LO STUDIO PUBBLICATO SU NATURE ASTRONOMY

James Webb, sei troppo avanti

Per sfruttare a pieno le capacità di scoperta del telescopio spaziale James Webb, occorre lavorare su più fronti, e perfezionare la nostra conoscenza rispetto ad alcune situazioni fisiche che si verificano nelle atmosfere degli esopianeti. Il rischio è di interpretare male i dati

     16/09/2022

Immaginate di dover misurare con precisione le dimensioni di un oggetto molto piccolo, dell’ordine di alcuni millimetri, e di avere a disposizione un righello in cui però la divisione più fine sono i centimetri. Sicuramente non sarete in grado di effettuare una misura precisa e, per farlo, dovrete dotarvi di uno strumento più sensibile. Dovrete adeguare lo strumento di misura all’oggetto del vostro studio. Ebbene, lo stesso problema è stato sollevato in un articolo pubblicato ieri su Nature Astronomy da un gruppo di ricercatori che studia le atmosfere degli esopianeti mediante la spettroscopia. Secondo loro, si legge nell’articolo, gli strumenti tipicamente utilizzati dagli astronomi per analizzare i segnali luminosi provenienti dagli esopianeti potrebbero non essere sufficienti per interpretare con precisione i dati provenienti dal James Webb.

Rappresentazione artistica di un Hot Jupiter con una spessa atmosfera, ben visibile in controluce. La luce della stella, quando transita attraverso l’atmosfera, produce uno spettro in trasmissione, grazie al quale si possono vedere gli elementi chimici presenti nell’atmosfera del pianeta. Crediti: Credit: Nasa, Esa e G. Bacon (Stsci)

«Il messaggio di questo studio è che se si vuole sfruttare appieno l’estrema sensibilità di strumenti come il James Webb e gli Extremely Large Telescopes che entreranno in funzione nei prossimi anni per comprendere struttura e composizione delle atmosfere planetarie, è necessario avere dati più accurati riguardo alcune grandezze fisiche che ora conosciamo in modo poco preciso», commenta a Media Inaf Raffaele Gratton, ricercatore dell’Inaf di Padova e non coinvolto nello studio. «Qui, in particolare, gli autori considerano i dati che si possono ottenere usando gli spettri in trasmissione acquisiti durante i transiti, che ci consentono di studiare la composizione chimica delle atmosfere planetarie».

Il problema riguarderebbe soprattutto i modelli di opacità, una misura della facilità con cui i fotoni attraversano un materiale. I fotoni di determinate lunghezze d’onda possono passare direttamente attraverso un materiale, essere assorbiti o riflessi, a seconda di come interagiscono con determinate molecole all’interno del materiale. Questa interazione dipende anche dalla temperatura e dalla pressione del materiale. Gli astronomi utilizzano i modelli di opacità (che si basano su diverse ipotesi su come la luce interagisce con la materia) per ricavare alcune proprietà di un materiale, dato lo spettro di luce che il materiale emette. Nel contesto degli esopianeti, un modello di opacità può decodificare il tipo e l’abbondanza di sostanze chimiche nell’atmosfera di un pianeta, in base alla luce della stella catturata quando, durante un transito, essa passa attraverso l’atmosfera del pianeta (quello che in gergo viene chiamato spettro di trasmissione). Per migliorare questi modelli, che ad oggi sono inadeguati a riprodurre l’estrema precisione delle osservazioni di Webb, c’è da lavorare su alcuni effetti che la collisione delle molecole in atmosfera ha sulle righe spettrali.

«L’effetto di allargamento delle righe spettrali dovuto alle collisioni tra le diverse molecole presenti nell’atmosfera dei pianeti è noto con discreta accuratezza per la situazione fisica che si realizza nell’atmosfera della Terra, ma non per quelle che si trovano nelle atmosfere di pianeti extrasolari» continua Gratton. «Allo stato attuale, le incertezze relative alla nostra conoscenza di questi dati si propagano in incertezze nelle quantità fisiche che vogliamo rivelare che sono molto maggiori di quelle dovute al semplice errore di misura».

Il rischio, se i modelli non vengono perfezionati, è che le proprietà delle atmosfere planetarie, come la temperatura, la pressione e la composizione, risultino sbagliate anche di un ordine di grandezza. L’esempio portato da Julien de Wit, professore assistente presso il Dipartimento di Scienze della Terra, dell’Atmosfera e Planetarie del Mit e coautore dello studio è chiarificatore: «C’è una differenza scientificamente significativa tra la presenza di un composto come l’acqua al 5% e al 25%, che i modelli attuali non sono in grado di distinguere. Attualmente, il modello che utilizziamo per decriptare le informazioni spettrali non è all’altezza della precisione e della qualità dei dati che abbiamo dal telescopio James Webb. Dobbiamo alzare il tiro e affrontare insieme il problema dell’opacità».

«Spesso il progresso in alcune aree della scienza è dovuto al progresso in altre e non basta avere strumentazione estremamente sofisticata e fare misure molto precise per comprendere meglio la realtà» conclude Gratton. «E, spesso, è necessario anche avere conoscenze adeguate in campi apparentemente distanti, che richiedono strumentazione e metodi molto diversi. Finché queste conoscenze non verranno acquisite, è necessario usare molta prudenza nell’interpretare i dati. Questo, però, a mio parere è un messaggio generale, che non vale solo per questa particolare osservazione».

 

Per saperne di più: