IL RUOLO DEI CAMPI MAGNETICI NELLE ULX

Magnetar al di là del limite di Eddington

Presentati nuovi indizi per svelare i possibili meccanismi che alimentano l’emissione spropositata delle misteriose Ultra-Luminous X-ray Sources. Fra gli autori dello studio, pubblicato oggi su ”Nature Astronomy”, anche Matteo Bachetti dell’Inaf - Osservatorio astronomico di Cagliari

     26/02/2018

Immagine della galassia Vortice M51 ottenuta combinando le informazioni sulla luce visibile raccolte dal telescopio spaziale Hubble con quelle della radiazione X vista da Chandra. La Ulx è l’oggetto cerchiato. Crediti: Nasa/Cxc/Caltech/M.Brightman et al.; Optical: Nasa/Stsci

Una delle conseguenze più divertenti del setacciare l’universo alla scoperta dei suoi segreti è che, spesso, si finisce per imbattersi in fenomeni davvero affascinanti, misteriosi corpi celesti dalle caratteristiche curiose e particolari, eventi inattesi che molte volte rimangono senza spiegazione per lungo tempo. Nell’enorme zoo di oggetti che il cosmo ci mette gentilmente a disposizione, le così dette Ultra-Luminous X-ray Sources (Ulx) sono senza dubbio tra le “creature” più incantevoli ed interessanti.

Scoperte per la prima volta all’inizio degli anni Ottanta, si tratta di sorgenti estremamente potenti di raggi X, diverse dai buchi neri supermassicci al centro dei nuclei galattici attivi, ma anche molto più energetiche di una comune stella. La proprietà principale che contraddistingue questi oggetti è il fatto che la radiazione emessa tende a eccedere il limite di Eddington. In astrofisica, il limite di Eddington è una misura della massima luminosità che può raggiungere un sistema in equilibrio tra la forza di gravità, che tende ad attirare verso il centro, e la pressione della radiazione, che tende a spingere all’infuori. Per capirsi meglio, più un corpo celeste accumula materia per via della gravità, più intensa risulta essere la radiazione che emette. Arriverà però un punto in cui l’energia rilasciata sarà talmente intensa da spazzare via qualsiasi altra aggiunta di materiale in caduta verso l’oggetto, bloccando l’accrescimento e mettendo dunque un limite alla sua stessa luminosità. In alcuni casi può, tuttavia, verificarsi qualche fenomeno che porti a un emissione ben al di sopra del limite di Eddington, come un’esplosione di supernova o come i getti dei nuclei galattici attivi. Anche le nostre Ulx fanno parte della lista. Resta però da capire cosa alimenti queste misteriose sorgenti.

All’inizio si pensava che solo sistemi binari costituiti da buchi neri di massa intermedia (almeno più di dieci volte la massa del nostro Sole) e una stella compagna potessero effettivamente generare luminosità così intense. Tuttavia, nel 2014 un’analisi sui dati combinati dei telescopi NuStar, Chandra e Swift, guidata da Matteo Bachetti dell’Inaf di Cagliari, ha identificato una Ulx alimentata da una stella di neutroni. E ora un team di ricercatori guidato da Murray Brightman del California Institute of Technology, del quale fa parte lo stesso Bachetti, ha analizzato un’altra Ulx, situata nella Galassia Vortice (M51), a 28 milioni di anni luce da noi, identificandola come una stella di neutroni.

La ricerca, i cui risultati sono pubblicati oggi su Nature Astronomy, non si è fermata qui ma ha fornito un’altra succulenta informazione. Uno dei possibili meccanismi in grado di produrre una luminosità superiore al limite di Eddington, nel caso delle stelle di neutroni, è legato alla presenza di un campo magnetico estremamente intenso intorno al corpo celeste: un campo che possa ridurre la pressione della radiazione e permettere a più materia di “cadere” sulla stella. Ebbene, esaminando lo spettro (ovvero l’insieme di tutte le frequenze) della radiazione emessa, il gruppo di Brightman ha identificato una caratteristica particolare collegabile al movimento circolare di particelle cariche, come protoni ed elettroni, nel campo magnetico della stella di neutroni. Conoscendo il tipo di particelle si può calcolare l’intensità di questo campo magnetico, e dunque capire se esso è effettivamente in grado di produrre l’incredibile luminosità delle Ulx, come spiega a Media Inaf lo stesso Matteo Bachetti in quest’intervista.

Partiamo dalla natura delle Ultra-luminous X-ray sources: cos’hanno di particolare, rispetto a una comune stella come il Sole?

«Le Ulx sono delle sorgenti di raggi X molto più luminose di quelle che osserviamo comunemente nella nostra e nelle altre galassie. Tipicamente, gli oggetti capaci di emettere forti segnali a raggi X sono buchi neri o stelle di neutroni, oggetti estremamente piccoli e massicci, che stanno “mangiando” una stella compagna. Per la stragrande maggioranza di questi oggetti, sembra funzionare bene un limite classico di luminosità conosciuto come il limite di Eddington. Tuttavia, per alcuni motivi ancora da comprendere a fondo, le Ulx riescono ad essere molto più luminose di questo limite».

Matteo Bachetti in veste di concorrente del talent show scientifico “FameLab – La scienza in 3 minuti”

Dove possiamo trovarle nell’Universo?

«Le Ulx sono relativamente poche, massimo una decina nelle galassie più “prolifiche”. Nessuna delle più luminose è nella nostra galassia, e quelle più interessanti sono a qualche milione di parsec, circa una decina di milioni di anni luce. Negli ultimi anni, diverse di queste sorgenti sono state identificate come stelle di neutroni, più piccole dei buchi neri e per le quali questa luminosità è ancora meno facile da spiegare».

Cosa potete dire sul campo magnetico di questi oggetti? Quanto è più intenso rispetto a quello di un elettromagnete qui sulla Terra?

«L’oggetto che in questa sorgente si sta “cibando” è molto probabilmente una stella di neutroni. Queste stelle sono note per avere campi magnetici giganteschi. Sulla Terra, i più forti elettromagneti producono un campo magnetico di circa 1000 Tesla e solo per brevi impulsi. La superficie di una stella di neutroni ha tipicamente un campo magnetico centomila volte più alto. Quella che abbiamo osservato noi sembra avere un campo magnetico cento milioni di volte più alto, o 100 miliardi di Tesla (che nell’articolo misuriamo come un milione di miliardi di Gauss, un’altra unità di misura più comunemente usata in astronomia)».

Come avete fatto a determinarlo? 

«In questo caso, abbiamo rivelato una “linea di assorbimento” nello spettro a raggi X della sorgente: praticamente, si nota che ad una data energia i raggi X che riceviamo dalla sorgente sono di molto inferiori a quanto atteso. Questo si può verificare per diverse ragioni, ma l’ipotesi che sembra meglio spiegare questo particolare caso è che stiamo osservando uno “scattering da risonanza di ciclotrone”, un fenomeno che si produce quando delle particelle cariche si muovono in circolo attorno a linee di campo magnetico. Tale fenomeno può produrre righe in assorbimento simili a quelle osservate. In questo caso, sembra che le particelle coinvolte siano dei protoni, e data l’energia misurata questo implicherebbe che questa Ulx appartenga alla classe delle stelle di neutroni col campo magnetico più alto, note come magnetar».

Quali risvolti porta la vostra ricerca nello studio di tali sorgenti?

«Il limite di Eddington di cui parlavo prima dipende dal fatto che la luce stessa emessa da questi oggetti esercita una pressione sulla materia che cade sulla stella, spazzandola via e “frenando” il processo che aumenterebbe ulteriormente la luminosità. Per le Ulx ciò non avviene. Uno dei modi che sono stati proposti per spiegare la luminosità spaventosa delle Ulx è che ci sia un campo magnetico molto forte che rende più difficile alla radiazione interagire con la materia, e quindi bloccarne la caduta. Il nostro lavoro diciamo che conferma questo scenario, dato che il campo magnetico che misuriamo è effettivamente capace di svolgere questo ruolo»·


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