PUR SENZA STELLA POTREBBERO OSPITARE LA VITA

Pianeti nomadi, la Via Lattea ne è piena

Uno studio non ancora pubblicato, realizzato al KIPAC usando la tecnica del microlensing, stima che i pianeti orfani della stella madre possano essere, nella Via Lattea, fino a 100mila per ogni stella di sequenza principale. Fra gli autori, l’italiano Matteo Barnabè, che abbiamo intervistato.

     24/02/2012

Rappresentazione artistica di un pianeta nomade delle dimensioni di Giove. Crediti: Wikimedia

Le stelle vi sembrano tante? Allora tenetevi stretti: i pianeti potrebbero essere centomila volte di più. Lo afferma uno studio del KIPAC, il Kavli Institute for Particle Astrophysics and Cosmology – un laboratorio indipendente della Stanford University, ospitato presso lo SLAC National Accelerator Laboratory. Una stima, si badi bene, che non implica improbabili sistemi solari con migliaia e migliaia di mondi in orbita l’uno attorno all’altro, un incubo gravitazionale che solo a immaginarlo darebbe le vertigini. Al contrario, i protagonisti di quest’esplosione demografica non orbitano: piuttosto, vagabondano. Sarebbero infatti pianeti orfani della stella madre, milioni di miliardi di mondi – alcuni più piccoli di Plutone, altri più grandi di Giove – che errano in solitudine nello spazio interstellare.

A rendere ancor più suggestiva l’ipotesi della ricerca, sottoposta per la pubblicazione a Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, la possibilità che alcuni di questi mondi, pur senza una stella che li riscaldi, possano comunque ospitare la vita. «Se ce ne sono di grandi al punto da essere circondati da un’atmosfera abbastanza spessa, potrebbero aver intrappolato calore a sufficienza per consentire l’esistenza di forme di vita batterica», spiega infatti Louis Strigari, primo autore dello studio. Calore generato internamente, per esempio attraverso il decadimento radioattivo e l’attività tettonica.

Ma come si è potuti giungere a una stima così elevata, quando fino a oggi gli scienziati ritenevano che di pianeti nomadi potessero essercene, in media, due soltanto per ogni stella di sequenza principale? Lo abbiamo chiesto al secondo autore dello studio, Matteo Barnabè, astronomo italiano attualmente in forze alla Stanford University.

«La nostra stima del numero dei pianeti nomadi presenti nella nostra galassia è stata calcolata sulla base della recente scoperta, mediante una tecnica chiamata microlensing, di circa 10 di questi oggetti in una piccola regione nel bulge galattico, cioè nei pressi del centro della nostra galassia. Abbiamo tratto le conseguenze di questa scoperta per quanto riguarda la popolazione globale dei pianeti nomadi, mostrando che potrebbero esistere, per ogni normale stella di main sequence, fino a 700 nomadi con la massa della Terra e fino a 100.000 nomadi con la massa di Plutone».

Una cifra da capogiro, almeno per noi profani, pensando ai miliardi di stelle presenti nella Via Lattea. Qual è stata la vostra prima reazione, quando vi siete resi conto dell’enormità della vostra stima?

«Di fronte a questi numeri (che costituiscono un limite superiore) la nostra prima reazione è stata di sorpresa, seguita poi dall’entusiasmo quando abbiamo calcolato che questi numeri “astronomici” sono consistenti con quello che sappiamo sulla nostra galassia, e quindi questi valori sono plausibili. Anche per noi l’idea che ci siano così tanti pianeti che vagabondano negli spazi interstellari – infatti, in inglese, spesso vengono chiamati anche rogue planets, cioè “pianeti vagabondi” – è molto affascinante, e infatti abbiamo dedicato gran parte dell’articolo a spiegare come possiamo individuarli (mediante il microlensing, appunto) e determinare in modo molto più preciso quanti ce ne sono utilizzando strumenti astronomici che saranno disponibili nei prossimi anni, come per esempio  GAIA, LSST e WFIRST».

Matteo Barnabè

Lasciando ora da parte i pianeti, ma rimanendo pur sempre sul nomadismo, questa volta intellettuale: lei come ci è arrivato, a Stanford?

«Il mio viaggio dall’Italia agli Stati Uniti è iniziato a Bologna. Mi sono laureato in astronomia nel 2004 con il professor Luca Ciotti, poi ho lasciato l’Italia per conseguire il dottorato a Groningen, in Olanda. Dopo il dottorato, nel 2009, ho proseguito il mio lavoro di ricerca come postdoc negli Stati Uniti, in California. Ho lavorato un paio mesi a Santa Barbara, e ora mi sono spostato qui a Stanford, dove ho una fellowship di 3 anni».

Stanford è per noi l’università dove Steve Jobs ha tenuto, nel 2005, il suo discorso leggendario, “stay hungry, stay foolish”. Com’è viverci, lavorarci?

«Fare ricerca a Stanford e vivere qui a Palo Alto, nel cuore della Silicon Valley, è molto stimolante sia dal punto di vista scientifico e accademico, sia per l’ambiente circostante vivace ed estremamente dinamico. In quest’area, tra Palo Alto e Mountain View, l’interesse e l’entusiasmo per la scienza e la tecnologia sono generalizzati, e spesso anche le occasioni più inaspettate possono diventare terreno fertile per nuove idee».

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