TRASCRIZIONE DELLA QUINTA E ULTIMA PUNTATA DI “MACCHINE DEL TEMPO”

Ai confini del cosmo: dal Big bang all’astrobiologia

Dopo aver viaggiato indietro nel tempo e nello spazio fino alla radiazione cosmica di fondo, “fossile” che custodisce i segreti del Big bang da cui tutto ha avuto origine, è il momento di guardare al futuro con gli occhi dell’astrobiologia, disciplina profondamente interdisciplinare, per affrontare una delle domande più antiche: siamo soli nell’universo? Con interviste a Maura Sandri e John Robert Brucato dell'Inaf

     05/12/2025

Quella che segue è la trascrizione del quinto e ultimo episodio di Macchine del tempo, un podcast ispirato alla prima grande mostra dell’Istituto nazionale di astrofisica, che parte dalla Terra e incrocia pianeti, stelle e galassie, fino a sfiorare l’origine del cosmo. Ideato, realizzato e condotto da Lucia Bucciarelli, quest’episodio – pubblicato per la prima volta il 15 maggio 2025  – conclude il viaggio a bordo delle macchine del tempo dell’astrofisica, spingendosi fino all’universo primordiale attraverso le informazioni “fossili” custodite nella radiazione cosmica di fondo. E dopo aver sfiorato l’inizio di tutto, il Big bang, con la consapevolezza di quanto sia unico e speciale il nostro pianeta, volge lo sguardo all’astrobiologia per interrogarsi sull’origine della vita nell’universo. Potete ascoltarlo su Apple Podcasts, su Spotify e su YouTube. Oppure direttamente da qui.


Cover del podcast Macchine del tempo. Crediti: Stephanie Forte/Inaf

[Inizio musica]

Lucia Bucciarelli
Londra, 1949.

L’astronomo britannico Fred Hoyle si presenta negli studi della Bbc per partecipare a un programma radiofonico dedicato alle meraviglie dell’universo. Con il suo tipico piglio deciso e il suo acuto spirito critico, Hoyle si avvicina al microfono ed espone la sua teoria dell’universo stazionario: un cosmo eterno, senza inizio né fine, in continua espansione, dove nuova materia viene creata costantemente per compensare il progressivo diradamento causato dall’espansione stessa. È nel tentativo di screditare l’ipotesi rivale – quella di un’origine esplosiva dell’universo – che Hoyle, con tono sarcastico, conia un nuovo nome per quella teoria: Big bang, ovvero “grande esplosione”.

Nelle sue intenzioni, l’espressione doveva ridicolizzare quella che riteneva essere un’idea assurda. Eppure, con grande ironia del destino, fu proprio quel termine a imporsi come etichetta ufficiale di una delle teorie cosmologiche più accreditate del ventesimo secolo. Quella sera di marzo, la voce di Hoyle riecheggiava nitida nelle radio degli ascoltatori inglesi. Nessuno, compreso lui, poteva immaginare che sarebbe passato alla storia per aver dato – suo malgrado – un nome alla teoria che che avrebbe cambiato per sempre la nostra visione dell’universo.

[Fine musica]

Lucia Bucciarelli
Io sono Lucia Bucciarelli e questo è “Macchine del Tempo”, un podcast ispirato alla prima grande mostra dell’Istituto Nazionale di Astrofisica.

[Inizio musica]

Lucia Bucciarelli
In ogni episodio esploreremo le profondità del cielo in un viaggio che partendo dalla Terra e incrociando pianeti, stelle e galassie, arriverà a sfiorare i confini dell’Universo. Ma ricordate, i protagonisti di questo viaggio siete tutte e tutti voi. Il viaggio nell’Universo inizia da te.

[Fine musica]

Lucia Bucciarelli
Partiamo col dire che quando sentiamo parlare di Big bang spesso pensiamo a una gigantesca esplosione che avrebbe dato origine all’universo. In realtà, questa espressione non si riferisce a un’esplosione in senso letterale, né a un singolo momento. Il Big bang è il nome del modello scientifico che descrive l’origine e l’evoluzione dell’universo a partire dai suoi primissimi istanti fino ad oggi, passando attraverso tutte le sue fasi.

[Inizio musica]

Lucia Bucciarelli
Secondo questa teoria, l’universo è nato circa 13,8 miliardi di anni fa da uno stato estremamente caldo, denso e compatto, che possiamo immaginare come una sorta di “punto iniziale”. In questa fase primordiale, che prende il nome di Epoca di Planck, in una frazione infinitesimale di secondo iniziano a manifestarsi le quattro forze fondamentali della natura: la gravità, l’elettromagnetismo, e le forze nucleari forte e debole.

È durante la seconda fase, quella dell’inflazione, che l’universo, inizia ad espandersi: in pochissimi istanti, da una bolla di energia esso si espande di un miliardo di miliardi di miliardi di volte. A questo punto, l’universo è ancora caldissimo e in uno stato molto caotico, popolato da particelle elementari come quark, gluoni e fotoni che si scontrano continuamente tra loro in quello che possiamo definire un “brodo primordiale”.

Nel giro di pochi minuti, l’universo continua ad espandersi e a raffreddarsi. L’abbassamento di temperatura di circa un miliardo di gradi permette alle particelle di unirsi per formare i primi protoni e neutroni. Questi, a loro volta, si combinano per creare i primi nuclei atomici, soprattutto di idrogeno ed elio, in un processo noto come nucleosintesi primordiale.

Solo dopo centinaia di migliaia di anni l’universo diventa abbastanza freddo da permettere la formazione degli atomi. È in questo momento che i fotoni, cioè le particelle di luce, riescono finalmente a muoversi liberamente nello spazio, generando il primo bagliore primordiale. Nei milioni di anni successivi, grazie alla forza di gravità, la materia comincia ad aggregarsi formando le prime stelle, le galassie e, col tempo, l’enorme struttura dell’universo così come lo conosciamo oggi.

[Fine musica]

Lucia Bucciarelli
La teoria del Big bang è oggi ampiamente riconosciuta come il modello cosmologico di riferimento per spiegare l’origine e l’evoluzione dell’universo. Tuttavia, la sua affermazione è il risultato di una lunga e complessa storia che ebbe inizio all’inizio del XX secolo.

L’idea di un universo in espansione fu proposta per la prima volta negli anni Venti dal sacerdote e astronomo belga Georges Lemaître, il quale ipotizzò che l’universo avesse avuto origine da uno stato iniziale estremamente denso e compatto detto “atomo primordiale”.

Quasi nello stesso periodo, l’astronomo Edwin Hubble osservò che le galassie si stavano allontanando le une dalle altre: un’evidenza che suggeriva chiaramente che l’universo si stesse espandendo. Da questa osservazione nacque l’intuizione che, tornando indietro nel tempo, tutta la materia doveva trovarsi concentrata in un unico punto.

[Inizio musica]

Lucia Bucciarelli
Negli anni Quaranta, studiando tutt’altro, il fisico George Gamow e i suoi collaboratori Ralph Alpher e Robert Herman approfondirono questa ipotesi. In realtà, essi si interrogavano sull’origine degli elementi: misurando l’abbondanza dell’elio nell’universo odierno, infatti, non basterebbero tutte le stelle in tutta la storia dell’universo ad averlo prodotto. Ma se l’universo primordiale fosse stato sufficientemente caldo, sarebbe stato possibile produrne a sufficienza.

Fu così che elaborarono un’idea rivoluzionaria: se l’universo aveva davvero avuto un inizio caldissimo, allora doveva esistere una radiazione residua, una sorta di “eco fossile” di quell’evento primordiale. Nel 1948 i tre scienziati calcolarono che questa radiazione avrebbe dovuto essere ancora oggi presente in tutto l’universo, nella forma di un debole bagliore a microonde.

Per anni questa previsione rimase senza conferma, fino a quando nel 1964, Arno Penzias e Robert Wilson, due ingegneri dei Bell Labs, intercettarono per caso un debole segnale radio uniforme proveniente da tutte le direzioni dell’universo.

[Fine musica]

Lucia Bucciarelli
In un primo momento pensarono a un’interferenza di fondo, ma ben presto si resero conto che stavano osservando proprio la radiazione cosmica di fondo prevista da Gamow e colleghi: una luce antichissima, risalente a circa 380mila anni dopo il Big bang, quando l’universo si era raffreddato a sufficienza da permettere alla luce di liberarsi e iniziare il suo viaggio attraverso lo spazio. Questa scoperta epocale, che nel 1978 valse a Penzias e Wilson il Premio Nobel per la Fisica, rappresentò una conferma decisiva della teoria del Big bang, segnando il definitivo tramonto del modello alternativo dell’universo stazionario.

Ma ascoltiamone di più da Maura Sandri, ricercatrice dell’Istituto nazionale dei astrofisica, che ci parla della radiazione cosmica di fondo e degli strumenti che hanno permesso di studiarne le caratteristiche principali.

Maura Sandri
«La radiazione cosmica di fondo è la prima luce emessa nell’universo, circa 380mila anni dopo l’istante in cui l’universo ha avuto inizio. È la radiazione più lontana che possiamo osservare. Viene chiamata anche radiazione fossile o “eco” del Big bang, proprio perché è antichissima, la più antica, e porta con sé le tracce di come tutto ha avuto inizio. La possiamo definire “fotografia” dell’universo primordiale, anche se non è una fotografia nel senso convenzionale del termine, perché rappresenta un’istantanea in cui è fissata la distribuzione della materia 380mila anni dopo il Big bang.

I punti di colore diverso rappresentano punti in cui la temperatura era diversa. Leggermente diversa: stiamo parlando di differenze dell’ordine di qualche milionesimo di grado e a queste piccolissime differenze di temperatura corrispondono regioni in cui la materia era più o meno densa. Si chiamano anisotropie della radiazione cosmica di fondo, che sta a significare che l’universo non aveva e non ha la stessa quantità di materia ovunque, bensì ci sono delle zone in cui è più densa e altre in cui è meno densa. Queste anisotropie, cioè queste differenze nella temperatura e quindi nella densità della materia, sono fondamentali perché è da queste differenze nella densità della materia che si sono formate le strutture che vediamo oggi, quindi le galassie, gli ammassi di galassie, ma anche più in piccolo stelle e ammassi di stelle.

Il primo satellite della Nasa che è riuscito a rilevare le anisotropie della radiazione cosmica di fondo è stato Cobe, lanciato nel 1989. Io mi sono laureata dieci anni dopo e quando ho iniziato a lavorare al satellite Plank dell’Esa, nel 2000, c’era un gran fermento. Già l’esperimento Boomerang da pallone aveva fornito immagini a più alta definizione delle anisotropie della temperatura del fondo cosmico. Poi fu la volta del satellite Wmap della Nasa lanciato nel 2001 che ha migliorato ulteriormente la precisione delle misure, determinando l’età dell’universo in 13,73 miliardi di anni e confermando la composizione dell’universo: circa 4,6% di materia barionica, 23% di materia oscura e 72% di energia oscura. Queste erano le percentuali trovate da Wmap. Desi ha osservato per la prima volta la polarizzazione del fondo cosmico, fornendo informazioni essenziali sulla dinamica dell’universo nelle prime fasi della sua evoluzione e supportando quella che è chiamata teoria dell’inflazione. Da terra ci sono stati anche Beast, Polarbear, Qubic.

Tutti questi esperimenti sul fondo cosmico a microonde hanno compiuto progressi significativi nel corso degli anni, passando dalla semplice rilevazione della radiazione alla mappatura dettagliata delle sue anisotropie e polarizzazione, fornendo informazioni cruciali sulla struttura dell’universo, sulla composizione e l’evoluzione».

Lucia Bucciarelli
Il fondo cosmico rappresenta una miniera d’oro per i cosmologi. La sua scoperta, annunciata nel 1965, ha rappresentato una prova osservativa diretta che l’universo ha avuto un’origine calda e densa. In questo senso possiamo dire che esso, insieme all’espansione dell’universo scoperta da Hubble e all’abbondanza di elementi leggeri, rappresenta uno dei tre pilastri osservativi del Big bang. Grazie al fondo cosmico a microonde, inoltre, possiamo misurare con altissima precisione l’età dell’universo, la velocità con cui si sta espandendo, la sua densità e la sua curvatura, determinando quindi anche la sua forma.

Maura Sandri
«La forma geometrica dell’universo deriva dalla relazione tra la quantità di materia e di energia presenti e la velocità di espansione. Se prendiamo la densità di materia e di energia dell’universo e la dividiamo per la densità di materia e di energia che sarebbero necessarie ad arrestare l’espansione dell’universo, conosciuta come densità critica, otteniamo quello che viene definito come Omega. Poiché sia la massa che l’energia causano la curvatura dello spaziotempo, omega indica la forma del cosmo.

Se Omega è minore di 1, l’universo si espanderà per sempre in ogni direzione, assumendo l’aspetto di una sella in cui rette che inizialmente sono parallele divergono. Se Omega è uguale a 1, l’universo si espanderà per sempre, ma in modo diverso: la sua forma è piatta e le rette parallele seguirebbero tutte le leggi matematiche che abbiamo imparato a scuola. Se Omega è maggiore di 1, le rette parallele convergono, l’universo è curvo su se stesso e in futuro collasserà di nuovo in quello che viene chiamato big crunch, una specie di big bang al contrario.

Come dicevo prima, dallo spettro delle anisotropie del fondo cosmico a microonde si possono derivare i parametri cosmologici, quindi Omega. Dai dati del satellite Planck, che sono a oggi i più precisi, Omega è molto, molto vicino a uno, quindi l’universo sembra proprio essere piatto, a meno di errori piccolissimi».

Lucia Bucciarelli
La radiazione cosmica di fondo ci ha già rivelato informazioni cruciali sulla struttura, la composizione e l’evoluzione dell’universo. Ma quali sono oggi le sfide principali che ancora ci attendono nello studio del fondo cosmico?

Maura Sandri
«Eh, dal mio punto di vista la sfida è sempre quella, lo era nel 2000 e lo è anche oggi. Riuscire a fare una misura accurata. Fare cosmologia di precisione è difficile, fare cosmologia in modo accurato lo è ancora di più. Passa il tempo, migliorano gli strumenti e le tecnologie, ma rimane il fatto che è inutile produrre misure con errori statistici piccolissimi se poi nella misura si annidano nascosti degli errori sistematici più grossi.

Per evitare questi errori è fondamentale conoscere lo strumento, la macchina del tempo con cui si effettua la misura e conoscere le emissioni astrofisiche che potrebbero alterare la misura in vari modi, soprattutto attraverso le imperfezioni dello strumento, alcune delle quali sono, sì, contenibili, per carità, ma inevitabili. Questa è la sfida principale, secondo me.

Occorre considerare aspetti che un tempo non è stato possibile considerare opportunamente per via dell’enorme tempo di calcolo che avrebbe comportato farlo. Ora si può fare tenendo conto dell’esperienza acquisita con le grandi missioni come Planck. Detto questo, non sono sicura che da questa sfida ne usciremo vittoriosi. Spero solo che riusciremo ad avere la consapevolezza dei limiti, delle misure che andremo a fare per attribuirne correttamente l’incertezza».

Lucia Bucciarelli
La radiazione cosmica di fondo rappresenta dunque una sorta di fotografia primordiale, una traccia fossile che ci restituisce le condizioni dell’universo appena nato. Ma oltre ad osservarla, oggi siamo anche in grado di ascoltarla. Nel 2001, infatti, il fisico statunitense John Cramer ha compiuto un affascinante esperimento di sonificazione, trasformando i dati di questa radiazione in una simulazione sonora dei primi 760mila anni dopo il Big bang.

Utilizzando le minuscole fluttuazioni registrate nella radiazione fossile – le stesse che raccontano la nascita delle strutture cosmiche – Cramer ha accelerato il tempo di un fattore di cento miliardi, rendendo udibile all’orecchio umano ciò che altrimenti rimarrebbe irrimediabilmente silenzioso: un rombo profondo e crescente, che sembra contenere l’eco stessa dell’universo in formazione.

[Sonificazione della radiazione cosmica di fondo]

Lucia Bucciarelli
Questa straordinaria traduzione sonora non rappresenta solo un efficace strumento divulgativo, ma anche un modo profondamente evocativo per avvicinarci a un’epoca lontanissima. Un ponte sensoriale tra il presente e le origini del tempo, che ci permette – almeno per un istante – di ascoltare il Big bang.

[Inizio musica]

Lucia Bucciarelli
Dopo aver viaggiato indietro nel tempo e nello spazio, è ora il momento di volgere lo sguardo al futuro per chiederci che cosa ci riserva ancora l’astrofisica. Una delle frontiere più affascinanti da questo punto di vista è quella dell’astrobiologia, una disciplina profondamente interdisciplinare che unisce astronomia, biologia e geochimica per affrontare una delle domande più antiche e universali: siamo soli nell’universo? Ce ne parla John Brucato, ricercatore dell’Istituto nazionale di astrofisica.

[Fine musica]

John Robert Brucato
«L’astrobiologia si occupa della ricerca di segni di vita, sia nel nostro Sistema solare che anche in pianeti che orbitano attorno ad altre stelle. Ma si occupa anche dell’origine della vita sul pianeta Terra o quali sono i limiti della vita sul nostro pianeta, quindi dai ghiacci dell’Antartide, dei fondali oceanici o i deserti più aridi, e anche del futuro della vita sul nostro pianeta.

Quando gli astrobiologi cercano la vita nello spazio, chiaramente ehm partono da alcune assunzioni. Non tutti gli ambienti sono ideali perché la vita si possa formare e possa essere sostenuta, quindi bisogna fare delle considerazioni. La prima è avere acqua liquida, sia adesso oppure in passato. E un’altra è la quantità di materia organica che è presente, quali sono le fonti di questa materia organica, se sono locali oppure se provengono dall’esterno.

Per esempio, gli asteroidi ricchi di carbonio quando cascano su una superficie planetaria, così come è avvenuto sul nostro pianeta o avviene e ancora oggi in altri luoghi del nostro Sistema solare, porta con sé una dotazione di materia organica che è il residuo di quella che era presente quando il nostro Sistema solare si è formato e che ha avuto delle trasformazioni durante la storia del nostro Sistema solare, arricchendosi di materia organica complessa. Questa materia organica, una volta che giunge sulla superficie di un pianeta, può trovare le condizioni ideali per dare origine alla vita. Quindi la fonte di carbonio è un altro elemento essenziale nella ricerca della vita nello spazio.

E poi non bisogna trascurare la fonte di energia, qual è l’energia necessaria perché un sistema complesso come quello chimico possa dare luogo proprio alla formazione di strutture organizzate, che possano poi evolvere verso qualche forma di vita. E le fonti di energia possono essere la luce solare, possono essere delle fonti di tipo chimico, come i camini idrotermali che sono stati trovati nei fondali oceanici terrestri e sono delle vere e proprie fucine chimiche entro le quali è possibile che delle reazioni avvengano anche in ambienti completamente bui e dove le temperature sono anche abbastanza contenute, ma attorno, appunto, a questi camini si possono instaurare condizioni di temperatura e di ossidoriduzione tali da poter mantenere delle reazioni chimiche. Anche lo stesso decadimento nucleare, in qualche maniera, può favorire il rilascio di energia all’interno della materia che può essere utilizzata in qualche modo per la sopravvivenza di alcuni organismi.

Quindi questi sono un po’ gli ingredienti che, piano piano, attraverso le osservazioni che vengono condotte dai telescopi e dalle missioni spaziali, si cerca di comprendere quindi quale è la complessità e la ricchezza degli ambienti che possono, in qualche modo, essere in grado di sostenere la vita in qualche forma, sia batterica che anche evoluta».

Lucia Bucciarelli
Oggi, attraverso i dati che ci giungono dai telescopi e dalle missioni spaziali, abbiamo un quadro sempre più completo e complesso di quelli che sono gli ambienti che si possono trovare su pianeti extrasolari o anche sui pianeti del nostro sistema. Ma quali sono i risultati più promettenti emersi negli ultimi anni?

John Robert Brucato
«Oggi sappiamo, per quanto riguarda il nostro vicino di casa, che è Marte, che in passato ha avuto una storia molto simile a quella della Terra, quindi, nel momento in cui si è formato, Marte aveva degli oceani, c’era l’acqua liquida, dei laghi, dei fiumi e aveva un’atmosfera spessa, probabilmente anche un campo magnetico che proteggeva dalle radiazioni solari. Quindi diciamo che ha avuto le stesse condizioni che si sono trovate sul nostro pianeta Terra, quindi è immaginabile, auspicabile che la vita si possa, possa essersi formata anche anche sul pianeta Marte.

Oggi le condizioni marziane sono molto diverse da quelle originarie, quindi ho la vita ha cercato delle nicchie dove poter ancora sopravvivere oppure è completamente estinta. Su altri pianeti, per esempio, possiamo immaginare che questi si trovino alla giusta distanza da una stella e quindi in condizioni tale che tali che la temperatura non sia estremamente calda o estremamente fredda in maniera tale da poter mantenere l’acqua liquida sulla propria superficie. Questo è un prerequisito perché la vita possa possa esistere anche su pianeti extrasolari.

Ci sono quindi evidenze che crescono giorno per giorno grazie ai grandi telescopi che sono presenti e che verranno resi disponibili nei prossimi anni o le missioni spaziali che possono andare sulla superficie dei pianeti, come Marte o appunto le lune del ghiacciate del nostro Sistema solare, e analizzare il materiale che si trova proprio sulla superficie o nel sottosuolo.

Ad esempio, oggi abbiamo la missione Mars 2020 della Nasa che sta raccogliendo dei campioni all’interno di questo cratere che si chiama Jezero, che sappiamo un tempo e essere stato invaso dall’acqua, quindi era un bacino, era un lago, di fatto si vede l’immissario, il fiume, l’emissario, e in questo luogo, noi sappiamo appunto che era presente l’acqua, quindi c’erano le condizioni ideali perché la vita si potesse formare. I campioni che il rover Perseverance sta raccogliendo, un giorno dovranno essere riportati a terra, quindi una cosiddetta missione di sample return, e analizzati nei laboratori di tutto il mondo con le tecniche più sofisticate, proprio con lo scopo di individuare segni di una vita presente o passata, che era attiva su Marte.

La prossima missione sarà una missione europea, sarà la missione Exomars con il rover Rosalind Franklin, che è dotato di un trapano che riuscirà a perforare addirittura fino a due metri di profondità, prelevare dei campioni e analizzarli in una all’interno del rover stesso, dove è presente un laboratorio sofisticato con diversi strumenti. Anche in questo caso, la missione Exomars cercherà di fornirci le informazioni necessarie per capire se la vita, magari, appunto, in profondità ha trovato questi ambienti ideali dove poter sopravvivere».

Lucia Bucciarelli
Oltre alle difficoltà operative, l’astrobiologia presenta anche numerose sfide epistemologiche dovute alla necessità di coordinare approcci e metodologie provenienti da ambiti così diversi tra loro.

John Robert Brucato
«L’astrobiologia per sua natura è altamente interdisciplinare, bisogna combinare insieme conoscenze diverse che provengono da ambiti diversi come la geologia, la chimica, la biologia, la planetologia, l’astrofisica. La prima sfida che si incontra quando ci si siede attorno a un tavolo è il linguaggio.

La lingua è diversa nei vari ambiti disciplinari, quindi riuscire a trovare una lingua comune che sia comprensibile a tutti non è facile, e quindi è una delle prime le prime sfide da da superare. Pian pianino, negli anni, grazie attraverso appunto congressi, incontri specifici, si è cercato di superare questa questa prima barriera. Cercare la vita, chiaramente, nello spazio richiede conoscenze che vengono dalla scienza, dalla tecnologia, ma anche dalla filosofia e dobbiamo cercare di immaginare quello che stiamo cercando. Quindi il primo punto fondamentale è cercare di dare una definizione nella vita.

Se oggi noi guardiamo a quelle che sono le definizioni che sono state date da centinaia di scienziati, queste sono decine e decine, cioè non ce n’è una, definizione, che va bene per tutti. Questo significa che noi probabilmente la vita non l’abbiamo ancora compresa completamente se non riusciamo a definirla. E se non riusciamo a definirla, come la possiamo cercare Sono ovviamente dei temi molto affascinanti e aperti, ai quali tanti, tanti colleghi si cimentano, appunto, per dare una visione, una soluzione.

Tra l’altro, una cosa importante è che noi, a differenza degli altri ambiti disciplinari, come per esempio l’astrofisica, che mette insieme la fisica con l’astronomia, perché si è capito che la fisica che conoscevamo nei laboratori terrestri è la stessa, valida in tutto l’universo, così come l’astrochimica, i principi di chimica valgono ovunque. Con la biologia l’unico esempio che abbiamo di vita è quello terrestre, quindi noi non sappiamo se la biologia è universale, cioè non sappiamo se le leggi della biologia, così come le conosciamo sulla Terra, si possono applicare ovunque in qualsiasi ambiente spaziale. Quindi questo, diciamo, è un limite.

L’astrobiologia ha un unico esempio, che è quello della vita terrestre, quindi noi stiamo cercando una vita simile a quella terrestre. Questo è un prerequisito, non possiamo fare altrimenti. In realtà, forse, dovremmo cercare una vita anche diversa, una vita così come non la conosciamo, perché probabilmente i meccanismi biochimici in altri ambienti, in altri pianeti, possono essere diversi, si possono, possono essere state scelte delle strade diverse per dare origine a forme di vita.

Sono temi ovviamente ai quali ancora oggi non abbiamo una risposta, però ecco, è interessante poter affrontare questa sfida, e questa sfida si può vincere solo attraverso lo sforzo comune di ricercatori che appunto provengono da ambiti diversi, prospettive diverse, punti di vista diversi, ci possono dare una visione sempre più chiara di quelli che sono i meccanismi con cui la vita si è formata sul nostro pianeta, e probabilmente si è formata anche altrove nell’universo».

[Inizio musica]

Lucia Bucciarelli
Se da un lato l’astrobiologia è impegnata nella ricerca di tracce di vita oltre i confini terrestri, dall’altro anche noi abbiamo iniziato a lasciare tracce del nostro passaggio nello spazio. Messaggi, segni, racconti: frammenti di umanità proiettati oltre il nostro pianeta, nella speranza che un giorno qualcuno – o qualcosa – possa trovarli.

Uno degli esempi più affascinanti è quello di Lunar Codex, un progetto ambizioso ideato dal fisico e collezionista d’arte canadese Samuel Peralta, che definisce questo programma come un “messaggio in bottiglia” destinato alle generazioni future. Un modo per ricordare che guerre, pandemie e crisi economiche non sono riuscite a spegnere la capacità umana di creare bellezza. Il cuore dell’iniziativa è infatti costituito da vere e proprie capsule del tempo, contenenti opere d’arte, poesie, scritti, musica e film realizzati da migliaia di artisti provenienti da ogni angolo del pianeta.

Tutti i contenuti selezionati sono stati incisi su supporti in nichel, progettati per conservare grandi quantità di dati in formato analogico, ma anche di resistere alle condizioni estreme dello spazio e della superficie lunare. Queste capsule saranno infatti  depositate sulla Luna nel corso di prossime missioni spaziali, tra cui quelle del programma Artemis, trasformando il nostro satellite in un archivio silenzioso e duraturo della creatività umana.

Ma le capsule del Lunar Codex non sono le prime testimonianze artistiche a raggiungere il nostro satellite. Già nel 1969, il modulo lunare della missione Apollo 12 trasportava una piccola piastrella in ceramica con disegni realizzati da vari artisti tra cui Andy Warhol. Due anni dopo, nel 1971, l’equipaggio dell’Apollo 15 lasciò sulla superficie lunare una scultura in alluminio alta nove centimetri, detta Fallen Astronaut, opera dell’artista belga Paul van Hoeydonck.

Rientra in questa categoria di progetti anche il Messaggio di Arecibo, ovvero un segnale radio trasmesso nello spazio il 16 novembre 1974 dal radiotelescopio di Arecibo, a Porto Rico, come tentativo simbolico di comunicare con eventuali civiltà extraterrestri. Composto da 1.679 bit, organizzati in modo da formare un’immagine grafica, il messaggio includeva informazioni fondamentali sulla specie umana: la struttura del Dna, una rappresentazione dell’essere umano, la nostra posizione nel Sistema solare, e i principi della matematica e della chimica alla base della vita terrestre. Non progettato per ottenere una risposta, il Messaggio di Arecibo rappresenta piuttosto un gesto di consapevolezza cosmica.

[Fine musica]

Lucia Bucciarelli
Infine, concludiamo citando le sonde Voyager I e II con cui, nel primo episodio, abbiamo iniziato il nostro viaggio. Lanciate nel 1977, esse sono oggi ormai oltre i confini del Sistema solare. Ebbene, oltre alla strumentazione necessaria per la loro missione, le sonde portano con loro anche il Voyager Golden Record, un disco d’oro audiovisivo concepito come ritratto simbolico dell’umanità.

Sulla copertina sono incise le istruzioni per la riproduzione, la posizione del Sole rispetto a 14 pulsar – ovvero stelle di neutroni usate come punti di riferimento cosmico – e una rappresentazione dell’atomo di idrogeno, l’elemento più semplice e diffuso nell’universo. Al suo interno, il disco custodisce immagini e suoni della Terra, saluti in 55 lingue diverse, rumori naturali come il fruscio del vento e il battito di un cuore umano, e una selezione musicale che va da Bach a Mozart, fino a Chuck Berry. Un gesto di audacia e poesia, lanciato nel silenzio cosmico con la speranza, forse ingenua ma profondamente umana, di raccontare chi siamo a chi ancora non conosciamo.

[Inizio musica]

Lucia Bucciarelli
E così giungiamo alla fine di questo viaggio, un percorso che ci ha portato a esplorare l’universo dalla sua origine con il Big bang fino alle tracce che stiamo lasciando nello spazio per comunicare la nostra presenza e la nostra storia. In un certo senso, la nostra è una testimonianza: ogni messaggio, ogni missione, è un atto di curiosità e speranza, un tentativo di lasciare una traccia della nostra esistenza e delle nostre aspirazioni. Siamo, forse, solo un piccolo frammento nella vastità del cosmo, ma la nostra sete di conoscenza, di connessione e di comprensione è qualcosa che ci unisce e ci spinge ad andare oltre.

Un ringraziamento speciale va a tutti coloro che, come i ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica, lavorano instancabilmente dietro le quinte per espandere i confini della nostra conoscenza, permettendoci di guardare oltre l’orizzonte. E a voi, ascoltatrici e ascoltatori, che con la vostra curiosità e il vostro interesse contribuirete a mantenere viva questa macchina scientifica, alimentando il desiderio di scoprire, di comprendere e di esplorare. Il futuro della scienza è anche nelle tue mani; il viaggio nell’universo, inizia da te.

[Fine musica]


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