Si chiamano esplosioni da contatto in atmosfera. O, più in breve, eventi da contatto – deflagrazioni originate dall’impatto di corpi celesti, asteroidi o comete, che non toccano la superficie del nostra pianeta scavando crateri, cicatrici del tremendo schianto che fu, ma detonano al di sopra del suolo, sprigionando energia e innescando onde d’urto. Secondo una serie di studi usciti nella prima metà del 2025 – di cui l’ultimo pubblicato questo mese sulla rivista Plos One – potrebbero essere più comuni di quel che si pensava. Ne parla James Kennett dell’Università della California, sede di Santa Barbara, tra i coautori degli studi.
«Gli eventi da contatto possono causare danni estremi a causa di temperature e pressioni elevatissime», afferma Kennett. «Eppure non formano necessariamente un cratere, o provocano effimere perturbazioni superficiali, ma non sono i classici crateri di grandi dimensioni che derivano da impatti diretti».
Non producendo crateri a seguito della detonazione, verificare quanti eventi di questo tipo siano accaduti non è semplice. Ma qualche traccia la lasciano anche loro. In una serie di articoli recentemente pubblicati, Kennett e collaboratori hanno infatti raccolto le evidenze per numerosi eventi da contatto provocati da comete e accaduti in epoche diverse, in siti che vanno dal nord dell’Atlantico a zone desertiche anticamente civilizzate. Le tracce comprendono elementi chimici rari e minerali derivanti dalle comete stesse, così come vetro fuso e sferule che si sono formate in materiali terrestri portati ad alta temperatura, o addirittura crepe in minerali duri come il quarzo, probabilmente prodotte dall’onda d’urto. Tutti segni che sarebbero, secondo i ricercatori, imputabili alle alte temperature e pressioni innescate dalle esplosioni in atmosfera.
Nello studio uscito questo mese, i ricercatori riportano per la prima volta la scoperta di queste tracce in alcuni sedimenti oceanici, rinvenuti grazie a carotaggi del fondale della baia di Baffin, situata al di sotto della costa ovest della Groenlandia. Secondo gli scienziati, i sedimenti avvalorerebbero l’ipotesi dell’impatto cosmico del Dryas recente.
«La baia di Baffin è molto significativa perché è la prima volta che troviamo prove dell’impatto cosmico del Dryas recente nei registri marini», commenta Kennett. Secondo questa ipotesi, l’esplosione in atmosfera dei frammenti di una cometa avrebbe provocato circa 12800 anni fa un raffreddamento anomalo dell’emisfero nord, con conseguente estinzione di diverse specie animali e l’innesco di una serie di cambiamenti nelle popolazioni umane esistenti all’epoca. L’impatto coi frammenti della cometa spiegherebbe le aree di combustione diffusa, evidenziate da uno strato di sedimenti ricco di carbonio, denominato “tappeto nero”. Questo strato è stato rinvenuto in diversi siti dell’emisfero boreale, in Europa e nel continente americano, e riporta altresì prominenti abbondanze di iridio e di platino, così come quarzi crepati, sferule metalliche e vetro costituito dalla fusione di minerali diversi.
Secondo Kennett e collaboratori, il fatto che questi segni siano stati rinvenuti nelle profondità oceaniche, a 2000 metri di profondità, ci dà delle indicazioni sull’intensità dell’evento. Che avrebbe scaraventato il materiale nell’atmosfera, prima di depositarsi sull’area vastissima in cui è stato rinvenuto.
Si tratta di tracce minime, se paragonate al cratere di Chicxulub nella penisola dello Yucatán, in Messico, cratere ricondotto all’impatto con l’asteroide che sterminò i dinosauri e oltre i tre quarti delle specie viventi 65 milioni di anni fa. A causa dell’assenza di deformazioni terrestri significative è molto più complicato provare gli eventi da contatto in atmosfera.
«In precedenza, non c’erano prove dell’evento da impatto del Dryas recente di alcun cratere o alcun possibile cratere», ha detto Kennett. «Quindi questi eventi sono più difficili da rilevare, soprattutto quando sono più vecchi di qualche migliaio d’anni e, dopo essere stati sepolti, lasciano poche o nessuna prova superficiale».

Nella mappa viene indicata la posizione del lago a est di Perkins, in Lousiana, che potrebbe costituire il cratere da impatto di un frammento di cometa. Crediti: Usgs, Google Maps, 2024, Inegi, Fitzenreiter et al.
Eppure, un cratere originato nell’evento da un frammento della cometa potrebbe aver resistito sino ai nostri giorni. In un articolo uscito a giugno sulla rivista Airbursts and Cratering Impacts, un gruppo di studiosi guidati dal Comet Research Group di Prescott, in Arizona, afferma di averlo trovato in un lago stagionale della Louisiana, vicino la città di Perkins. Bisogna riavvolgere il nastro fino al 1938, quando il proprietario del terreno in cui si trova il lago congetturò che esso potesse essere un cratere da impatto con un asteroide, a causa della forma e di «un bordo simile a un cratere, sollevato di circa un metro rispetto al terreno circostante». Si dovette aspettare il 2006 perché il lago fosse sottoposto alle prime analisi. Fino allo scorso anno il team ha analizzato i sedimenti raccolti in questo e altri laghi. Scoprendo anche qui le sopracitate sferule metalliche, vetro fuso e quarzi crepati. La datazione al carbonio-14 degli stessi sarebbe riconducibile al Dryas recente. Avvalorando l’ipotesi di un impatto in quell’epoca. Ricerche più approfondite sono tuttavia necessarie per confermare i risultati ottenuti.
In un altro articolo, apparso sempre su Airbursts and Cratering Impacts, l’analisi stavolta si è concentrata sull’evento di Tunguska. «La cosa interessante di Tunguska è che è l’unico evento da contatto registrato storicamente», afferma Kennett. L’esplosione accadde nel 1908, venne segnalata da diversi testimoni oculari che riportarono di aver visto solcare il cielo da una palla di fuoco ed è documentata da fotografie ritraenti pletore di alberi stesi al suolo. Gli studiosi hanno rianalizzato anche i sedimenti provenienti dal sito archeologico di Tall el-Hammam, in Giordania, che potrebbe aver subito un evento simile, 3600 anni fa, e riportano i risultati ottenuti in un secondo lavoro. È un’ipotesi, questa sulla distruzione di Tall el-Hamman a seguito di un impatto simile a quello di Tunguska, avanzata in uno studio – firmato fra gli altri anche da molti autori dell’articolo uscito questo mese su Plos One – pubblicato nel 2021 su Scientific Reports del quale avevamo dato notizia anche su Media Inaf. Studio che però è stato successivamente ritrattato.

Una distesa di alberi abbattuti a Tunguska, in Siberia, fotografata 21 anni dopo un possibile evento da contatto. Crediti: Foto di L. Kulik, Wikimedia Commons
Tornando all’evento di Tunguska, l’analisi ha rivelato anche qui la presenza di quarzi con crepe riempite, in alcuni casi, da vetro fuso. Secondo lo studio, l’alta energia sprigionata nell’evento, potrebbe aver generato delle piccole depressioni nel suolo, che hanno resistito sotto forma di paludi o di piccoli laghi. Il gruppo sostiene di aver trovato spaccature nel quarzo anche a Tall el-Hammam, con una varietà di pattern quali crepe parallele, fratture a forma di ragnatele e fessure incurvate, che sarebbero indicative di una vasta gamma di alte pressioni e direzioni legate all’impatto.
Presi insieme, tutti questi lavori suggeriscono che gli impatti con corpi celesti, e in particolare quelli avvenuti in atmosfera, siano più frequenti di quel che si è sempre creduto.
«Sono molto più comuni, ma possiedono anche un potenziale distruttivo molto più elevato rispetto ai più localizzati, classici impatti asteroidali con formazione di crateri», conclude Kennett. «La distruzione causata dagli eventi da contatto può essere molto più estesa. Eppure non sono stati ancora studiati a fondo, quindi dovrebbero essere di interesse per l’umanità».
Per saperne di più:
- Leggi su Plos One l’articolo “A 12,800-year-old layer with cometary dust, microspherules, and platinum anomaly recorded in multiple cores from Baffin Bay” di Christopher R. Moore, Vladimir A. Tselmovich, Malcolm A. LeCompte, Allen West, Stephen J. Culver, David J. Mallinson, Mohammed Baalousha, James P. Kennett, William M. Napier, Michael Bizimis, Victor Adedeji, Seth R. Sutton, Gunther Kletetschka, Kurt A. Langworthy, Jesus P. Perez, Timothy Witwer, Marc D. Young, Mahbub Alam, Jordan Jeffreys, Richard C. Greenwood e James A. Malley







