TRASCRIZIONE DELLA DICIANNOVESIMA PUNTATA DI “HOUSTON”

Tethered, appesi a un filo

Due astronauti in orbita per la prima volta, un’idea presa da un libro di fantascienza e dalla visione di uno scienziato italiano, un accordo finalmente preso con la Nasa, e un satellite appeso come un aquilone allo Space Shuttle per otto giorni. È l’inizio di un’impresa storica o un disastro annunciato? Con i due astronauti Franco Malerba e Umberto Guidoni, che hanno volato assieme alle due missioni Tethered

     29/08/2025

Quella che segue è la trascrizione del diciannovesimo e ultimo episodio della prima stagione di Houston, un podcast di Media Inaf che parla di spazio, atterraggi falliti, innovazioni disperate e soluzioni geniali. Ideato, realizzato e condotto da Valentina Guglielmo, quest’episodio – pubblicato per la prima volta il primo agosto 2025  – parla delle due missioni con lo Space Shuttle per il test del satellite tethered e ha come ospiti gli astronauti Franco Malerba e Umberto Guidoni. Potete ascoltarlo su Apple Podcasts, su Spotify e su YouTube. Oppure direttamente da qui.


Crediti per l’immagine della missione Tss: Nasa

Umberto Guidoni
È stata particolarmente una delusione. Mi sono sentito un po’ come un bambino che gli scappa di mano un palloncino, insomma.

Valentina Guglielmo
Nel vero senso della parola.

Umberto Guidoni
Nel vero senso della parola, esattamente.

[Inizio musica]

Valentina Guglielmo
Due astronauti al loro primo volo, un’idea nata da un libro di fantascienza e dalla visione di uno scienziato italiano, un accordo tanto cercato fra una giovane agenzia spaziale italiana e la Nasa, e un cavo metallico lungo 20 km da cui dipende tutto. Potrebbero essere gli ingredienti di una grande avventura o di un disastro assicurato, ma di certo garantiscono una storia da raccontare. Ah, dimenticavo, le missioni appese a un filo sono state due, a distanza di quattro anni l’una dall’altra. Che voi siate a caccia di problemi o di un lieto fine, restate in ascolto perché in questa storia ce n’è per tutti.

A raccontarla insieme a me, proprio quei due astronauti che dicevamo all’inizio: Franco Malerba e Umberto Guidoni, che con il satellite a filo – è questo il nome della missione – hanno inaugurato la propria carriera in orbita.

Io sono Valentina Guglielmo e questo è un podcast di Media Inaf che parla di spazio, atterraggi falliti, innovazioni disperate e soluzioni geniali. Si chiama Houston.

[Fine musica]

Valentina Guglielmo
Era lo scorso agosto quando ho sentito parlare per la prima volta del satellite a filo, la missione Tethered o TSS, come potete trovarla nel web. Stavo parlando al telefono con Paolo Conte, un giornalista che mi ha intervistata lo scorso anno in una trasmissione estiva di Radio 3 scienza sui podcast, per parlare di Houston. Allora erano uscite solo le prime sette puntate, e Paolo era curioso su quali storie avessi in cantiere per gli episodi successivi. Poi, a un certo punto mi ha detto: “Perché non racconti anche della missione Tethered?”. Non ricordo se ho finto di capire e di conoscere la storia a cui si riferiva, o se ho dichiarato che non avevo idea di cosa stesse parlando, e che in verità non avevo nemmeno capito bene il nome. D’altra parte, gliel’avevo detto durante l’intervista che molte cose che racconto in Houston le ho conosciute e scoperte anche io scrivendo gli episodi e parlando coi miei ospiti. Ricordo però che, con molto entusiasmo, Paolo mi ha spiegato che si riferiva a quel satellite appeso a un filo e che alla missione avevano partecipato anche tre astronauti italiani, e che se volevo poteva passarmi i contatti. Gli ho detto subito di sì, ma poi ho aspettato fino a un paio di mesi fa per decidermi a raccontare questa storia. Quindi eccoci qui, un anno dopo, a parlare delle due missioni Tethered.

Questa vicenda è una collezione di prime volte, e alcune le abbiamo dette prima: la prima volta in volo per i due astronauti italiani Malerba e Guidoni, rispettivamente nella prima missione Tethered nel 1992 e nella seconda, nel 1996; la prima volta in cui una missione spaziale ospitava un astronauta italiano – Malerba appunto; la prima volta in volo anche per l’agenzia spaziale italiana che era nata appena quattro anni prima, nel 1988. E la prima e unica volta in cui qualcuno si è cimentato nella costruzione di un satellite “a filo”.

La missione Tethered, che qualcuno traduce anche come “satellite al guinzaglio”, volava a traino dello Space Shuttle, ed è partita per la sua prima occasione di volo dal 31 luglio all’8 agosto 1992.

[Estratto audio del lancio di Eureca e Tss-1]
Speaker: “we are now in the final five hours of the countdown for the launch of the space shuttle atlantis carrying the tethered satellite and the european retrievable carrier”

[Countdown del lancio al minuto]

Valentina Guglielmo
Non so se siete riusciti a cogliere le prime parole pronunciate in questo audio. Il commentatore dice “siamo giunti alle ultime cinque ore che precedono il countdown per il lancio dello Space Shuttle Atlantis che trasporta il satellite Tethered e lo European retrievable carrier”. Ve lo ricordate, il satellite Eureca? Ne abbiamo parlato proprio nella settima puntata di Houston, quella appena uscita quando Paolo Conte mi ha intervistato. Eureca e Tethered, che coincidenza, erano proprio compagni di viaggio su quello Shuttle partito nel luglio 1992. La missione era la STS-46, che in un crescendo di difficoltà, dopo il lancio aveva il compito di mettere in orbita prima Eureca, e poi il satellite a filo.

All’inizio della nostra chiacchierata, quindi, Malerba mi ha raccontato dell’esordio travagliato di Eureca che nella settima puntata avevamo sentito attraverso i ricordi di Paolo Ferri. Poche ore dopo lo sgancio dallo Shuttle, durante un passaggio notturno senza la luce del Sole a illuminare i due veicoli, Eureca aveva improvvisamente cambiato traiettoria avvicinandosi pericolosamente allo Shuttle. Malerba faceva parte della squadra incaricata alla messa in orbita del satellite assieme a Claude Nicollier, e quindi in quel momento erano loro al comando delle operazioni in orbita. La seconda squadra di astronauti riposava, e con loro anche il capitano. Dopo aver calcolato che in soli venti minuti Eureca gli sarebbe arrivata addosso, gli astronauti hanno quindi deciso di effettuare una manovra di allontanamento di emergenza, provocando uno scossone all’interno dello Shuttle che ha svegliato il capitano, che è subito salito dalla sua cuccetta chiedendo che cosa stessero facendo. Per sapere come è andata, tornate indietro di una decina di episodi. Per ora, vi basti sapere che Eureca fu messo in sicurezza e che, dopo di lui, toccava a Tethered.

[Stacco musicale]

Valentina Guglielmo
L’equipaggio della missione STS-46 era composto da sette astronauti: comandante l’americano Loren Shriver, il pilota Andrew Allen, Jeffrey Hoffman, Franklin Chang-Diaz, Claude Nicollier, astronauta dell’Esa e responsabile di Eureca, poi Marsha Ivins – unica donna a bordo, e infine Franco Malerba come responsabile della missione Tethered. Erano divisi in due squadre da tre che si alternavano ogni 12 ore, la squadra rossa e la squadra azzurra, mentre il comandante non apparteneva a nessuna delle due e si autogestiva. Malerba, lo dicevamo, era nella squadra azzurra con Andrew Allen e Claude Nicollier. Ma com’è fatto uno Space Shuttle?

[Inizio musica]

Valentina Guglielmo
Lo Shuttle, il sistema di lancio riutilizzabile della Nasa lanciato per la prima volta nel 1981 e per l’ultima nel 2011, si componeva di tre parti. L’orbiter, ovvero la navicella vera e propria che ospitava astronauti, strumenti e carichi utili, nonché l’unica ad arrivare in orbita; due razzi riutilizzabili a propellente solido, che si staccavano due minuti dopo il lancio a circa 66km di altezza e tornavano indietro; e un serbatoio esterno, la parte più ingombrante e grande dell’intera struttura al momento del lancio, contenente ossigeno e idrogeno per alimentare i tre motori principali dello Shuttle. Questo si staccava dopo circa 8 minuti e mezzo a un’altitudine di 109 km, esplodeva in atmosfera e ricadeva in mare senza venire poi recuperato. Ma quanto era grande tutto questo sistema? L’orbiter era alto 17,2 metri e lungo poco più di 37. Il serbatoio esterno era lungo circa 47 metri e conteneva 2 milioni di litri di propellente e infine i razzi ausiliari erano lunghi 45 metri e con un diametro di 4 metri. Come lunghezza, sono più di dieci Volkswagen Golf disposte in fila. Un bel bestione.

L’orbiter era progettato per raggiungere quote comprese tra i 185 e i 643 km con un equipaggio composto da due a sette astronauti. Nel caso di STS-46, la missione che trasportava Eureca e Tethered, l’orbita finale si trovava a circa 420km e lo Shuttle impiegava circa 90 minuti per compiere un giro attorno alla Terra. Nella parte anteriore della navicella si trovava l’abitacolo con la strumentazione, al piano superiore, e i letti, la cucina e i servizi igienici nella parte inferiore. Qui si trovava anche un tapis roulant che gli astronauti utilizzavano per allenarsi in assenza di peso.

Nella parte centrale del veicolo si trovava la stiva, detta anche cargo bay, lunga 18 metri e con un diametro di 4.6 metri, mentre nella parte posteriore si trovavano i serbatoi del carburante, i motori principali e quelli di controllo di assetto.

[Fine musica]

Valentina Guglielmo
L’idea del “satellite a filo” viene da lontano, dagli anni ’70, quando il professor Giuseppe Colombo pensò di utilizzare questi cavi nello spazio per produrre energia elettrica, oppure per spostare la posizione dei satelliti e quindi per gestire il traffico spaziale [nda: i primi studi sui sistemi Tethered in realtà si attribuiscono, già a partire dal 1972, al fisico Mario Grossi]. Parallelamente, l’idea era comparsa addirittura in un libro di fantascienza, un romanzo del 1979 di Arthur Clarke intitolato “le fontane del paradiso”, in cui si parlava di un ascensore spaziale che partiva da Yakkagala, in cima a una montagna nell’attuale Sri Lanka, e arrivava fino all’orbita geostazionaria, ovvero 36 mila chilometri. La missione del satellite a filo chiaramente non pretendeva di spingersi a tanto, ma prevedeva comunque il dispiegamento di un filo di 20km, una distanza ragguardevole se consideriamo che stiamo parlando di operazioni che si dovevano svolgere nello spazio più di 30 anni fa. Il satellite a filo, in sostanza, era una sorta di enorme aquilone che rimaneva attaccato all’estremità inferiore allo Shuttle e in cui il satellite vero e proprio era una sfera di 1.6 metri di diametro e 500 kg di peso.

Un concetto particolare, quello del satellite a filo, tanto che inizialmente incontrò diverse resistenze nella sua realizzazione. Sentiamo il racconto di Franco Malerba, l’astronauta impiegato nella prima missione del 1992. Mi scuso per la qualità dell’audio della telefonata, ma purtroppo non è stato possibile registrarla in condizioni migliori di questa.

Franco Malerba
Il satellite a filo è una missione che ha avuto molta resistenza all’origine da parte della NASA e dai responsabili della sicurezza per almeno due ragioni. La prima, la più ovvia, è che un filo è un oggetto assai poco manovrabile. Con un filo si può solo tirare, non si può né spingere né piegare. Insomma, quindi è un oggetto abbastanza poco cooperativo. Inoltre, se per ipotesi perfida il filo si fosse aggrovigliato da qualche parte, non solo si sarebbe compromessa la missione scientifica – cosa che potrebbe essere considerata secondaria dal punto di vista della sicurezza – ma si sarebbe potuta pregiudicare la possibilità di chiudere le porte dello Shuttle; e lo Shuttle, se non si chiudono perfettamente le porte della stiva, non può rientrare in modo sicuro. Quindi si tratta di un’avaria colossale il fatto di non poter chiudere le porte. Se questo filo, per qualche legge di Murphy sventurata, si fosse in qualche modo aggrovigliato attorno a qualche meccanismo tale da impedire la chiusura delle porte, sarebbe stata una catastrofe.

Valentina Guglielmo
Il padre della tecnologia del satellite a filo, dicevamo, era uno scienziato italiano, Giuseppe Bepi Colombo, al quale è anche intitolata l’omonima missione dell’Esa verso Mercurio, e che negli anni ’70 godeva di ottima reputazione anche negli Stati Uniti, tanto da convincere la Nasa a effettuare i primi studi di fattibilità già nel 1976, 16 anni prima del lancio. Il satellite a filo era una missione molto ambiziosa che all’epoca era stata paragonata come complessità alle missioni Apollo, e Colombo era stato tra i primi a immaginare l’uso di cavi lunghi e conduttivi nello spazio, spinto soprattutto dalla curiosità scientifica di studiare la fisica dei plasmi nello spazio e dall’ipotesi di generare energia elettrica senza l’uso di carburante.

Ma, considerando le complessità tecniche e i rischi di srotolare un cavo in ambiente spaziale, per far approvare la missione occorreva pensare ad alcune misure di sicurezza. Innanzitutto, il satellite non veniva rilasciato direttamente dalla stiva dello Shuttle, ma veniva prima portato a una quota di sicurezza di circa 12 metri attraverso una sorta di traliccio estendibile. Questa impalcatura telescopica si alzava dalla stiva dello Shuttle portando con sé il satellite a filo ben lontano dalla zona di chiusura delle porte dello Shuttle. E in caso di avaria grave, era possibile gettare via non solo il satellite ma anche il traliccio in modo da essere sicuri di richiudere le porte.

Il satellite Tethered era stato costruito a Torino in quella che poi sarebbe diventata la Thales Alenia Space. Una palla sferica del diametro di circa un metro e mezzo che conteneva al suo interno vari strumenti scientifici e due bracci robotici che potevano essere allungati. Come funzionava l’esperimento, quindi?

[Inizio musica]

L’idea di base era collegare un piccolo satellite allo Shuttle tramite un lungo cavo conduttore (detto “tether”, in inglese) lungo circa 20 chilometri.

Il principio di funzionamento si basa sull’interazione tra il cavo conduttore e il campo magnetico terrestre. Cavo teso, satellite e Shuttle chiaramente si muovono alla stessa velocità rimanendo in posizione radiale rispetto alla Terra. La terra rimane sotto la pancia dello Shuttle, mentre il satellite a filo viene rilasciato verso l’esterno, verso lo spazio diciamo, e quindi più lontano dalla superficie terrestre. Questi oggetti si muovono rimanendo in posizione radiale rispetto alla terra. Il fenomeno fisico che entra in gioco quando il cavo conduttore si muove nel campo magnetico terrestre si chiama induzione elettromagnetica e genera una differenza di potenziale elettrico di circa 5 kilovolt fra le due estremità del cavo, quindi fra satellite e Shuttle, e consente quindi di generare un vero e proprio circuito elettrico nello spazio. In parole semplici, il cavo si comporta come un generatore elettrico, e la corrente può essere raccolta per produrre energia a bordo, o misurata per studiare fenomeni elettromagnetici e plasmi nell’ambiente spaziale. È una sorta di dinamo spaziale. La missione scientifica era composta di 12 esperimenti, di cui 6 sul satellite e 6 sullo Shuttle, che volevano studiare l’interazione tra il cavo e l’ambiente spaziale, verificare la generazione di corrente elettrica e valutare quindi la possibilità di generare o dissipare energia nello spazio usando cavi conduttori.

[Fine musica]

Franco Malerba
Un intoppo lo avemmo già all’inizio perché c’erano i cosiddetti cavi ombelicali, dei connettori che alimentavano il satellite finché era nella stiva e che dovevano poi essere rilasciati, staccati automaticamente, nel momento in cui il satellite doveva essere libero di allontanarsi dello shuttle. Ma questi stentavano a staccarsi. Per cui si cominciò ad avere dei ritardi, si fecero delle manovre cosiddette “girarrosto”, per esporre questi connettori ai raggi del Sole e ipotizzando che scaldandoli si sarebbero staccati, cosa che in effetti è avvenuta. Per cui siamo riusciti anche a fare delle magnifiche foto con il satellite orientato verso la Terra, cosa che non è mai più stata. E quindi con lo sfondo bellissimo del pianeta Terra dietro il satellite, perché in quella fase dovevamo cercare di staccare questo ombelicale che non si staccava. Poi finalmente ci siamo rimessi in condizione di poter rilasciare il satellite, alzato il traliccio, e via che si va. Dicevo la prima fase è abbastanza tranquilla, non c’era alcuna oscillazione, il comandante al pilotaggio dello Shuttle riusciva a compensare dalla cabina, guardando il satellite attraverso le finestre che ci sono sul tetto della cabina. Tutti gli altri astronauti erano al loro posto di manovra. C’è Claude Nicollier che controlla le telecamere che sorvegliano tutte le attività relative al satellite. C’è Franklin Chang-Diaz che sorveglia tutta la macchina dello shuttle. Io con il mio PC sorveglio gli esperimenti a bordo del satellite e nella stiva, e anche le velocità e tensioni sul cavo che si va srotolando. Marsha Ivins ha il compito di fotografare la situazione all’interno e anche fuori. Jeff Hoffman, che è anche il comandante della missione scientifica, ci dà i tempi perché tutto deve essere un po’ sincronizzato, più o meno come se fosse un orchestra con strumenti diversi che devono suonare tutti a tempo.

Valentina Guglielmo
Le prime operazioni e i primi intoppi fecero accumulare un ritardo di alcune ore sulla tabella di marcia prevista. Tutte le fasi di srotolamento del filo sono spiegate in gran dettaglio nel libro di Franco Malerba “la vetta”. Comunque, dopo aver estratto il traliccio e liberato il satellite dai connettori cominciarono le operazioni di involo del satellite, il fly-away. Vennero attivati i razzetti di azoto del satellite per allontanarlo dal canestro del traliccio in cui era alloggiato e aiutare l’estrazione iniziale del filo. Il filo inizia a srotolarsi piano piano, di circa 10 centimetri al secondo, ma le battute d’arresto sono diverse e il ritardo accumulato ormai ammonta a circa 5 ore. Arrivati a 179 il verricello si blocca in modo brusco, strattonando il satellite che rimbalza all’indietro. Una cosa pericolosissima. Il filo ondeggia ma gli astronauti riescono a tornare in sicurezza azionando via via alcuni razzetti del satellite. Si ipotizza un problema nella scatola che contiene il filo e il sistema di dispiegamento, ma è impossibile verificarlo e gli astronauti a bordo sono in attesa di ricevere istruzioni dal mission control a terra. Si decide allora di provare una “partenza lanciata”, che significa riavvolgere il filo per 10 metri e poi svolgerlo a una velocità molto maggiore, di circa 60 cm/s, per provare a superare il punto in cui si era inceppato. Il rischio è alto. 179, 180, 181…è passato. Per i successivi 7 minuti il filo si svolge normalmente. Arrivati a 256 metri si blocca di nuovo, ma questa volta in modo progressivo. Come se non bastasse, assieme al filo scatta un altro allarme di avaria all’interno dello Shuttle: un guasto al gabinetto, che risulta inutilizzabile. Dopo aver fatto cessare l’allarme – ma senza risolvere il problema al wc – si decide di aspettare. La squadra rossa sta lavorando ininterrottamente da 23 ore, la blu da 12. I rossi vanno a riposare e i blu rimangono a sorvegliare il satellite. Sono tutti e tre matricole dello spazio. Quando si risveglia la squadra rossa si decide di provare una nuova partenza lanciata, ma questa volta il filo non si muove di un millimetro.

Franco Malerba
A un certo punto però si è maturata la decisione, più a terra che a bordo, che continuando a fare degli esperimenti per cercare di estrarre questo cavo bloccato, avremmo un corso rischio di spezzarlo, il cavo, e quindi di perdere il satellite, di perdere la missione. Un danno anche peggiore. E quindi ci fu una decisione tutto sommato saggia al Mission Control di arrestare il processo di srotolamento, accontentarsi di un cavo relativamente corto rispetto alla lunghezza monstre che avevamo in mente di 20 chilometri, e comunque condurre gli esperimenti, tutti quelli che si poteva, con una distanza più corta, ravvicinata. Ovviamente invece di dieci punti ne avremmo raccolti soltanto due o tre, ma era meglio raccogliere poco che non raccogliere nulla.

Valentina Guglielmo
Insomma, dopo quattro giorni 23 ore e 51 minuti, quando fu chiaro che ci si doveva accontentare di 256 metri di filo, cominciò la cosiddetta “missione scientifica ridotta”. Chiaramente, la differenza di potenziale generata dalla configurazione Shuttle-satellite-cavo era molto inferiore rispetto a quella attesa a 20km, ma si riuscì comunque a vedere una differenza di potenziale di circa 60 volt e una corrente di 2 milliampere che iniziava a fluire nel cavo. Il volo dello Shuttle sarebbe durato in tutto circa 8 giorni, dal 31 luglio all’8 agosto. Prima di rientrare bisognava tentare di recuperare il satellite riavvolgendo il filo. L’idea, infatti, era già quella di provarci di nuovo, durante un altro volo.

Franco Malerba
Bisogna anche dire che siamo riusciti a recuperare il satellite a fine di questa missione scientifica abbreviata. Non è stato facile perché avevamo consumato quasi tutto il combustibile, cioè il gas che c’era a bordo del satellite, per le manovre di stabilizzazione che si erano rese necessarie in occasione di quello stop imprevisto, ma ciò nonostante con la perizia del comandante si è riusciti a riportare il satellite nella stiva e una volta fissato il satellite nel suo supporto, quindi sicuri che saremmo riusciti a riportarlo a terra, la nostra Marsha ha messo sul sistema audio del satellite dello shuttle l’alleluia di Handel, a sottolineare un risultato certamente molto faticoso, ma anche molto riuscito, dopo tutto. Questa fu la nostra avventura nello spazio.

Valentina Guglielmo
Non si conoscevano le ragioni per cui il cavo era rimasto bloccato e non si sarebbero sapute fino al rientro. Durante la missione due degli astronauti si erano anche preparati per un’uscita extraveicolare per provare a risolvere manualmente il problema, e all’interno dello Shuttle erano state avviate tutte le procedure per farlo. Poi, da Houston, decisero che non era il caso, anche perché si era capito che il guasto era interno alla scatola che conteneva il cavo, che per gli astronauti era comunque inaccessibile.

Una volta rientrati a terra si istituì la commissione d’inchiesta che, a detta di Malerba, ebbe vita facile. Non appena aprirono la scatola che conteneva il rocchetto con il cavo e il sistema di srotolamento, infatti, l’intoppo balzò agli occhi. Si trattava banalmente di un bullone di sei millimetri di diametro che sporgeva nella scatola del verricello e bloccava il meccanismo. Che ci faceva lì?

Nella fase di assemblaggio e di installazione del sistema del filo nella stiva dello Shuttle, l’azienda responsabile dell’integrazione al Kennedy space center della Nasa aveva decretato che non era soddisfatta degli ancoraggi del cavo e che occorreva aggiungere dei rinforzi per essere sicuri che il sistema non si rovinasse con le vibrazioni del lancio. L’azienda costruttrice Martin Marietta, non essendo presente in loco per farlo si appoggiò a un’altra società. Queste modifiche furono eseguite all’ultimo, dall’esterno della scatola e sulla base dei disegni e dei progetti a disposizione, che forse non erano abbastanza dettagliati. E naturalmente senza poter testare nuovamente il meccanismo prima del lancio.

Franco Malerba
Il risultato finale è che questo bullone interferiva con il meccanismo a di srotolamento del cavo e ci ha impedito di realizzare i 20 chilometri di deployment, che io penso saremmo riusciti a fare perché tutto il resto funzionava meravigliosamente. Alla fine, si potrebbe ancora domandarsi di chi era la colpa. A quanto pare Martin Marietta si è presa la colpa perché è quella che ha pagato il filo e ha dovuto riprogettare, rimettere le cose a posto per la missione successiva.

[stacco musicale]

Valentina Guglielmo
A terra, al centro di controllo della missione scientifica del satellite a filo c’era anche l’astronauta Umberto Guidoni, che aveva seguito tutta la vicenda seduto alla scrivania, ignaro che quattro anni dopo sarebbe toccato a lui il secondo tentativo.

Dopo i problemi della missione del 1992, infatti, Nasa e Asi decisero di riprovare. Lo stesso satellite a filo fu lanciato di nuovo quattro anni dopo, nel febbraio 1996 con lo Space Shuttle Columbia durante la missione Sts-75.

Umberto Guidoni
Intanto cominciamo col dire che la maglietta che indosso era quella che avevo a bordo dello Space Shuttle Columbia durante la missione. Infatti questo è il logo della missione, non so se si vede. Questa missione era la seconda, dopo il fallimento del primo tentativo, e si chiamava, non a caso, Reflight, quindi rivolo del satellite. La missione riutilizzava il satellite della prima missione e anche il filo era lo stesso, quindi utilizzavamo una struttura che aveva già volato. L’idea era quella di ripetere la stessa missione stavolta, dopo aver risolto il problema meccanico che aveva causato il blocco della prima missione.

Valentina Guglielmo
Era previsto che si facessero rivolare o è stato deciso proprio perché la prima volta è andata male?

Umberto Guidoni
Non era previsto originalmente, si parlava di una missione, però l’idea c’era già nel momento in cui il satellite fu recuperato. Infatti, ricordo bene quando ero al centro di controllo durante la prima missione, lo sforzo che fu fatto per cercare di recuperarlo, perché a un certo punto era rimasto bloccato sia ad uscire che ad entrare; quindi, l’estrema ratio era quella di tagliare il cavo e buttare via il satellite. Però fu fatto un tentativo ulteriore per cercare di recuperarlo, proprio pensando che tutto quanto era riutilizzabile per una missione successiva. E questa fu anche la mia fortuna, perché se il satellite fosse andato perso probabilmente non ci sarebbe stata una seconda missione. Comunque, noi siamo partiti fiduciosi, e l’allora amministratore della NASA, Goldwin, ci fece un briefing dicendo “mi raccomando stavolta non deve non devono esserci problemi, deve andare tutto bene”.

Valentina Guglielmo
Come Malerba durante la prima missione, anche Guidoni era a bordo come responsabile dell’esperimento scientifico del satellite a filo. E anche lui era matricola nello spazio.

Il meccanismo di svolgimento del filo funzionava esattamente come la prima volta, non era cambiato nulla: prima si apriva il traliccio di 12 metri e poi si cominciava a svolgere il cavo, all’inizio molto lentamente e poi a velocità crescente.

Umberto Guidoni
Ricordo che era il momento in cui c’era il cambio di equipaggi, quindi io avevo terminato la mia parte e sono andato a dormire. Il satellite era già ad almeno un chilometro dalla navetta, quindi si vedeva solo il filo e il satellite era solo un puntino lontano e tutto procedeva bene. Molto spettacolare era questa immagine perché non c’è vento, però il filo era comunque gonfio, non era assolutamente dritto, c’era un effetto evidentemente dovuto probabilmente proprio alla corrente che circolava. Quando mi sono svegliato, otto ore dopo, doveva essere in cima ai famosi 20 chilometri. Qui devo spiegare che lo shuttle è fatto su due piani, ha la cabina di pilotaggio che sta sopra e sotto c’è la parte dei servizi e dove c’è la cucina. Non che abbiamo dei vani separati, c’era anche la zona dove si dormiva, una serie di bunker uno sopra l’altro, letti a castello su quattro piani e io ero proprio in cima alla fila. Quindi mi svegliavo, planavo dall’ultimo posto e poi risalivo su appunto per andare alla cabina di pilotaggio, da dove si controllano tutte le operazioni, attraverso le due finestre che ci sono sulla parte superiore dello Shuttle. Quando sono arrivato ho visto una faccia diciamo abbastanza cupa degli astronauti che mi hanno guardato dicendo “abbiamo perso il satellite”. Allora io ho pensato, siccome quello era il mio primo volo, che mi stessero facendo uno scherzo, e quindi lì per lì ho detto “va bene, fammi vedere”. Quando ho guardato fuori nella stiva effettivamente non c’era il cavo, quel bel cavo che avevo lasciato, che si vedeva argentato che andava verso l’alto, non c’era più.

Valentina Guglielmo
Nelle otto ore di riposo della squadra di Umberto Guidoni, era successo l’incidente. Un problema improvviso e definitivo. Il satellite a filo si trovava a circa 19,7 km di distanza e mancavano quindi pochi centimetri al rilascio completo del cavo. Come previsto lungo il cavo aveva iniziato a scorrere corrente elettrica, che diventava tanto maggiore quanto più il satellite era lontano dallo Shuttle, e quindi quanto più il cavo era lungo. Improvvisamente però, mentre tutto sembrava procedere bene, il cavo si spezzò e il satellite si allontanò in orbita, come un aquilone che scivola via dalla mano di un bambino e prende il vento.

Cos’era successo?

Il cavo attraverso cui scorreva la corrente era un classico cavo di rame ricoperto di isolante. Per capire a fondo cos’era successo, naturalmente bisognava fare indagini specifiche, ma quello che già da subito si poteva vedere era che l’estremità in cui si era spezzato il cavo era bruciacchiato. L’ipotesi più probabile era che ci fosse stato un corto circuito e che la scarica generata avesse tagliato di netto il cavo, che aveva un diametro di appena 2.5 mm.

Ora, la diretta conseguenza di questa rottura è che il satellite, e tutto il filo, sono schizzati via circa 70km più su rispetto allo Shuttle. Si poteva ancora vedere attraverso il piccolo telescopio di cui era dotato lo Shuttle, e anche da terra attraverso il sistema di radar che seguiva la missione.

Nelle teste degli astronauti a bordo, e nelle teste di tutti gli ingegneri e i controllori di volo di Houston, la domanda era una e una sola: andiamo a prenderlo o lo lasciamo lì? Per decidere, bisognava fare i conti con il carburante rimasto perché in nessun modo si poteva mettere a rischio l’incolumità dell’equipaggio. La manovra era infatti piuttosto costosa in termini di carburante, e se per arrivare lì ce n’era a sufficienza, se durante la manovra di recupero ci fosse stato qualche ritardo o qualche intoppo avesse richiesto di restare in orbita più a lungo, non ci sarebbe stato alcun margine. Anche perché il satellite non prevedeva alcun sistema di aggancio, visto che era stato sempre pensato attaccato al cavo. E quindi non era chiaro come avrebbero dovuto approcciarlo e portarlo fisicamente nella stiva. Avrebbero dovuto prenderlo con le mani facendo un’attività extraveicolare. Insomma, alla fine si decise di rinunciare. C’era qualcuno, però, che premeva perché si provasse a recuperare il satellite.

Umberto Guidoni
Gli italiani, (ride), visto che il satellite era italiano

Valentina Guglielmo
Il cavo si era spezzato a meno di 1km dall’obbiettivo, e a bordo la delusione era palpabile, e l’umore comprensibilmente basso.

Umberto Guidoni
Allora, diciamo, l’equipaggio era abbastanza, come posso dire, intontito da questa cosa. La delusione era forte anche perché eravamo veramente a un chilometro dal punto più importante. Questo non vuol dire che tutto il resto non fosse utile. Anzi, diciamo, le ore passate, credo 12 ore complessivamente, in fase di svolgimento, erano comunque dati preziosi dal punto di vista scientifico. Però, diciamo, come posso dire, il clou della missione era on station, quando il satellite si sarebbe fermato a quella distanza perché poi il satellite aveva due bracci che sarebbero usciti fuori con degli esperimenti. Quindi era un esperimento di fisica del plasma, sostanzialmente, perché intorno a questo satellite si creavano delle situazioni di ionizzazione del plasma. Quindi c’erano sensori magnetici. Era un’analisi molto interessante che purtroppo non è avvenuta. Dal punto di vista della produzione di energia elettrica, il modello con cui venivano calcolati questi valori si è dimostrato più o meno corretto. Anzi, in realtà noi abbiamo raccolto un po’ più di corrente di quanto i modelli prevedessero. Però non era questa la ragione per cui si era bruciato il cavo. Insomma, il cavo era fatto per sopportare quel tipo di corrente. Quindi è rimasto il dubbio di quello che fosse successo. Poi è stato chiarito successivamente. Noi in quel momento eravamo abbastanza frastornati e dalla NASA ci arrivò il messaggio di fare una conferenza stampa per spiegare la situazione. Quindi in fretta e furia fu attrezzata una conferenza stampa, voglio dire che nello Shuttle lo spazio è piccolo e soprattutto devi mettere le luci. Non è uno sito televisivo.

Insomma, abbiamo fatto uno sforzo per sistemare tutto, però mentre andava avanti la conferenza stampa evidentemente le nostre facce mostravano, diciamo così, la delusione. Qui parliamo del 1996, quando ancora non c’era internet nello spazio e tutto quello che veniva trasmesso a bordo era attraverso una telescrivente, una specie di fax. Io ce l’avevo proprio dietro, e a un certo punto, comincio a sentire il ticchettio della telescrivente che trasmette delle cose. Allora mi giro, guardo, c’era un messaggio: “please smile”. Il centro di controllo che ci diceva di fare una faccia un pochino più allegra perché evidentemente traspariva la delusione..

Valentina Guglielmo
Dopo la conferenza stampa, a bordo dello Shuttle hanno cercato di sfruttare la connessione rimasta attiva con il satellite a filo per portare avanti almeno alcuni degli esperimenti scientifici, anche se ovviamente con il cavo tranciato l’obiettivo primario della missione era compromesso. La delusione era particolarmente grande per Umberto Guidoni, dato che era stato incluso nell’equipaggio proprio come responsabile scientifico, dato che proveniva da un laboratorio del CNR in Italia dove per anni avevano lavorato a questo tipo di missione.

Umberto Guidoni
È stata particolarmente una delusione. Mi sono sentito un po’ come un bambino che gli scappa di mano un palloncino, insomma.

Valentina Guglielmo
Nel vero senso della parola.

Umberto Guidoni
Nel vero senso della parola, esattamente.

Valentina Guglielmo
Improvviso e definitivo il guasto che ha tranciato il cavo. Ma possiamo definirlo anche imprevedibile? Guidoni.

Umberto Guidoni
Allora, diciamo, alla luce delle analisi fatte successivamente abbiamo scoperto alcuni dettagli. La prima missione era fallita perché avevano fatto un cambiamento all’ultimo momento nel sistema di assemblaggio del deployer aggiungendo delle viti per renderlo più solido, perché non aveva passato il test di vibrazione. Quindi, per renderlo più solido hanno messo delle placche di metallo con delle viti e una di queste viti era finita proprio sul punto dove c’era una barretta che distribuiva il filo sulla bobina, come nelle canne da pesca, più o meno. E quella vite aveva bloccato. Quindi c’era stato un errore perché era stato fatto un lavoro all’ultimo momento. Questa volta il problema era che il filo era lo stesso. Ora, è vero che i 200 metri che erano usciti e che erano stati esposti al vuoto dello spazio erano stati tagliati. Però tutto il resto era quello ed era rimasto lì per anni avvolto dentro quella bobina.

Valentina Guglielmo
E come mai è stato deciso di tenere lo stesso filo?

Umberto Guidoni
Per questione di budget.

Valentina Guglielmo
Costava così tanto un filo?

Umberto Guidoni
Non è tanto il filo, è tutto il lavoro di tirarlo fuori, di metterlo dentro, di fare tutti i test, perché nel momento in cui tu togli un pezzo lo devi poi riqualificare per il volo. Però io penso che la cosa ancora peggiore sia stata quella di non averlo più provato. Quello si poteva fare. Sarebbe costato probabilmente qualche decina di migliaia di dollari, non lo so. Però insomma, senza doverlo smontare, almeno quello che fanno gli elettricisti, provare la resistenza ohmica e che non ci fossero perdite, forse quello si poteva fare. Non so se avrebbe permesso di capire che c’era un punto dove l’isolante era stato danneggiato, però forse sì, forse ce l’avrebbe detto.

Valentina Guglielmo
Ecco svelata la ragione del corto circuito: l’isolante del cavo, in un punto abbastanza vicino alla base e quindi verso la fine della lunghezza, era danneggiato. E quando quel pezzo di filo è uscito dalla scatola ed è venuto a contatto con il potenziale dello Shuttle ha innescato il corto circuito. All’interno dello Shuttle tutto questo era passato inosservato e gli astronauti si sono accorti di aver perso il satellite semplicemente perché il valore di tensione “meccanica” del cavo era improvvisamente andato a zero sugli schermi di comando. A quel punto, guardando dall’oblò, hanno visto il cavo che si allontanava verso l’alto. Nella sfortuna, comunque, c’è da dire che gli astronauti erano stati fortunati che il cavo si fosse spezzato proprio vicino allo Shuttle. Se il cavo si fosse spezzato, ad esempio, a metà, la metà rimasta attaccata allo Shuttle sarebbe potuta ricadere addosso allo stesso mettendo in serio pericolo il veicolo e la vita degli astronauti, oppure avrebbe potuto incastrarsi e aggrovigliarsi vicino alle porte della stiva impedendone la chiusura.

Si trattava di uno scenario d’emergenza previsto, nel caso in cui ad esempio il filo fosse colpito da un micrometeorite. Poteva succedere in qualunque momento, e per questo alla base del meccanismo di svolgimento c’era una tagliola che gli astronauti potevano azionare per tranciare il cavo alla base.

Una cosa che mi ha sorpreso parlando sia con Malerba, sia con Guidoni, è che nonostante lo svolgimento del cavo non sia andato bene né la prima né la seconda volta, di fatto compromettendo la missione scientifica di cui erano responsabili, dai loro racconti non è chiaro se questo sia stato vissuto come un fallimento o meno. Guidoni mi ha parlato della delusione iniziale, ma poi ha detto anche che sono stati raccolti molti dati e lo stesso aveva detto Malerba. Ma questa sensazione di successo o fallimento a metà non mi convince molto, e così l’ho chiesto a Guidoni.

Umberto Guidoni
Allora, sulle prime devo dire onestamente che abbiamo vissuto un fallimento, perché eravamo tanto vicini, a un chilometro di distanza, dal momento in cui avremmo dato vita a tutti gli esperimenti, a tutte le procedure che erano previste. Quindi c’era sicuramente delusione. Tornando a casa, quando poi siamo tornati a terra, i dati erano interessanti comunque, quindi comunque c’è stata un’importante raccolta di informazioni su quello che succede appunto quando crei questa nuvola di elettroni intorno al satellite, la ionizzazione che avviene, la capacità di catturare questi elettroni. Tutto questo è stato abbastanza chiaro, però chiaramente manca tutta una serie di informazioni che avremmo dovuto ottenere durante le dodici ore previste on station.

Valentina Guglielmo
Insomma, come sopra. E forse che sia così è una bella lezione: cercare di prendere il buono dalle situazioni anche quando tutto sembra storto. Decidete voi allora come l’avreste vissuta, a me rimane un po’ la curiosità di sapere come funzionava questa dinamo spaziale una volta completato lo svolgimento. E forse me ne sarei tornata a casa con un po’ di amaro in bocca.

Per Guidoni come per Malerba, comunque, l’esperienza del satellite Tethered è stata speciale anche perché era la prima volta nello spazio, e ha scolpito ricordi indelebili che non riguardano solo la missione scientifica in sé.

Umberto Guidoni
Al di là dell’aspetto scientifico, il fatto che tu possa generare corrente attraverso un cavo a spese del movimento, non è che stiamo creando energia dal nulla, lo shuttle viaggia 28.000 chilometri, gira intorno alla Terra in 90 minuti, è rallentato pochissimo dal fatto che sta producendo corrente, però un po’ è rallentato. E comunque questa corrente è gratis. Sullo shuttle non era un problema perché lo shuttle ha i suoi generatori di corrente, si chiamano cella a combustibile e utilizzano idrogeno e ossigeno per produrre energia elettrica. Tra l’altro il prodotto di scarto di questa reazione è acqua, e l’acqua è quella che noi utilizziamo a bordo, anche quella che beviamo, viene da quella reazione. Quando parte lo Shuttle non porta acqua, viaggia con i serbatoi vuoti e li riempie man mano che va avanti nella missione. Anzi a un certo punto riempie talmente tanto che dobbiamo farla uscire l’acqua. E questa è una delle cose più spettacolari, non ha niente a che vedere con il Tethered, però è una delle cose più spettacolari. Si chiama water dump e a un certo punto apri praticamente la valvola e fai uscire l’acqua, che appena esce diventa ghiaccio e se lo fai di notte con la luce della Luna è come se creassi un cielo stellato improvvisamente, perché tu non riesci a distinguere se è un ghiacciolo vicino o se è una stella lontana. Vedi un puntino luminoso e quindi ti cambia completamente le costellazioni, vedi tutte le luci. Poi dopo piano piano ovviamente si dirada, però nei primissimi momenti di questo svuotamento vedi tante stelle, è una cosa spettacolare.

[inizio musica]

Valentina Guglielmo
Nonostante il fallimento tecnico, dunque, la missione Tethered fu una dimostrazione di fattibilità importante, anche se la comunità scientifica e spaziale non hanno ancora deciso che farsene. Mostrò che è possibile generare energia nello spazio con un sistema passivo (senza carburante), solo sfruttando il movimento in un campo magnetico. Potrà veramente servire a costruire ascensori spaziali, o potrà diventare un nuovo modo per generare corrente elettrica a bordo di satelliti e navicelle spaziali? Nella stazione spaziale internazionale, ad esempio, al posto dei pannelli solari avere un tethered avrebbe garantito generazione di corrente continua e costante anziché dover ricorrere alle batterie nei periodi di ombra dal Sole. Quanto alla fine del satellite Tethered, dopo essersi sganciato orbitava attorno alla terra, con il suo filo penzoloni, a poco meno di 400km di altezza; per attrito però la sua orbita ha continuato ad abbassarsi e in poco meno di un mese è rientrato, bruciando nell’atmosfera terrestre.

E ora un saluto un po’ diverso dal solito. Si chiudono dopo 19 puntate i racconti di Houston. Non è una decisione facile, perché queste storie hanno riempito molte delle mie giornate nell’ultimo anno e mezzo, ma per ora ho deciso di fare una pausa. Non escludo di fare una seconda stagione di racconti, o anche solo qualche puntata extra, se ci fossero altri episodi che valgono la pena di essere raccontati in questo modo. Perciò invito anche voi, soprattutto chi di voi lavora in agenzie spaziali, aziende o enti che studiano lo spazio, a mandarmi delle proposte. Ringrazio tutti miei ospiti, e ringrazio soprattutto Paolo Ferri, che mi ha accompagnato nel mondo delle missioni spaziali con tanti racconti, e mi ha fatto anche un po’ da guida. Ringrazio i miei colleghi di Media Inaf per le voci che mi hanno prestato e per i preziosi consigli. E infine ringrazio voi, che mi avete seguita puntata dopo puntata, e che siete giunti fin qui. Spero di avervi appassionato, coinvolto e soprattutto tenuto un po’ di compagnia.

[fine musica]


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