LO STUDIO È PUBBLICATO SU THE ASTROPHYSICAL JOURNAL

Come riconoscere i segnali di E.T.? Scintillano

Arriva da un team di ricercatori di Berkeley uno fra i maggiori progressi, da molto tempo a questa parte, nel campo della ricerca di segnali radio prodotti da intelligenze aliene: è una nuova tecnica Seti che consente di filtrare in modo automatico, con un algoritmo scritto in Python, le interferenze terrestri per concentrarsi solo sui segnali extraterrestri

     17/07/2023

Il Green Bank Telescope, uno dei radiotelescopi utilizzati dal progetto Breakthrogh Listen. Crediti: Geremia/English Wikipedia

L’anno prossimo l’istituto Seti compirà ufficialmente quarant’anni. Ma è già dagli anni Sessanta che la ricerca di una traccia radio di vita extraterrestre intelligente va avanti. Decenni trascorsi a spulciare nell’immensità dei segnali raccolti dai radiotelescopi alla ricerca di un’impronta che ci offra la prova che no, non siamo soli: che c’è qualcuno là fuori. Una traccia che cambierebbe per sempre la storia dell’umanità. Una traccia che finora non è stata trovata. Ma c’è una buona notizia: grazie a una nuova tecnica messa a punto a Berkeley da un team di ricercatori del progetto Breakthrough Listen, illustrata in un articolo pubblicato oggi su The Astrophysical Journal, potrebbe diventare presto molto più rapido distinguere in modo automatico i segnali di provenienza aliena da quelli prodotti, invece, da noi terrestri.

Uno fra i problemi maggiori nella ricerca di tracce radio di intelligenze extraterrestri è che non sappiamo cosa attenderci. Non sappiamo come riconoscerlo, il segnale che cerchiamo. Che aspetto dovrebbe mai avere? Occorre per forza di cose procedere per assunzioni arbitrarie. Quella principale è che un segnale artificiale, a differenza delle onde radio provenienti da sorgenti cosmiche naturali, dovrebbe essere a banda stretta. «Pensiamo alla musica: quando con un dito premiamo un tasto del pianoforte», spiega il radioastronomo Germano Bianchi nell’articolo “Segnali intelligenti” pubblicato su Edu.Inaf, «produciamo solo una nota, mentre se con due mani schiacciamo dieci tasti, il risultato è che sentiamo dieci note contemporaneamente. È come se il segnale naturale fosse composto da diverse note tutte insieme, mentre quello artificiale da una nota sola».

A questo punto sorge però un secondo problema: se riceviamo un segnale a banda stretta, come facciamo a sapere che non è stato prodotto da noi? La risposta ovvia è: basta guardare da dove proviene. Ma le cose sono più complicate. Immersi come siamo nel rumore elettromagnetico e circondati da decine di migliaia di satelliti artificiali, non sempre è possibile stabilire la provenienza di un segnale radio. Prendiamo, per esempio, il segnale emesso il 24 maggio scorso per il progetto A sign in space: ideato ed emesso proprio con l’intenzione di “mimare” un messaggio da E.T., arrivava direttamente dallo spazio – da Tgo, un satellite dell’Esa in orbita attorno a Marte. Oppure, per restare a segnali involontari, c’è il caso recente di Blc1 (Breakthrough Listen Candidate 1): rilevato il 29 aprile 2019, aveva apparentemente tutte le carte in regola per essere un candidato “segnale Wow”. Non solo: sembrava provenire da Proxima Centauri, dove si trova il sistema planetario più vicino al nostro. Ma a uno studio approfondito è emerso che, con tutta probabilità, si è trattato di un’interferenza tutta terrestre.

Un modo per tentare di discriminare fra segnali cosmici e segnali terrestri è quello di puntare il radiotelescopio telescopio in un punto diverso del cielo, per poi tornare alcune volte nel punto in cui il segnale è stato originariamente rilevato. Questo assumendo che il segnale che cerchiamo sia persistente nel tempo.

Il celebre commento Wow! scritto da Ehman a margine dei dati. Crediti Big Ear Radio Observatory and North American AstroPhysical Observatory (Naapo)

Un’altra assunzione arbitraria, dunque. Ed è proprio per non aver soddisfatto questa condizione che il celebre segnale Wow individuato dall’astronomo Jerry  Ehman il 15 agosto 1977 è stato scartato: dopo quella prima rilevazione non è stato più possibile riceverlo.

Ebbene, la nuova tecnica elaborata a Berkeley promette di poter tenere in considerazione anche segnali che non si ripetono. Grazie a un criterio finora di difficile applicazione per stimare quanto sia lontana l’origine del segnale: la scintillazione. Il concetto è simile a quello che a volte usiamo quando guardiamo il cielo per decidere se un oggetto è una stella o un pianeta: la turbolenza atmosferica fa infatti sì che la luce delle stelle, apparendoci come una sorgente puntiforme, sembri tremolare, mentre quella riflessa dai pianeti – che per la loro vicinanza a noi puntiformi non sono – lo fa assai meno. Qualcosa di analogo avviene per le onde radio d’origine remota quando attraversano non l’atmosfera bensì il mezzo interstellare. Il plasma freddo del mezzo interstellare, in particolare gli elettroni liberi, è infatti in grado di alterare il segnale di sorgenti radio come le pulsar. Nel caso di un segnale a banda stretta, scrivono gli autori dello studio, una serie di rifrazioni in successione fa sì che la sua ampiezza non ci appaia stabile, ma aumenti e diminuisca nel tempo. Come se “scintillasse”, appunto.

L’algoritmo in codice Python sviluppato dal primo autore dello studio pubblicato oggi, Bryan Brzycki, studente a Uc Berkeley, è in grado di fare proprio questo: analizza la scintillazione dei segnali a banda stretta e individua quelli che si attenuano e tornano a brillare con periodi inferiori al minuto – sintomo dell’attraversamento del mezzo interstellare. In altre parole, è in grado di mettere in luce la firma del mezzo interstellare nei segnali potenzialmente emessi da intelligenze extraterrestri.

«Questo significa che potremmo utilizzare una pipeline opportunamente calibrata per identificare senza ambiguità le emissioni artificiali provenienti da sorgenti lontane rispetto alle interferenze terrestri», dice la relatrice di tesi di Brzycky, Imke de Pater, professoressa emerita di astronomia a Berkeley. «Non solo: oltre che per trovare un segnale, questa tecnica potrebbe, in certi casi, essere usata anche per confermare la provenienza di un segnale da una sorgente lontana, piuttosto che locale. Questo lavoro rappresenta, dopo il criterio di osservare di nuovo verso la stessa regione di cielo, il primo nuovo metodo di conferma d’un segnale nella storia del progetto Seti».

Insomma, una “filigrana” molto promettente contro i falsi positivi. Ma con almeno un grosso limite, sottolineano gli stessi autori dello studio: affinché il fenomeno della scintillazione radio sia rilevabile, la sorgente del segnale deve trovarsi ad almeno 10mila anni luce da noi. Dunque è una tecnica soggetta a produrre numerosi falsi negativi: un segnale proveniente da Proxima Centauri, per esempio, dunque solo a poco più di quattro anni luce di distanza, non supererebbe il test.

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