UN’ONDA D’URTO CHE AVANZA A 100 CHILOMETRI AL SECONDO

L’arco perfetto dell’Orsa Maggiore

Scoperto un arco perfetto che si estende per 30 gradi nel cielo settentrionale. Si tratta probabilmente del fronte di un’onda d’urto, che si propaga a 100 chilometri al secondo, generata da una supernova circa 100mila anni fa, a una distanza approssimativamente pari a 600 anni luce. Media Inaf ha intervistato uno degli autori della scoperta, l’astrofisico italiano Andrea Bracco

     05/06/2020

Andrea Bracco, astrofisico italiano attualmente residente a Zagabria (Croazia). Nato a Roma nel 1986, si è laureato in Astronomia e Astrofisica all’Università La Sapienza di Roma nel 2011. Ha svolto la sua attività di ricerca negli Stati Uniti e in Francia. Ora lavora all’Istituto Rudjer Bošković come Marie Sklodowska Curie fellow. Fonte: bracand.wixsite.com/cosmicogits. Crediti: @juanjerez/Instagram

Alzando gli occhi al cielo in una notte stellata, vi sarà sicuramente capitato di vedere le stelle della costellazione dell’Orsa Maggiore e, in particolare, le sette più brillanti che costituiscono il Grande Carro. Poco distante, si trova l’Orsa Minore, più difficile da individuare. È proprio in quella zona di cielo che alcuni astronomi hanno annunciato di avere scoperto un arco perfetto, centrato sull’impugnatura del Grande Carro, che si estende per 30 gradi nel cielo settentrionale. Se fosse completo, circonderebbe totalmente il Grande Carro, disegnando un cerchio di 60 gradi di diametro.

Questo oggetto unico è stato scoperto da Andrea Bracco, Marta Alves e Robert Benjamin, che hanno pubblicato i risultati del loro studio su Astronomy & Astrophysics Letters lo scorso aprile. La pubblicazione scientifica è stata annunciata dall’American Astronomical Society questa settimana e Media Inaf per l’occasione ha raggiunto l’astrofisico italiano Andrea Bracco, che attualmente risiede a Zagabria (in Croazia), e che lavora presso l’Istituto Rudjer Bošković come Marie Sklodowska Curie fellow, dedicandosi principalmente allo studio della fisica del mezzo interstellare della Via Lattea. Rispondendo alle nostre domande, ci aiuta a capire meglio di che si tratta, come si è originata questa conformazione e come andrà a finire.

Che cos’è questo grande arco che avete scoperto?

«Questo arco dell’Orsa Maggiore, come l’abbiamo nominato, è una struttura estremamente collimata e coerente che sottende un angolo di circa trenta gradi nel cielo e che abbiamo osservato in diverse bande elettromagnetiche, sia nella banda ottica sia in quella ultravioletta. Molto probabilmente abbiamo a che fare con il fronte di un’onda d’urto – shock in inglese – che avanzerebbe ad una velocità prossima a 100 chilometri al secondo».

Da cosa è stato originato e quando?

«L’origine, la distanza e l’età dell’arco non sono caratteristiche definite con precisione, per il momento. Tuttavia, la nostra ipotesi è che questo fronte d’onda sia stato generato da un’esplosione stellare, o supernova, risalente a circa 100mila anni fa, a una distanza approssimativamente pari a 600 anni luce».

Perché emette raggi ultravioletti?

«Fenomeni altamente energetici, come un’onda d’urto provocata da un’esplosione supernova, possono surriscaldare le specie chimiche che costituiscono il gas interstellare ed eccitare, per esempio, gli atomi di idrogeno, ovvero l’elemento chimico più leggero e abbondante nella  galassia. La diseccitazione di questi atomi di idrogeno si manifesta sotto forma di radiazione elettromagnetica nella banda ottica, con l’emissione di luce H-alpha, e in tutta la banda ultravioletta».

Vista del cielo notturno guardando a nord di Chicago alle 2:20 del 4 giugno 2020, in cui è visibile l’arco dell’Orsa Maggiore (in giallo), il cerchio completo (in bianco) e il filamento originariamente scoperto nel 1997, lungo a 2 gradi (in rosso). Crediti: Stellarium.org/A. Bracco

Come avete fatto a scoprirlo?

«La scoperta è stata eccitante e sorprendentemente fortuita. Insieme alla mia collega Marta Alves, all’epoca ricercatrice dell’Università Radboud in Olanda, nel 2017 eravamo alla ricerca di dati d’archivio per poter interpretare delle osservazioni in polarizzazione nella banda radio ottenute con Lofar, una rete di radiotelescopi situata prevalentemente nei Paesi Bassi. Aveva attirato la nostra attenzione uno studio dei primi anni 2000 condotto dal collega Bob Benjamin, professore dell’Università di Wisconsin-Whitewater negli Usa, sulla rivelazione di un segmento lungo un paio di gradi nel cielo, visto nella banda ottica tramite emissione H-alpha. È così che, perlustrando gli archivi Nasa del satellite Galaxy Evolution Explorer (Galex), abbiamo scoperto che quel segmento H-alpha identificato una ventina d’anni prima si estendeva per ben oltre 30 gradi nel cielo ultravioletto. Inutile sottolineare lo stupore che ci ha colto. Un caso o, come dicono gli anglosassoni, un chiaro esempio di serendipity. Tuttavia, tanto fu lo stupore quanto lo scetticismo iniziale, sia da parte nostra sia da parte dei nostri colleghi, nel convincerci che l’arco dell’Orsa Maggiore non fosse un difetto dei dati. Nel 2018, durante una conferenza organizzata dall’Università Paris-Saclay in Francia, io e Marta Alves abbiamo avuto infine l’occasione di incontrare fisicamente Bob Benjamin. Questo è stato l’inizio di un intenso lavoro di gruppo che è terminato con la pubblicazione scientifica annunciata dall’American Astronomical Society questa settimana e pubblicata nel giornale Astronomy & Astrophysics Letters lo scorso aprile».

Come fate a essere sicuri che non sia un artefatto?

«Un aneddoto interessante, che ha tolto ogni dubbio sulla possibilità che l’arco fosse un artefatto delle osservazioni Galex, è derivato dal contributo fondamentale di un gruppo amatoriale di astronomi del New Mexico, negli Usa. David Mittelman, Dennis di Cicco e Sean Walker, una terna di esperti astronomi, seppur non professionisti, ci hanno fornito delle immagini H-alpha dell’arco dell’Orsa Maggiore aggiornate ai tempi nostri e facenti parte del loro progetto Mdw Survey. Queste immagini spettacolari hanno mostrato come tutta l’estensione dell’arco osservato con Galex fosse individuata anche in emissione H-alpha. La correlazione tra due set di dati in bande elettromagnetiche differenti e derivanti da due esperimenti completamente indipendenti l’uno dall’altro, è stata la prova definitiva che la scoperta fosse reale».

Mosaico di osservazioni di Galex dal Galex All-Sky Imaging Survey che mostra un’immagine nell’ultravioletto lontano (130-180 nm) dell’arco dell’Orsa Maggiore. Il gradiente delle immagini ultraviolette viene mostrato per evidenziare il contrasto dell’arco contro lo sfondo diffuso. L’arco si estende tra i due punti neri. Crediti: A. Bracco/R. Benjamin/NasaGalex

L’arco è grande e molto regolare: perché, secondo lei, non è stato scoperto prima?

«L’arco dell’Orsa Maggiore ha in effetti un’estensione molto grande nel cielo, tuttavia, la sua emissione ultravioletta è molto debole a confronto con l’emissione ultravioletta diffusa della nostra galassia. Credo che nessuno si fosse accorto prima dell’arco perché a nessuno era venuto in mente di guardare in dettaglio i dati Galex proprio nei dintorni del segmento H-alpha identificato da Bob Benjamin nel 1997. Mi piace sottolineare e pensare che questa scoperta sia stata davvero il frutto di una scienza aperta e indipendente, possibile solo grazie alla condivisione di dati scientifici resi accessibili pubblicamente dagli osservatori internazionali».

Strutture del genere sono rare?

«Strutture come quella che abbiamo scoperto sono osservate frequentemente nelle vicinanze dei cosiddetti resti di esplosioni supernova, ovvero nel gas interstellare che circonda supernove conosciute dalla comunità astrofisica internazionale. La particolarità, e l’unicità, dell’arco dell’Orsa Maggiore, tuttavia, è proprio la grande estensione nel cielo. Inoltre, a differenza di altre strutture simili, osservate sia nella banda ottica sia in quella ultravioletta, nel nostro caso non si conosce con esattezza l’eventuale esplosione supernova che avrebbe generato l’arco. Nella nostra pubblicazione facciamo riferimento ad un paio di altre strutture, finora ignote, che presentano le stesse caratteristiche dell’arco dell’Orsa Maggiore. Tutto ciò apre la porta a studi futuri per comprendere la natura fisica del mezzo interstellare nei dintorni del Sole».

Come mai è così geometrica?

«Immaginate di guardare una bolla di sapone volteggiare in aria. Vi renderete conto della presenza della bolla di sapone soprattutto osservando i bordi della stessa, per effetto di proiezione geometrica. Analogamente noi immaginiamo di vedere il bordo del fronte d’onda che sarebbe stato generato da un’eventuale esplosione supernova che, a causa di effetti di proiezione, ci appare come un arco quasi perfetto».

Quanto durerà? Si dissolverà nello spazio?

«Questa è una buona domanda, perché la risposta è molto incerta. Se la nostra interpretazione dell’arco dell’Orsa Maggiore come fronte d’onda di un’esplosione supernova è corretta, allora l’evoluzione dell’arco dipenderà molto dalla densità del gas interstellare che incontrerà lungo la sua espansione. Modelli di resti di supernova tuttavia suggeriscono che la loro vita media prima di dissolversi nello spazio è dell’ordine di centinaia di migliaia di anni».


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