Quella che segue è la trascrizione del terzo episodio di Houston, un podcast di Media Inaf che parla di spazio, atterraggi falliti, innovazioni disperate e soluzioni geniali. Ideato, realizzato e condotto da Valentina Guglielmo, quest’episodio – pubblicato per la prima volta il 31 maggio 2024 – è dedicato a tre tentativi della Nasa di arrivare su Marte nel 1999, Mars Climate Orbiter, Mars Polar Lander e i due piccoli penetratori Deep Space 2, e ha come ospite il fisico Paolo Ferri. Potete ascoltarlo su Apple Podcasts, su Spotify e su YouTube. Oppure direttamente da qui.
Paolo Ferri
“Questo è stato un errore madornale, una figuraccia epocale, e io non essendo dentro al progetto non riesco a credere che sia potuto succedere”
[inizio musica]
Valentina Guglielmo
Anche la Nasa si schianta su Marte. Tre volte nel 1999, con Mars Climate Orbiter, Mars Polar Lander e Deep Space 2. Nel caso di Mars Climate Orbiter, la prima delle tre, l’errore fu proprio quella figuraccia epocale che abbiamo appena sentito. Un errore di quelli che a scuola la maestra sottolineava con la penna rossa, almeno due volte.
Per quanto riguarda Polar Lander e Deep Space 2, invece, l’informazione su cosa sia successo a bordo è passata in secondo piano rispetto alla polemica pubblica che questi fallimenti hanno generato. Dopo tre insuccessi nel giro di poco tempo, infatti, quello che si metteva in discussione non erano le capacità di ingegneri e direttori di volo, quanto la politica spaziale adottata dalla Nasa già dai primi anni ‘90. Lo slogan era faster better cheaper: abbattere tempi e costi senza sacrificare le performance. O almeno quello era l’intento. Ma come vedremo, il risparmio e la fretta non sono una buona idea, quando si ha a che fare con lo spazio.
Ne parliamo con il nostro esperto di fiducia Paolo Ferri, di cui avete sentito un commento all’inizio e che in questo episodio racconta la sua versione di persona esterna ai fatti.
Io sono Valentina Guglielmo e questo è un podcast di Media Inaf che parla di spazio, atterraggi falliti, innovazioni disperate e soluzioni geniali. Si chiama Houston.
[fine musica]
[Daniel Goldin, amministratore della Nasaal tempo dei fatti, audio originale]
“After a hiatus of 20 years, America returns to Mars. And we return to Mars not just with one mission but this is the first of a series of 10 spacecraft going to Mars”
Valentina Guglielmo
Dopo una pausa di vent’anni, l’America ritorna su Marte. Dopo il successo delle missioni Viking negli anni ’70, l’America torna su Marte non con una missione, ma con una serie di dieci sonde. A parlare è Daniel Goldin, amministratore della Nasa dal 1992 al 2001, in una conferenza sul futuro dell’esplorazione marziana.
Siamo all’inizio degli anni ’90. Il budget che la Nasa aveva a disposizione sta diminuendo, e con esso anche il numero di nuove missioni e nuovi progetti approvati. Goldin arriva come amministratore con un background nello sviluppo di piccoli satelliti e, come primo provvedimento, decide di ridurre i tempi di realizzazione delle missioni da decenni ad anni. Comincia poi a perseguire l’idea di costruire veicoli spaziali più piccoli e più semplici, combinando tecnologie all’avanguardia, come strumenti in miniatura, con componenti economici e di largo consumo.
In altre parole, Goldin voleva tentarle tutte per mantenere un ritmo costante nell’esplorazione spaziale nonostante la diminuzione del budget. Il tempo delle missioni da miliardi di dollari – qual è il costo del telescopio spaziale Hubble, ad esempio – era finito, ma il nuovo amministratore voleva stiracchiare la coperta il più possibile.
Faster, better, cheaper. Questo lo slogan della sua politica spaziale. Letteralmente significa “più veloce, meglio, e meno costoso”. Come salvare capra e cavoli.
[Noel Hinners in una conferenza stampa alla Nasa]
“Time for a good dose of reality. The Mars Surveyor Programme and the faster, better, cheaper – let me call – syndrome of the 1990s…”
Valentina Guglielmo
A parlare in questo audio un po’ disturbato è Noel Hinners, geologo che ha lavorato prima alla Nasa, e poi alla Lokheed Martin, l’azienda a cui la Nasa commissionava la costruzione dei suoi veicoli spaziali in quel periodo. Senza mezzi termini, Hinners definisce questa politica spaziale una vera e propria sindrome.
Goldin, invece, all’epoca dichiarava “Questo è un nuovo modo di fare affari per la Nasa. Abbiamo detto all’industria cosa fare, non come farlo”.
Ridurre costi e tempi significava, infatti, affidare una sempre maggiore responsabilità ad aziende appaltatrici, diminuendo i requisiti e il controllo sul loro operato.
In pratica, la Nasa – o meglio il Jet Propulsion Laboratory, il JPL, il centro della Nasa che da sempre costruisce e fa volare missioni spaziali – dichiarava i propri requisiti e lasciava all’appaltatore carta bianca nel determinare i dettagli, il design del veicolo spaziale, la costruzione degli strumenti, e il razzo su cui lanciare il veicolo finito.
Paolo Ferri
Ma come, fanno fare le operazioni all’industria solo perché costa meno? Questa fu, se vogliamo, è quella che gli inglesi chiamano la root cause, cioè la causa principale di tutti questi problemi, perché avendo separato le responsabilità invece di averle tutte all’interno di un centro che da sempre lavora su quello, ha l’esperienza maggiore, ha le sue procedure, tutti si conoscono, i formulari sono i soliti, hanno creato un’interfaccia. Di là l’industria che aveva certe responsabilità e certe competenze, di qua il Jpl che ne aveva altre. Si è creata un’interfaccia e facendo questo –indipendentemente al fatto che l’industria costava meno o erano meno esperti, per carità già quello era un bel rischio da prendere però era parte della filosofia – ma avendo aggiunto un’interfaccia si è creata una zona di rischio in più, gratis, che non aveva nessun motivo di esserci, se non politico o finanziario. Questa zona di rischio è stata quella che ha ucciso.
Valentina Guglielmo
C’è da dire che il faster better cheaper portò anche alcuni grandi successi, e non solo fallimenti. Per questo, prima di scoprire cos’è successo in dettaglio alle tre missioni fallite del ’99, facciamo una breve panoramica di quegli anni.
La frase “Abbiamo detto all’industria cosa fare, non come farlo” Goldin l’ha detta in riferimento a due satelliti, Lewis e Clark, approvati nel 1994 e che dovevano fare un campionamento della superficie terrestre e per il monitoraggio dell’ambiente.
Goldin sfidò i suoi, e l’industria, chiedendo che fossero costruiti in meno di 24 mesi e con un costo inferiore a 60 milioni di dollari ciascuno. Il risultato? Un buco nell’acqua clamoroso, perché Clark non fu mai costruito, a causa di continui problemi con gli strumenti, ritardi nei test e, quindi, inevitabili aumenti nei costi. Mentre Lewis fu lanciato in orbita il 23 agosto 1997, e rientrò nell’atmosfera bruciando un mese dopo.
Quanto al programma marziano, invece, cominciò con due grandi successi con Mars Global Surveyor e Mars Pathfinder, lanciati rispettivamente nel novembre e dicembre 1996.
Nel 1998, poi, fu il turno di Mars Climate Orbiter. Assieme a Mars Polar Lander, di cui parleremo fra poco, faceva parte del programma Mars Surveyor per il monitoraggio della meteorologia e del clima marziano.
[musica]
Prima di passare oltre, facciamo un po’ di chiarezza sui nomi di queste due missioni. Mars Climate Orbiter si chiama così perché, appunto, era un orbiter – ovvero un satellite progettato per orbitare attorno al pianeta Marte osservandone il clima, la meteorologia e la quantità di acqua e anidride carbonica. Non solo, Mars Climate Orbiter era stato pensato anche per diventare il nuovo ponte radio della Nasa fra la Terra e la superficie marziana.
Mars Polar Lander, invece, come suggerisce il nome stesso, era una sonda progettata unicamente per atterrare sul Pianeta rosso, vicino al Polo Sud, come dice l’aggettivo Polar nel nome. Non solo, il lander aveva a bordo anche altre due piccole sonde, chiamate Deep Space 2, che dovevano essere rilasciate prima dell’atterraggio e penetrare nel sottosuolo marziano.
[fine musica]
Torniamo allora a Mars Climate Orbiter, la prima delle due missioni del programma Mars Surveyor. Fu lanciata l’11 dicembre 1998 da Cape Canaveral e cominciò il proprio inserimento in orbita marziana nove mesi dopo, il 23 settembre 1999.
Quadrata, pratica, leggera: Mars climate orbiter incarnava la politica spaziale del faster, better, cheaper. Pesava appena 640 kg carburante compreso. Una piuma, se pensate che il rover della Nasa Perseverance – che si trova ora a passeggiare su Marte – pesa più di una tonnellata. Era dotata di un motore principale, otto propulsori a idrazina, e ruote di reazione per le correzioni e le manovre orbitali.
[musica]
Le ruote di reazione fanno parte della dotazione di base di qualunque veicolo che debba navigare nello spazio. Sono delle semplici ruote che, variando la propria velocità di rotazione, inducono una rotazione opposta nel corpo della sonda, consentendo spostamenti e correzioni anche piccole. Le ruote di reazione, però, per continuare a funzionare ruotano sempre più velocemente fino a un limite detto “saturazione”, raggiunto il quale devono essere “scaricate”, o “desaturate”. Un’operazione già cruciale di per sé, ma ancora di più nel caso di Mars Climate Orbiter: a causa della sua configurazione asimmetrica, infatti, necessitava che questa manovra fosse effettuata molto più spesso rispetto ad altre sonde. Con una frequenza circa 10 volte maggiore.
[fine musica]
Per correggere la traiettoria usando le ruote di reazione, i membri del team di navigazione alla Nasa monitoravano costantemente il momento angolare della sonda e calcolavano le regolazioni da applicare. Questa comunicazione fra Mars Climate Orbiter e Terra avveniva in diverse fasi: innanzitutto, i dati del veicolo spaziale venivano trasferiti a terra tramite telemetria, venivano elaborati da un programma software e memorizzati in un file di desaturazione del momento angolare. Ogni volta che i propulsori venivano accesi per applicare la correzione, la variazione di velocità della sonda che ne derivava veniva misurata due volte, una dal programma software sulla navicella e l’altra dal programma a terra. Qualcosa però, nel caso di Mars Climate Orbiter, non funzionava alla perfezione. Come se le manovre richieste e quelle eseguite non combaciassero esattamente.
Paolo Ferri
Tra l’altro ci sono state avvisaglie precedenti. Ripeto, visto da me dal di fuori, non avendo visto i dettagli è una cosa incomprensibile che sia potuto comunque succedere. So che ci sono state avvisaglie, gente che insomma non si spiegava certi comportamenti. Però quando si naviga verso un pianeta è anche molto facile andare sulla strada sbagliata se non si ha un riscontro indipendente. E loro non ce l’avevano sto riscontro indipendente, quindi certe cose non tornavano bene ma si cercavano di spiegare in altre maniere e quando se ne sono accorti era troppo tardi.
Valentina Guglielmo
Durante i nove mesi di crociera verso Marte furono necessarie quattro manovre di correzione della traiettoria: la prima appena dieci giorni dopo il lancio e l’ultima una settimana prima dell’inserimento in orbita marziana. In verità ci sarebbe dovuta essere un’ultima correzione, la quinta, il giorno prima dell’arrivo sul Pianeta rosso, ma alla fine fu cancellata perché ritenuta non necessaria.
Mars Climate Orbiter, dicevamo, cominciava l’inserimento in orbita attorno a Marte il 23 settembre 1999. Durante questa manovra la sonda si sarebbe trovata dietro il pianeta rosso – dal punto di vista della Terra – durante quasi tutto il periodo. Avrebbe dunque acceso i propulsori per sedici minuti dalle 2.01 alle 2.17 del mattino in California, ma dalle 2.05 alle 2.27 avrebbe perso tutti i contatti radio con la Terra. Nessun problema – pensavano alla Nasa – la ritroveremo quando uscirà dall’ombra. Climate Orbiter però, nell’ombra di Marte ci entrò 49 secondi prima, e non si rimise mai più in contatto radio con la Terra.
[stacco musicale]
Ma torniamo un secondo a una settimana prima: dopo la quarta e ultima correzione orbitale, infatti, il team della Nasa che stava guidando Mars Climate orbiter al suo obiettivo si rese conto che, al momento dell’inserimento in orbita, la sonda si sarebbe posizionata a un’altezza di circa 150 km dalla superficie di Marte, e non 226 km come pianificato. Per poi scoprire, a incidente avvenuto, che Climate Orbiter si era invero posizionato a un’altezza di soli 57 km dal suolo – persino al di sotto del limite progettuale di 80 km –, entrando nell’atmosfera marziana a una velocità di 14400 chilometri all’ora e venendo vaporizzata dall’attrito con questa.
Il ricordo di Ferri.
Paolo Ferri
«Mars Climate orbiter doveva fare questa famosa manovra di inserimento in orbita arrivando a una distanza minima da Marte oltre i 100 km che è quella dove c’è l’atmosfera; invece credo che poi abbiano costruito un inserimento praticamente entro 50 km, a quel punto sei in piena atmosfera e la sonda si è disintegrata e probabilmente anche schiantata. Non lo so cosa sia successo, però certo non fa molto bene arrivare a 20.000 km all’ora nell’atmosfera marziana per quanto sia sottile».
Valentina Guglielmo
Ma insomma, che cosa era successo? Qual è stato questo errore madornale?
Per capirlo, come di consueto, si istituì una commissione di inchiesta. Il problema – come anticipava Ferri – fu proprio quell’interfaccia fra industria e JPL della Nasa. O meglio, nelle unità di misura con le quali calcolavano le correzioni di traiettoria.
Come dicevamo, quando la sonda accendeva i propulsori per correggere la propria traiettoria registrava e inviava a Terra i dati riguardanti la manovra. In particolare, calcolava l’impulso della manovra, cioè il prodotto fra la spinta applicata dai propulsori e la sua durata. A partire da questo, la Nasa ricalcolava la nuova posizione e la nuova traiettoria.
La costruzione della sonda e di molti strumenti per la navigazione – come il software di elaborazione della telemetria a terra – non era di competenza della Nasa, ma era affidata – per risparmiare – all’azienda Lockheed Martin.
Insomma, si scoprì che i due sistemi, il software di elaborazione sulla navicella spaziale e quello a terra, utilizzavano due unità di misura diverse. Il software sulla navicella spaziale misurava l’impulso in Newton al secondo – usava cioè il sistema metrico internazionale – mentre il software di elaborazione a terra utilizzava il sistema metrico imperiale – e misurava l’impulso in Pound per secondo. In pratica, il team di navigazione della Nasa, senza saperlo, riceveva i dati in un’unità di misura diversa da quella che usava per aggiornare la traiettoria della navicella. Con uno scarto fra le due misure di quasi quattro volte e mezzo.
Un po’ come se il vostro navigatore vi desse indicazione su come muovervi misurando le distanze in miglia, anziché in chilometri. A un certo punto vi trovereste in un luogo completamente diverso da quello che dovevate raggiungere.
E, infatti, Mars Climate Orbiter arrivò a Marte, nonostante tutte le correzioni di orbita intermedie, troppo basso, in piena atmosfera marziana, e nessuno se ne rese conto in tempo. Un errore che, come si legge in un articolo del New York Times del 24 settembre 1999, costò alla Nasa 125 milioni di dollari. Alla faccia del faster better cheaper. Ma come è possibile che un errore così banale sia passato inosservato così a lungo?
Noel Hinners, vicepresidente dei sistemi di volo della Lockheed Martin – lo stesso che abbiamo sentito prima – aveva detto al New York Times “La reazione è di incredulità. Non può essere qualcosa di così semplice a provocare una cosa del genere”.
Paolo Ferri
Non mi faccia commentare sul fatto che gli americani ancora usano i piedi e queste cose qui. (ride) Questa è una questione che secondo me è al limite dell’inciviltà. Comunque, loro sono abituati così che ci posso fare. Quelli là lavoravano con i piedi e i pollici e queste cose strane, questi lavorano con i metri e si sono passati durante tutta la missione valori che hanno portato a una traiettoria sbagliata. Per quelli del Jpl, e se vogliamo per noi di riscontro, è stata una dimostrazione che in fondo le cose difficili è meglio farle fare ai centri istituzionali.
Son passati 25 anni adesso la situazione è molto diversa eccetera però io ho vissuto tutta la vita in questo tipo di discussioni: “No ma voi costate tanto guarda che lo faccio fare l’industria” e noi diciamo “Sì, noi costiamo tanto però lo facciamo bene. Fallo fare l’industria poi vedi cosa succede. Quindi io sono un po’ di parte su queste cose.
Valentina Guglielmo
Perché i centri istituzionali lavorano meglio dell’Industria?
Paolo Ferri
In un ambiente istituzionale i soldi sono importanti ma l’obiettivo è il risultato: per le istituzioni i soldi servono a raggiungerlo, mentre per l’industria l’obiettivo sono i soldi e i risultati servono a raggiungere i soldi. È una filosofia opposta quindi non si può dare meno soldi all’industria e pretendere che facciano il lavoro allo stesso livello di un posto istituzionale che costa molto di più. E questo è quello che è successo.
Valentina Guglielmo
Il fallimento di Mars Climate Orbiter, comunque, preoccupava anche per un’altra ragione. Abbiamo cominciato questa puntata dicendo che erano stati tre i fallimenti del ’99. E infatti, in quegli stessi mesi la Nasa aveva un’altra missione in viaggio verso Marte, Mars Polar Lander. Che trasportava un lander, appunto, e due piccole sonde pensate per penetrare il suolo marziano, le Deep Space 2. La preoccupazione, quindi, era che qualunque problema avesse causato la fine della prima missione potesse essere presente anche in queste. Il periodo era lo stesso, i due progetti avevano lavorato praticamente sempre in parallelo, e a separare gli arrivi su Marte c’erano appena tre mesi di tempo.
Paolo Ferri
Allora, chiaramente, siccome c’erano tre mesi di mezzo se ricordo bene, fra settembre e dicembre, per Polar Lander tutta l’attenzione è stata sulla traiettoria.
Valentina Guglielmo
Mars Polar Lander, lo dicevamo all’inizio, era – assieme a Climate orbiter – la seconda delle missioni Mars Surveyor della Nasa, il programma che prevedeva una serie di piccoli veicoli spaziali a basso costo per l’esplorazione prolungata del clima di Marte.
L’obiettivo di Polar Lander era posizionare un lander e due penetratori, i Deep Space 2, sulla superficie di Marte per indagare le risorse idriche passate e presenti del pianeta. Polar Lander avrebbe dovuto quindi svolgere la sua missione contemporaneamente a Mars Climate Orbiter, che avrebbe agito come ponte di comunicazione durante le operazioni in superficie.
[Stacco musicale]
Polar Lander arrivò su Marte il 3 dicembre 1999 – circa due mesi e mezzo dopo Climate Orbiter. Sarebbe dovuto entrare in atmosfera e poi, circa 10 minuti prima dell’atterraggio, sganciare lo stadio di crociera, i pannelli solari e rilasciare le due microsonde Deep Space 2, ciascuna del peso di circa 3,6 chilogrammi. L’ultimo contatto con il veicolo è avvenuto alle 20:02 UT – il tempo universale, le 12:02 in California – del 3 dicembre 1999, quando la navicella si è posizionata in assetto di ingresso e, viaggiando a circa 24840 chilometri all’ora, è entrata nell’atmosfera marziana dopo circa otto minuti. A quel punto, l’atterraggio – previsto per le 20:14 UT – doveva avvenire alla cieca e la Nasa si aspettava di ristabilire il contatto 24 minuti dopo. Ma da Mars Polar Lander non è stato ricevuto più alcun segnale.
Le due microsonde Deep Space 2, invece, avrebbero dovuto impattare il suolo a una velocità di circa 200 metri al secondo, dai 50 agli 85 secondi prima del lander e a circa 100 chilometri di distanza. Anche queste atterravano alla cieca e anche di queste si persero le tracce.
Paolo Ferri
Polar Lander è arrivato sulla traiettoria giusta, questo glielo posso assicurare. Su Polar Lander – ed è forse anche il motivo per cui lei diceva prima che se ne parla meno, che si parla più della politica eccetera – non c’è molto da dire. Come noi per Beagle 2 hanno deciso di atterrare alla cieca e quindi tutto quello che è successo o non lo sanno o è tutta speculazione. C’è un report molto dettagliato e sono arrivati anche a conclusioni plausibili per Polar Lander, non per Deep Space 2. Tra l’altro Deep Space 2 era un passeggero di Polar Lander. Per Deep Space 2 non hanno la più pallida idea. Zero. Non c’è nessuna spiegazione plausibile che abbiano trovato almeno per quanto ho visto io. Magari mi sbaglio, ma sicuramente in quei report finali non c’è niente perché anche i problemi che suppongono siano successi con Polar Lander non implicano che lo stesso sarebbe successo con Deep Space 2. Quindi Deep Space 2 è un mistero totale. Per Polar Lander
sono arrivati appunto alla conclusione che per vari motivi credo legati al software – adesso i dettagli non me li ricordo bene– il veicolo abbia spento i razzi troppo presto come in effetti è successo a Schiaparelli. Però non lo possono dire, è tutta speculazione: non avevano la telemetria, non avevano i dati. Hanno analizzato le cose col senno di poi e hanno detto “oddio si è schiantato cosa sarà successo. Ma forse questo forse questo”, ma una vera conferma al 100 per cento non ce l’avranno mai per cui anche il report si è più concentrato sulle condizioni al contorno che sono per esempio averlo fatto con pochi soldi, non aver preso la telemetria durante la discesa. Queste sono le vere raccomandazioni che sono uscite da Polar Lander.
Valentina Guglielmo
Senza comunicazioni per più di due settimane, il 16 dicembre 1999 la Nasa utilizzò il Mars Global Surveyor in orbita attorno a Marte per cercare segni del lander sulla superficie del pianeta, ma la ricerca fu del tutto inutile. Il 17 gennaio 2000, la Nasa decise di interrompere tutti i tentativi di stabilire un contatto con il lander perduto.
[dal video “A very public failure” del Global Mentor Network]
“It was very very public. The interesting thing is, if one has a failure, it sticks within the family but when you’re out there, the whole world knows”.
Valentina Guglielmo
In questa intervista del 2020 a Daniel Goldin fatta dal Global Mentor Network, “A very public failure”, l’ex amministratore della Nasa parla di questa profonda cicatrice – così la definisce – nella sua carriera. Dice, come abbiamo sentito, che fu una cosa molto pubblica. I tre fallimenti del ’99 infatti accesero immediatamente polemiche sulla politica della Nasa, tanto che queste oscurarono completamente le cause tecniche del guasto – specialmente per Polar Lander e Deep space 2.
Naturalmente, c’è stata l’indagine della commissione d’inchiesta, i cui risultati sono stati resi pubblici il 28 marzo 2000, e in cui era scritto che la causa più probabile del guasto di Polar Lander era stata la generazione di segnali spuri quando il lander aprì le gambe durante la discesa. Questi segnali indicavano falsamente che il veicolo spaziale aveva toccato Marte, mentre in realtà stava ancora scendendo. Un po’ come era successo a Schiaparelli, i motori principali si erano spenti prematuramente e il lander era caduto sulla superficie marziana, schiantandosi. Per quanto riguarda Deep Space 2, invece, come diceva Ferri, non si è più saputo nulla, né si è potuta avanzare qualsivoglia ipotesi. L’impossibilità di trovare una causa, come per Beagle 2, era dovuta appunto alla decisione di atterrare alla cieca. Una scelta che non è stata più nemmeno un’opzione, da quel momento in poi.
Ma ascoltiamo come giustifica Goldin stesso, nell’intervista del Global Mentor Network, la propria politica spaziale.
[dal video “A very public failure” del Global Mentor Network]
“I pushed faster, better, cheaper. My failure was I never quite explained it so people actually understood. The concept of faster, better, cheaper is instead of building giant thingsthat get launched infrequently, each of which costs a lot of money, so you almost have to guarantee success, is to chop it up into a lot of smaller things and do them faster, so you could afford a failure. But you need one to two failures out of ten to get there. […] We landed the first robot ever to deploy on Mars. And it was a spectacular success. So we kept achieving and I wanted more, […] so I said, okay, let’s squeeze a little bit more. So we then had the next series of missions to Mars, both of them failed. It was major news all over the place, but it was okay.
Because instead of spending billions, we spent hundreds of millions.[…] I’m responsible for the failure.
Now this is before the whole damn world! (chuckles) I had to admit that and we called the press conference the next day and in front of the whole JPL team I stood in front of ten, fourteen cameras, the whole media, and I said I was responsible. I pushed the limits too hard because I wanted to save more money and more time. I didn’t sleep that night. It hurt. And to this day people still don’t understand faster, better, cheaper”.
[doppiaggio in italiano]
Ho spinto molto sul “faster, better, cheaper”. Il mio fallimento è stato che non l’ho mai spiegato in modo che le persone lo capissero davvero. Il concetto di “più veloce, migliore, più economico” è che, invece di costruire cose gigantesche che vengono lanciate di rado, ognuna delle quali costa un sacco di soldi, e sulle quali devi garantire il successo, è meglio dividere il tutto in tante cose più piccole e farle più velocemente, in modo da potersi permettere un fallimento. Ma per raggiungere l’obiettivo sono necessari uno o due fallimenti su dieci. […] Abbiamo fatto atterrare il primo robot su Marte. Ed è stato un successo spettacolare. Abbiamo continuato a ottenere risultati e io volevo di più, […] così ho detto: “Ok, osiamo un po’ di più”. Così abbiamo lanciato una nuova serie di missioni su Marte, entrambe fallite. La notizia ha fatto il giro del mondo, ma è andata bene così.Perché invece di spendere miliardi, abbiamo speso centinaia di milioni. Sono io il responsabile del fallimento.
Ora, questo fallimento è sotto gli occhi di tutto il mondo! Ho dovuto ammetterlo e il giorno dopo abbiamo indetto una conferenza stampa di fronte all’intero team del JPL: mi sono presentato davanti a dieci, quattordici telecamere, a tutti i media, e ho detto che ero responsabile. Che avevo spinto troppo oltre il limite perché volevo risparmiare più soldi e più tempo. Quella notte non ho dormito. Mi ha fatto male. E, alla fine, ancora oggi la gente non capisce “faster, better, cheaper”.
Valentina Guglielmo
Insomma, che il problema fosse una percezione sbagliata da parte del mondo intero della politica faster, better, cheaper o meno, dopo aver inanellato tre fallimenti nel giro di tre mesi, la Nasa dovette cambiare rotta. E riorganizzare, con i fondi che aveva a disposizione, le missioni future.
Paolo Ferri
In quel momento la Nasa era sotto pressione perché lo Shuttle costava una montagna di soldi e stava succhiando tutti i fondi, poi c’era la stazione spaziale da costruire. Insomma, praticamente il povero Goldin si è trovato di fronte a dire “o rivedo completamente il modo di fare missioni esplorative oppure non le faccio più”. Non era pensabile per lui fare un atterraggio su Marte con i soldi di Viking degli anni ’70, che era costato cifre spaventose. Quei tempi erano andati. Quindi il povero Golding si è trovato in quella situazione e si è inventato il Faster Better Cheaper che significava appunto “facciamo meno test, più veloci, usiamo parti già provate”, eccetera. Tante cose anche interessanti e gli è andata anche bene molte, perché missioni sono andate molto bene in quegli anni, e parliamo di un decennio. Però molte altre oltre alle due di Marte sono esplose, come ad esempio Contour, che era una missione che doveva andare a varie comete. Insomma ci sono stati vari fallimenti e le due missioni del ’99 per Marte hanno dato la batosta finale. A quel punto Goldin se n’è andato, l’hanno cambiato. Però appunto non è che era stupido lui. A quel punto la prima cosa che hanno fatto è stata unire le due missioni del 2001 mettendo insieme i soldi per farne una sola e farla bene: la missione Odyssey è ancora lì che funziona adesso. Poi nei due rover del 2003 ci hanno messo più soldi e sono andati bene, e poi da allora sono andati uno dietro l’altro. Continuano anche loro ad avere i loro problemi di budget ma ovviamente sono problemi di gran lusso rispetto a quelli di noi europei, eh, questo non va mai dimenticato: parliamo di un fattore 10. È sempre molto difficile paragonare eh, perché i conti vengono fatti in modo diverso; quindi, è veramente difficile però l’ordine di grandezza è quello lì.
Le dico una cosa che ho imparato nel 2019: le operazioni di Curiosity nel 2019, le operazioni, avevano un budget di 100 milioni di dollari all’anno. Per un rover molto complesso, però anche con tutti i suoi strumenti, cioè c’è dentro tanto tanto lavoro che magari da noi non viene contato.
Da noi, per le nostre missioni nel 2019, e parlo di una missione intorno a Marte che tra l’altro
deve volare e non sta lì seduta per terra (come un rover, ndr) – adesso non voglio sminuire le difficoltà di un rover, ci mancherebbe – ecco noi parlavamo di 5 o 6 milioni di euro all’anno. Loro ce ne avevano 100. Non sono paragonabili, lo ripeto, ma l’ordine di grandezza è quello lì.
[inizio musica]
Valentina Guglielmo
Ancora una volta, possiamo dire che non si arriva a Marte risparmiando. E in ogni caso, anche non volendo risparmiare, il viaggio verso il Pianeta rosso – così come qualunque viaggio interplanetario – può essere pieno di problemi e di insidie. Lo sa bene Rosetta, la missione con la quale, nel prossimo episodio, ci spingeremo molto vicino e molto lontano dal Sole per seguire la cometa Churyumov-Gerasimenko. Per Rosetta, pensate, i problemi sono cominciati addirittura un anno prima del lancio. Io sono Valentina Guglielmo e vi aspetto, quindi, al prossimo episodio di Houston, un podcast di Media Inaf che parla di spazio, atterraggi falliti, innovazioni disperate e soluzioni geniali.
[fine musica]
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