RICERCATRICI E RICERCATORI, MA ANCHE UN PAZIENTE DI APPENA POCHI MESI

Nature, ecco i dieci protagonisti dell’anno

Cinque donne, quattro uomini e un bambino che nel 2025 hanno contribuito a ridefinire la scienza. Quest’anno la top ten della prestigiosa rivista britannica premia soprattutto successi e avanzamenti in campo medico, ma non mancano veri e propri paladini dell’integrità scientifica e un astronomo – Tony Tyson – il cui contributo è stato cruciale per la realizzazione del Vera Rubin Observatory

     08/12/2025

La copertina del numero di Nature con la top ten 2025

Non è facile sceglierne dieci, fra i circa dieci milioni di scienziati che ci sono al mondo, ma la redazione di Nature ogni anno ci prova, e anche per il 2025 non è venuta meno alla sua missione impossibile. Dieci persone – cinque donne, quattro uomini e un bambino – che hanno contribuito a dar forma a quello che oggi intendiamo per scienza. Una top ten il cui valore non sta tanto nei nomi che vi sono entrati quanto nell’immagine che ne emerge di ciò che è la ricerca scientifica dei giorni nostri, dei suoi successi e delle sfide che si trova ad affrontare.

Partiamo dai successi, dunque. Dagli avanzamenti di rilievo per la conoscenza. E inauguriamo l’elenco con l’unico nome presente in lista direttamente legato all’astronomia: il fisico e astronomo statunitense Tony Tyson, 85 anni, la maggior parte dei quali trascorsi a studiare il cosmo attraverso i Ccd. È proprio grazie a questi microscopici elementi semiconduttori in grado di trasformare con grande efficienza la luce in segnali elettrici che la fotocamera del Vera Rubin Observatoryentrata in funzione quest’anno, con i suoi 3.2 miliardi di pixel è a oggi la più grande al mondo – promette di rivoluzionare l’astronomia. Il lavoro di Tyson sulla tecnologia delle fotocamere digitali è stato fondamentale per lo sviluppo di questo telescopio a grande campo da 810 milioni di dollari – alla cui realizzazione ha contribuito anche l’Inaf – da lui immaginato per la prima volta più di 30 anni fa. «Era uno di quei progetti ad alto rischio e ad alto ritorno. Abbiamo corso il rischio», dice oggi Tyson.

Il piano focale della fotocamera del Vera Rubin Observatory è largo più di 60 centimetri e contiene 189 sensori individuali in grado di produrre immagini da 3200 megapixel. Crediti: Jacqueline Orrell / Slac National Accelerator Laboratory

Se Il Rubin Observatory trascorrerà i prossimi anni rivolto verso l’alto a scrutare le profondità del cosmo, è invece una ricercatrice che da anni sonda gli abissi marini, spingendosi fino a novemila metri sotto la superficie degli oceani, un’altra protagonista della top ten di Nature: la geologa marina Mengran Du dell’Accademia delle scienze cinese, che a bordo del sommergibile Fendouzhe ha scoperto un ecosistema di animali che vivono più in profondità di tutti gli altri conosciuti. E per rimanere negli avanzamenti che hanno a che fare con le immersioni in profondità – in questo caso, delle reti neurali – un altro riconoscimento è andato all’imprenditore cinese Liang Wenfeng, il creatore di DeepSeek-R1, il large language model che da mesi sta dando filo da torcere a sistemi d’intelligenza artificiale ben più costosi e blasonati, richiedendo risorse computazionali assai più contenute e mantenendosi pure open weight.

È però l’innovazione in medicina a far la parte del leone, con ben quattro persone su dieci nella top ten di Nature: tre scienziati e un paziente. Partiamo da quest’ultimo, KJ Muldoon, un adorabile bimbo di pochi mesi dalle guance paffute diventato celebre per essere stato il primo al mondo ad aver ricevuto una terapia personalizzata di editing genomico basata sulla tecnica Crispr per curare la sua rarissima malattia, il deficit di carbamil-fosfato sintetasi 1. Per i suoi risultati nel trattamento di un’altra devastante malattia, quella di Huntington, è entrata nella top ten Sarah Tabrizi, neurologa allo University College London. Alla biologa israeliana Yifat Merbl, del Weizmann Institute of Science di Rehovot, il riconoscimento è invece andato per una scoperta inedita sul sistema immunitario, e in particolare sui proteasomi, che potrebbe aprire le porte alla messa a punto di peptidi antimicrobici per la lotta alle infezioni. L’ultimo di questo gruppo di paladini della lotta alle malattie è un ricercatore brasiliano, Luciano Moreira, che ha inaugurato a Belo Horizonte il primo stabilimento per la produzione di zanzare infettate dal batterio Wolbachia, con le quali si spera di riuscire ad arginare la diffusione della dengue.

È infine contro fragilità e patologie non tanto di noi umani quanto della scienza e del suo rapporto con la società che hanno combattuto – e continuano a combattere – gli ultimi tre ricercatori entrati in top ten. C’è l‘esperta di salute globale Precious Matsoso di Pretoria, in Sudafrica, alla quale va il merito di aver messo a punto e fatto accettare, dopo anni di faticose negoziazioni, il primo trattato mondiale su come affrontare le prossime pandemie. C’è poi un coraggioso data scientist indiano, Achal Agrawal, che da anni si dedica a far affiorare i numerosi problemi di carattere etico che affliggono il sistema di valutazione della ricerca del suo paese, a partire dalla piaga del plagio e delle conseguenti ritrattazioni di articoli scientifici, attirandosi l’ostilità di parte del mondo accademico ma riuscendo a dare un contributo decisivo a un cambiamento politico epocale nel modo in cui vengono classificate, oggi in India, le istituzioni di istruzione superiore. Infine – ma in realtà all’inizio, visto che è il suo ritratto ad aprire lo speciale di Nature – c’è una scienziata la cui sfortunata carriera nel principale ente governativo americano per la sanità pubblica rappresenta forse meglio di ogni altra la situazione per molti aspetti preoccupante nella quale versa la scienza oggi negli Stati Uniti: è la microbiologa e immunologa Susan Monarez, licenziata lo scorso 27 agosto, nemmeno un mese dopo aver assunto la guida dei Cdc (i Centers for Disease Control and Prevention statunitensi), “per aver difeso l’integrità scientifica”, come ha riferito lei stessa a settembre nel corso di una tesa audizione al Congresso. La sua colpa sarebbe – stando al suo resoconto – l’aver rifiutato di licenziare alcuni colleghi e di far pre-approvare raccomandazioni sui vaccini senza prima tener conto di dati scientifici rilevanti.

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