RESPONSABILE LA RADIAZIONE DI GALASSIE VICINE

Buchi neri massicci, il segreto della supercrescita

I buchi neri supermassicci, con masse miliardi di volte quella del Sole, sono in grado di formarsi in poche centinaia di milioni di anni. La scoperta arriva da un team internazionale di ricercatori, che con una serie di simulazioni al computer ha dimostrato come la formazione di questi colossi sia influenzata dalla radiazione di galassie vicine

     13/03/2017

Il buco nero supermassiccio rappresentato a sinistra in questa immagine è in grado di crescere rapidamente, perché la radiazione molto intensa di una galassia vicina inibisce la formazione di nuove stelle nella sua galassia ospite. Crediti: John Wise, Georgia Tech

L’esistenza di buchi neri supermassicci nelle regioni più remote e giovani dell’Universo è una vera e propria sfida per l’astrofisica moderna. In teoria, un buco nero con una massa pari a miliardi di volte il Sole avrebbe bisogno di miliardi di anni per formarsi, ma un gran numero di oggetti simili sono stati scoperti quando l’Universo era molto più giovane, ovvero quando aveva appena ottocento milioni di anni. Un nuovo studio, apparso sulla rivista Nature Astronomy, aggiunge nuovi indizi alla comprensione di come possano formarsi e crescere questi colossi.

Il team di ricercatori ha sfruttato delle simulazioni al computer per mostrare che un buco nero al centro di una galassia può crescere molto rapidamente. Il meccanismo in grado di innescare questa crescita molto veloce prevede che una galassia nelle vicinanze emetta radiazione sufficientemente intensa da inibire la formazione stellare. In questo modo si forma un buco nero centrale che si nutre del gas residuo, poi di polveri, stelle, e altri buchi neri, diventando supermassiccio in poco tempo.

«Il collasso della galassia e la formazione di un buco nero milioni di volte il Sole richiede tempi dell’ordine di centomila anni: un battito di ciglia, dal punto di vista dell’Universo», spiega Zoltan Haiman della Columbia University, coautore dello studio. «Poche centinaia di milioni di anni più tardi, il buco nero raggiunge masse pari a miliardi di volte quella del Sole. Questi tempi sono molto più rapidi di quanto ci aspettavamo».

Nell’Universo primordiale, le stelle e le galassie si sono formate a partire dal plasma di idrogeno ed elio. In questo tipo di ambiente la crescita dei buchi neri è inibita dalla formazione di stelle, che trovandosi in regioni abbastanza lontane riescono a sfuggire alla sua attrazione gravitazionale. Negli anni gli astronomi hanno proposto numerose alternative per spiegare come i buchi neri supermassicci possano aver superato questo ostacolo. Haiman e i suoi colleghi, in uno studio del 2008, hanno ipotizzato che le radiazioni provenienti da una galassia vicina potessero separare l’idrogeno molecolare in singoli atomi, causando il collasso del buco nero centrale anziché la formazione di nuove stelle.

In uno studio successivo, condotto da Eli Visbal, all’epoca ricercatore postdoc della Columbia, gli scienziati hanno calcolato che, per poter ottenere l’effetto voluto, la galassia vicina doveva contenere almeno cento milioni di volte la massa del Sole. Sebbene si tratti di oggetti rari, esistono galassie di queste dimensioni nell’Universo primordiale, in numero sufficiente a spiegare i buchi neri supermassicci osservati fino ad ora.

John Regan, primo autore dello studio

Lo studio pubblicato su Nature Astronomy, guidato da John Regan della Dublin City University, ha sviluppato un modello per questo processo. Cercando di stimare quanto la radiazione di una galassia vicina potesse influenzare la formazione di un buco nero in un’altra, i ricercatori hanno scoperto che tale galassia potrebbe essere più piccola e più vicina di quanto stimato in precedenza.

Restano da testare molti altri modelli che spiegano come questi giganti si siano formati ed evoluti. Uno di questi prevede che i buchi neri centrali nascano dalla fusioni di milioni di buchi neri di taglia inferiore e stelle. «Comprendere come si formano i buchi neri supermassicci ci aiuta a capire come evolvono le galassie, compresa la nostra, e in ultima analisi ci dice qualcosa di più sulla storia dell’Universo in cui viviamo», conclude Regan.

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