LA PRESENZA DI OSSIGENO NON BASTA

Nasa: come riconoscere la vita?

Questa domanda, apparentemente banale, è alla base della formazione del Nexus for Exoplanet System Science (NExSS), piattaforma di studio multidisciplinare in cui gli astronomi, biologi e geologi possono confrontarsi sui criteri da applicare alle biosignature su altri mondi

     26/06/2018

Ecco come potrebbe apparire la “vita” su un pianeta extrasolare nella cui atmosfera fossero presenti sottoprodotti metabolici come l’ossigeno. Crediti: Nasa

Era il dicembre del 1995 quando gli svizzeri Michel Mayor e Didier Queloz scoprivano il primo esopianeta: un gigante gassoso grande la metà di Giove a “soli” 50 anni luce dal Sole. Fu l’inizio di una parabola inarrestabile, perché a tutt’oggi di esopianeti ne conosciamo ben 3796, ma la stima varia di giorno in giorno. Ne verranno scoperti in modo quasi esponenziale nei prossimi anni, semplicemente perché stiamo raffinando sempre di più le tecnologie dei telescopi, gli “occhiali” con cui siamo in grado di osservare i fenomeni che questi corpi producono intorno alle stelle di appartenenza.

Il prossimo passo, ovviamente, sarà cercare di trovarci la vita. Se, dunque, dovessimo davvero imbatterci in attività biotica, come faremmo a riconoscerla? Se lo è chiesta la Nasa, che ha riunito un gruppo di ricercatori specialisti in astronomia, biologia e geologia sotto il Nexus for Exoplanet System Science (NExSS), un network di studiosi nato appositamente per fare il punto sulle attuali conoscenze di ricerca di vita su pianeti lontani e gettare le basi per far avanzare le scienze correlate .

«Ci stiamo spostando dalla teorizzazione della vita in altre parti della nostra galassia ad una scienza solida che alla fine ci darà la risposta che cerchiamo alla profonda domanda: siamo soli?», commenta Martin Still, ricercatore specializzato in esopianeti presso la sede della Nasa, a Washington.

In una serie di articoli pubblicati la scorsa settimana sulla rivista scientifica Astrobiology, gli scienziati della NExSS hanno fatto un inventario dei segni più promettenti della vita, chiamati “biosignature” (traducibile in italiano con biomarcatori o firme biologiche), ovvero quella serie di prove, segni e piccole evidenze che dimostrerebbero l’esistenza di una possibile vita, presente o passata, su pianeti extraterrestri. Tra gli autori di questo articolo vi sono quattro scienziati del Jet Propulsion Laboratory della Nasa a Pasadena, in California che hanno considerato un problema non da poco: come riuscire ad interpretare la presenza di biosignature, se dovessimo rilevarle su mondi lontani.

Molecole di ossigeno e anidride carbonica possono essere prodotti si da processi biotici che abiotici, come il vulcanesimo.
Crediti: Nasa/Aaron Gronstal

Una delle sfide fondamentali sarà quella di mettere in campo una scienza sufficientemente solida da poter distinguere un pianeta realmente vivo da uno arido che della “vitalità” potrebbe avere semplicemente le sembianze. Sembra facile, eppure non è così. Uno dei “biomarcatori” della ricerca di vita in altri mondi è infatti l’elemento che più favorisce la vita sulla Terra, ovvero l’ossigeno che è il risultato diretto della fotosintesi clorofilliana. Ebbene, questo prezioso elemento potrebbe anche essere generato da processi abiotici, magari dovuti a vulcanesimo, mentre, d’altra parte, un pianeta privo di livelli rilevabili di ossigeno potrebbe anche essere potenzialmente vivo, com’è stato il caso della Terra prima dell’accumulo globale di ossigeno nell’atmosfera.

Questa nuova branca di ricerca scientifica è la naturale conseguenza dello sviluppo della nuova generazione di grandi telescopi spaziali e terrestri. Il James Webb Space Telescope della Nasa caratterizzerà dallo spazio (lancio previsto nel 2020) le atmosfere di alcuni dei primi piccoli pianeti rocciosi. Ma il Jwst non sarà il solo, perché ci sono già altri due telescopi, stavolta terrestri, in costruzione – come il Giant Magellan Telescope (Università dell’Arizona) e l’Extremely Large Telescope dell’Esa (European Space Agency), entrambi in Cile, che saranno equipaggiati con strumenti molto sofisticati in grado di rilevare le prime biosignature su mondi lontani.

Il network NExSS servirà dunque come piattaforma multidisciplinare con cui gli scienziati mirano a identificare gli strumenti necessari per rilevare la vita. Questo soprattutto in vista delle future missioni di punta della Nasa. La rilevazione delle “firme atmosferiche” di alcuni pianeti potenzialmente abitabili potrebbe arrivare prima del 2030 perché, grazie alla spettroscopia, siamo già in grado di rilevare di quali composti chimici fondamentali siano formate le stelle, e presto riusciremo a capire come sia formata una esoatmosfera. Inoltre, grazie ad osservazioni costanti degli stessi oggetti, si potranno osservare le loro eventuali variazioni “stagionali”.

«Non avremo una risposta “sì” o “no” sulla scoperta di vita altrove», dice Shawn Domagal-Goldman, astrobiologo del Goddard Space Flight Center della Nasa. «Quello a cui possiamo ambire è di ottenere un alto livello di probabilità che un pianeta possa apparire vivo per ragioni che possono essere spiegate solo dalla presenza della vita».