno) analizzando dati che arrivano al Data Processing Center Italiano (DPCT-Data Processing Center, a Torino), e abbiamo adattato e stiamo continuando ad adattare i software progettati prima del lancio alle nuove condizioni. Siamo sicuri che la maggior parte dei problemi rientreranno, se avremo la possibilità di lavorare con costanza agli aggiornamenti di quel software “elementare” che permette di passare dal dato grezzo al dato astrometrico finale. D’altra parte, il fatto che si sia arrivati a una DR1 [ndr: la prima release dei dati], ufficialmente il 14 settembre, a mille giorni dal lancio di Gaia, è testimonianza che siamo sulla buona strada».