RISULTATO: NON SONO I FLARE A SCALDARE LA CORONA

Gli occhi di mille studenti sui brillamenti solari

Il più singolare progetto di scienza partecipata ha visto gli occhi e le teste di mille studenti di fisica impegnati nell’analisi di centinaia di brillamenti solari per comprendere come mai la corona solare abbia temperature di un ordine di grandezza superiori a quelle della fotosfera. Ne è uscito un articolo scientifico, publicato su The Astrophysical Journal e co-firmato da tutti loro, che contiene una prima risposta

     10/05/2023

La radiazione proveniente dalla corona solare diventa visibile durante un’eclissi. Crediti: Wikimedia Commons

Mille studenti, 56mila ore di lavoro, un articolo. Si può riassumere così un lavoro di ricerca cominciato durante la pandemia nell’università del Colorado, a Boulder, e concluso con una pubblicazione scientifica che riesce – grazie a un singolare progetto di scienza partecipata – a rispondere a una delle questioni più dibattute sul Sole: perché la corona è molto più calda della fotosfera?

Per rispondere bisognava passare in rassegna gli archivi contenenti migliaia di misure di brillamenti solari (o flare): un lavoro dispendioso in termini di tempo ed energie, per cui una persona sola non basta. Ma mille sì. Non persone qualunque, dicevamo, bensì studenti di fisica. Privati, a causa della pandemia, della possibilità di svolgere regolarmente le proprie ore di lezione in laboratorio, ma coinvolti dalla loro insegnante in un progetto di scienza partecipata unico nel suo genere. Una possibilità per loro di capire come si fa ricerca molto prima della tesi o del dottorato, per i ricercatori di trovare una soluzione a un problema complesso fondamentale per la comprensione della fisica solare, e un modo, per tutti, di “uscire” dallo stress e dall’isolamento della pandemia. Infine, la soddisfazione di riempire con le proprie firme le prime tre pagine di un articolo pubblicato The Astrophysical Journal, che raccoglie i risultati di questo studio e fornisce una risposta che mancava.

Cominciamo dalla scienza. La fotosfera solare ha una temperatura che si aggira intorno ai 5700 gradi kelvin, mentre la corona, la parte più esterna, raggiunge il milione di gradi. «È come stare davanti a un falò che, man mano che ci si allontana, diventa molto più caldo», dice James Paul Mason, astrofisico al laboratorio di fisica applicata della John Hopkins University e primo autore dello studio. «Non ha senso».

Le teorie che cercano di spiegare questo fenomeno sono d’accordo nell’identificare il campo magnetico solare come veicolo dell’energia che riscalda la corona, ma sono divise fra due ipotesi ugualmente plausibili – prima d’ora, almeno – circa la sorgente di questa energia: la prima è che siano i nanoflare a scaldare la corona, se presenti in numero e frequenza sufficiente; la seconda è che siano le onde di Alfvén, particolari onde magnetoidrodinamiche presenti sulla nostra stella in grado di trasportare energia a grandi distanze. Nessuno dei due fenomeni, però, è direttamente osservabile con le tecnologie attuali. Uno dei modi – indiretti – per capirlo è invece quello di ricostruire la distribuzione della frequenza dei brillamenti, un grafico che descrive la frequenza con cui si verificano brillamenti di varie energie. Matematicamente, questo grafico ha la forma di una legge di potenza, con una pendenza che non è nota con precisione e dalla quale, però, dipende la risposta che si sta cercando: se la pendenza è superiore a una soglia critica, che vale 2, allora il Sole dovrebbe avere un’abbondanza sufficiente di nanoflare per spiegare il riscaldamento coronale. Altrimenti è più probabile che la causa vada ricercata nelle onde di Alfvén.

La prima immagine della sonda Solar Orbiter dell’Esa scattata il 30 maggio 2020. Il Sole è ripreso a lunghezze d’onda dell’estremo ultravioletto (17 nm), che mettono in evidenza la corona esterna a una temperatura di circa un milione di gradi. Crediti: Solar Orbiter/Eui Team/ Esa & Nasa; Csl, Ias, Mps, Pmod/Wrc, Rob, Ucl/Mssl

Per ricostruire con precisione la distribuzione dei brillamenti solari, occorre una buona statistica. Qui entra in gioco il contributo fondamentale dei 995 studenti che, durante la pandemia, stavano seguendo il corso di “Sperimentazioni di fisica I” di una collega di Mason, Heather Lewandowski, che ha colto al volo l’idea di coinvolgerli in questo progetto di ricerca dal momento non era possibile usufruire dei laboratori previsti dal programma del corso. Divisi in gruppi da tre o quattro persone, i ragazzi hanno analizzato più di 600 casi di brillamenti solari nel corso di tre semestri, calcolando anche l’energia dei singoli flare e controllando, poi, il lavoro dei compagni. A questo punto, gli scienziati hanno potuto prendere in mano la selezione eseguita e fare dei controlli finali, costruendo la distribuzione di frequenza di cui avevano bisogno.

La risposta finale? Sembra proprio che la pendenza della curva sia inferiore alla soglia, e che non vi sia sufficiente energia portata dai brillamenti per alzare la temperatura della corona fino ai valori misurati.

Infine, una piccola precisazione. A tutti gli studenti iscritti al corso è stato offerto di diventare coautori. Per essere inclusi nell’elenco, però, il lavoro di gruppo non bastava: bisognava superare l’esame. Gli studenti dovevano quindi aver completato il corso durante uno dei tre semestri in cui si è svolto il progetto, ottenendo un voto sufficiente. Questo processo ha selezionato 964 studenti coautori. Inoltre, anche tutti i 31 assistenti (studenti laureati) che hanno aiutato durante il corso sono stati inclusi come coautori. Infine, il primo autore e l’insegnante del corso, che ha umilmente occupato l’ultimo posto nella lista.

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