LASCEREBBERO UN’IMPRONTA A DISCO NELLA CMB

Universi a bolle, è pronto il test

Non uno, bensì tanti, innumerevoli universi. Ciascuno nella propria bolla spazio-temporale, generati da un’inflazione eterna. È l’idea del “multiverso”. Ora un algoritmo potrebbe trovarne tracce nella radiazione di fondo cosmico. Mandolesi (INAF): «Se c'è un posto dove cercarne il segno, è proprio lì».

     04/08/2011

In alto, le quattro feature discoidali individuate dall’algoritmo di Feeney et al. nella mappa di WMAP: la #2 in arancio, la #3 in rosso, la #7 in blu e la #10 in verde. Nei quattro riquadri sottostanti, le feature sovraimpresse ai dati in temperatura (W-band). In basso, per ogni feature, le curve di livello (in sigma) della corrispondente “needlet significance” (uno strumento matematico utilizzato nell’individuazione di pattern all’interno delle mappe)

La chiamano “inflazione eterna”. Un’etichetta che mette i brividi, in quest’estate di turbolenze sui mercati. Ma per fortuna con l’economia non c’entra: è alla fase d’inflazione cosmica immediatamente successiva al Big Bang che si riferiscono i cosmologi. E le conseguenze d’una sua durata illimitata non hanno alcunché di catastrofico, anzi: ci fanno sognare. Perché contemplano l’esistenza di più universi oltre al nostro, ciascuno contenuto all’interno della propria “bolla” spazio-temporale. È la teoria del cosiddetto “multiverso”, fino a oggi confinata nell’ambito delle ipotesi non verificabili e delle speculazioni matematiche. Ora, per la prima volta, un team di fisici e cosmologi di Londra potrebbe aver messo a punto un metodo efficiente per saggiarne la validità sui dati osservati.

Il test, illustrato in due articoli in stampa su Physical Review Letters e Physical Review D, consentirebbe di cercare indizi dell’esistenza di questi universi alternativi direttamente nelle mappe della radiazione fossile: quella luce che pervade l’Universo dai suoi albori, e che è stata – e continua a essere – raccolta in L2 (il punto lagrangiano secondo) dai sensori a microonde dei telescopi spaziali WMAP e Planck. L’assunto di partenza del metodo messo a punto dai cosmologi londinesi è che, all’epoca dell’inflazione, gli “universi della bolla accanto” possano essere entrati in collisione con il nostro. Collisioni delle quali potrebbe esser rimasta qualche traccia proprio nella CMB, il fondo cosmico a microonde. Ma che tipo di traccia? Supponendo che le bolle abbiano una forma almeno vagamente sferica, come palloncini gonfiabili, l’impronta d’un contatto – o d’una fugace sovrapposizione parziale – avrà la forma d’un disco. Ed è dunque proprio a caccia di dischi che Stephen Feeney, studente di dottorato presso UCL (University College London) e primo autore dei due paper, ha sguinzagliato il suo potente algoritmo sulla mappa ottenuta da WMAP in sette anni d’osservazioni.

Risultato di questa prima incursione: quattro feature, quattro zone della mappa potenzialmente adatte a candidarsi come impronte di universi a bolla. Un numero da prendere quanto mai con le molle, come sottolineano gli stessi ricercatori, visto che si tratta di risultati molto preliminari, non ancora significativi e certo non conclusivi: statisticamente troppo traballanti per poter affermare, o escludere, che quelle feature siano le “ammaccature” d’un incidente avvenuto all’alba del tempo fra la nostra e un’altra bolla. Tuttavia, è innegabile che si sia aperta una pista promettente per portare avanti le indagini, tanto più che i dati di WMAP non rappresentano il solo terreno da battere, e nemmeno il migliore in assoluto: le mappe in arrivo dal satellite Planck dall’Agenzia Spaziale Europea potrebbero avere tutte le carte in regola per dare una svolta alla ricerca.

«L’idea che esistano altri Universi oltre al nostro è affascinante, e ha trovato illustri sostenitori attraverso i secoli. In una visione scientifica del mondo, il limite storico di questo approccio è sempre stata la mancanza di predizioni osservabili che permettano di accreditare o falsificare l’esistenza di questi altri mondi. Negli ultimi tempi, si sta capendo che questo limite potrebbe essere superato guardando non “qui ed ora” ma all’Universo primordiale», spiega Reno Mandolesi, associato INAF e responsabile dello strumento LFI a bordo di Planck. «È infatti possibile che altri universi siano entrati in contatto col nostro in tempi molto remoti, quando la struttura dell’Universo e, forse, la fisica che lo governava, erano differenti da quelle che conosciamo. La radiazione cosmica di fondo, o CMB, è la luce più antica che si possa osservare: se c’è un posto dove cercare il segno di questi remoti incontri è proprio lì. Il lavoro di Feeney e collaboratori non è certo primo in questo ambito. Si distingue però dagli altri per una metodica di indagine molto rigorosa. Sebbene non vi sia, nel lavoro, alcuna osservazione significativa di altre “bolle” Universo disgiunte dalla nostra, gli autori hanno ragione nell’indicare che il motivo di questa risultato negativo potrebbe benissimo stare nella limitatezza dei dati attualmente disponibili. Le conclusioni potrebbero dunque cambiare quando verranno rilasciati i dati del satellite Planck. Planck è stato costruito anche per trovare, nell’Universo primordiale, evidenze di come la fisica fondamentale sia più complessa di quello che crediamo. La teoria dei multiversi è una delle possibilità più affascinanti, ma ve ne sono molte altre. Aspettiamo un altro anno e mezzo, e sapremo».

Per saperne di più: