RICREATE LE CONDIZIONI DI PRESSIONE E TEMPERATURA

Acqua dal magma: subnettuniani in laboratorio

Quando un pianeta in formazione si trova allo stato fuso ed è ricoperto da una spessa atmosfera di idrogeno ed elio, le reazioni sulla superficie fanno penetrare l’idrogeno nel magma innescando delle reazioni che formano acqua liquida. È il risultato di esperimenti condotti in laboratorio da Francesca Miozzi, prima autrice di un articolo pubblicato su Nature. L’abbiamo intervistata

     05/11/2025

Francesca Miozzi è una neo-nominata Marie Curie Global Fellow che lavora presso l’Eth di Zurigo e l’Università di Pavia. Francesca ha iniziato a occuparsi di esopianeti da una prospettiva mineralogica durante il suo dottorato all’Università della Sorbona, dove ha studiato la diversità mineralogica dei pianeti arricchiti in carbonio. Nel suo ultimo lavoro pubblicato su Nature, ha condotto esperimenti per riprodurre l’interazione tra atmosfera e magma ocean in pianeti Sub Nettuniani. Crediti: Francesca Miozzi

Serve una mano ferma, serve saper muovere degli aghi speciali su materiale grande la metà di un capello, usando particolari microscopi perché non si vede ad occhio nudo. Se ve lo state chiedendo, non è chirurgia di precisione, bensì la descrizione di un esperimento di geologia planetaria che serve a indagare le condizioni in cui si trovano i pianeti nei loro primi istanti di vita, e le particolari reazioni chimiche che ne determinano il destino e la composizione. Reazioni che possono, ad esempio, formare molta acqua liquida, come riportato in uno studio sui pianeti subnettuniani uscito la settimana scorsa su Nature. La prima autrice è Francesca Miozzi, geologa laureata in Italia, poi trasferita a Parigi, negli Stati Uniti e infine in Svizzera per seguire questi esperimenti particolarissimi che solo pochi laboratori al mondo eseguono. Media Inaf l’ha intervistata.

Miozzi, che tipo di esperimenti fate in laboratorio?

«Facciamo esperimenti di alta pressione e temperatura. L’obiettivo è riprodurre in laboratorio le condizioni a cui sono sottoposti i materiali quando sono all’interno dei pianeti. E questo vale sia per la Terra – ci sono tantissimi studi fatti su materiali e sistemi terrestri – sia per gli esopianeti. La cosa interessante è che estendere questi esperimenti agli esopianeti ha aperto nuovi campi d’indagine, come quelli che stiamo studiando e che riguardano l’idrogeno. Mi spiego meglio: ci sono degli esperimenti di laboratorio fatti in passato sull’idrogeno, ma tutti applicati a condizioni terrestri e a composizioni chimiche terrestri. Molto del nostro lavoro è capire come si comportano i materiali quando sottoposti a condizioni di pressione e temperatura elevate. Se cambiano la loro struttura, come cambiano le loro proprietà come ad esempio il volume, o se ci sono delle reazioni chimiche particolari, come nel nostro caso».

Si tratta di un settore un po’ di nicchia, immagino.

«Sì, infatti, e sarebbe bello che fosse meno una nicchia, secondo me. Tantissimo del lavoro che si fa adesso sui pianeti fuori dal Sistema solare ha bisogno di una conoscenza di base di geologia e di proprietà dei materiali. Sarebbe importante quindi che si creasse un legame sempre di più stretto tra l’astronomia e la geologia, in particolare con lo studio in laboratorio delle proprietà degli interni dei pianeti. Per ora, invece, siamo in pochi a muoverci nell’intersezione fra queste due discipline».

Quindi, se ho capito bene, ricreate le condizioni fisiche e atmosferiche delle prime fasi di vita dei pianeti. Pianeti come la Terra?

«Il nostro studio è applicato principalmente a pianeti subnettuniani, che costituiscono una delle popolazioni più grandi di pianeti scoperti fuori dal Sistema solare. Questi pianeti sono più massivi della Terra e quindi si pensa che abbiano potuto ritenere molto più a lungo uno spesso strato di atmosfera iniziale, composta principalmente da idrogeno ed elio. Si chiamano atmosfere primarie e nel caso dei subnettuniani si pensa che, essendo più massivi della Terra, e avendo quindi una gravità maggiore, siano riusciti a mantenerle più a lungo della Terra. Questo fa sì che il materiale fuso sottostante che costituisce il pianeta nelle fasi iniziali della sua vita resti fuso molto più a lungo, perché ha questo strato protettivo dell’atmosfera che trattiene il calore e dà tempo alle interazioni atmosfera-mantello fuso di avvenire».

Quali interazioni?

«Quello che sappiamo è che la formazione di un pianeta deriva dalla collisione di tanti piccoli planetesimi e che arriva un momento in cui il pianeta ha abbastanza energia da fondersi completamente e anche abbastanza massa da trattenere parte della nuvola molecolare in cui si sta formando. Questa nuvola è quella che forma l’atmosfera iniziale. A questo punto, la dimensione del pianeta e la dimensione dell’atmosfera che questo può trattenere determinano da un lato la connessione che permette di scambiare elementi chimici tra l’interno e l’atmosfera, e dall’altro la velocità di raffreddamento del pianeta stesso. In sostanza, finché il pianeta può rimanere caldo e finché c’è idrogeno disponibile nell’atmosfera, il processo può andare avanti».

Ovvero lo scambio di elementi fra atmosfera e mantello?

«Esatto. Ci sono due processi che, secondo i nostri risultati, avvengono quando l’atmosfera interagisce con quello in inglese si chiama magma ocean, l’oceano di lava che costituisce tutto il pianeta fuso. Nei pianeti subnettuniani, data la loro massa e lo spessore dell’atmosfera si pensa che ci fosse una pressione elevata sulla superficie di scambio, quindi all’interfaccia tra questa lava e l’atmosfera. Questo fa sì che una parte dell’idrogeno atmosferico venga sostanzialmente dissolto nel magma, e che un’altra parte, in contemporanea, reagisca chimicamente con esso, formando acqua. Questa reazione coinvolge principalmente alcuni componenti del magma, ad esempio l’ossido di ferro. Nella reazione con l’idrogeno, l’ossido di ferro perde l’ossigeno, che si lega all’idrogeno per formare acqua, e forma una fase a sé stante fatta principalmente di ferro».

E voi, cosa avete visto?

«Quello che noi vediamo è che, nel nostro caso, tutto l’ossido di ferro che era presente nel magma prima dell’esperimento ha reagito chimicamente con l’idrogeno presente formando una fase dominata dal ferro puro, e contemporaneamente producendo acqua».

Quindi, voi avete visto proprio questa reazione fra l’idrogeno e il ferro?

«Sì, noi abbiamo preso un campione che ha la stessa composizione chimica che avrebbe un magma molto primordiale, quindi un magma tipico delle prime fasi di formazione planetaria (nel nostro caso abbiamo preso come riferimento la Terra) e abbiamo caricato il campione in un gas ricco di idrogeno e poi l’abbiamo sottoposto a un range di condizioni di pressione e temperatura che includono quelle che ci si aspetta all’interfaccia fra magma e atmosfera nei subnettuniani. In particolare, abbiamo lavorato tra 16 e 60 gigapascal, cioè circa 150-600mila volte la pressione che c’è in superficie sulla Terra, diciamo. In contemporanea abbiamo usato dei laser per scaldare il campione a temperature che passano i 4000 gradi Celsius. E quello che noi abbiamo osservato è che nella parte di magma, quindi nella parte fusa del campione, si era dissolta una quantità molto superiore di idrogeno rispetto a quella che c’era nel campione all’inizio. E insieme a questo, abbiamo osservato nella struttura del campione segni della presenza di acqua liquida».

Nel senso che l’acqua non l’avete vista direttamente?

«Non proprio. Siccome questi campioni li abbiamo estratti dall’apparato che abbiamo usato per applicare la pressione, e l’acqua liquida probabilmente era nell’ordine dei nemmeno microlitri, è stato impossibile trattenerla. Quando si fanno degli esperimenti che coinvolgono acqua allo stato liquido con questo particolare apparato sperimentale è difficilissimo poi riuscire a trattenerla, ma siamo riusciti a vedere delle cavità all’interno dei campioni che indicano che durante i nostri esperimenti c’era probabilmente dell’acqua».

Che poi è evaporata?

«Probabilmente sì».

Ed era una cosa che vi aspettavate questa?

«Ci sono stati studi teorici in cui era stata postulata questa reazione fra l’ossido di ferro e l’idrogeno e si pensava che potesse formare acqua. E dei lavori sperimentali su sistemi molto semplificati che facevano vedere la reazione di un singolo minerale con ossigeno e l’idrogeno. Ma nessuno aveva mai fatto uno studio sperimentale su questa combinazione di processi, indagando cosa succede quando un sistema complesso, quindi una rappresentazione realistica della composizione chimica che avrebbe il magma del pianeta, reagisce con l’idrogeno. E, ad esempio, ci si aspettava che l’acqua che si forma da questa reazione poi venisse dissolta nel magma stesso, e non che sarebbe rimasta come acqua liquida. Invece noi siamo riusciti a isolare e osservare questi due processi: la dissoluzione dell’idrogeno nel magma e la formazione di acqua».

Questi processi potrebbero avvenire anche sulla Terra?

«Non è escluso che sia potuto succedere anche per la Terra, però si pensa che questa fase in cui il pianeta è fuso e contemporaneamente ha questa atmosfera superiore per la Terra non sia durata tantissimo, e quindi è difficile dire se questi processi abbiano avuto il tempo di avvenire. Chiaramente, se ci fossero delle evidenze che la Terra è rimasta fusa con un’atmosfera di idrogeno abbastanza a lungo, allora i nostri sarebbero risultati applicabili anche alla Terra. Non è proprio bianco o nero, però. L’altro aspetto da considerare è che poi la Terra, essendo meno massiva, comunque dovrebbe essere stata soggetta a interazioni diverse, proprio per la natura della sua massa, e avrebbe avuto meno atmosfera e quindi una pressione minore all’interfaccia».

Prima diceva che l’acqua si è formata nell’ordine dei microlitri, che sembra una quantità davvero piccola.

«Esatto. I nostri esperimenti sono stati fatti con delle celle ad alta pressione e i nostri campioni di partenza erano grandi circa 50 micron, cioè praticamente la metà del diametro di un capello, e spessi 10-15 micron. Dopo l’esperimento l’area di interesse era circa 30 micron».

Infografica che mostra l’interazione fra l’atmosfera primitiva dei subnettuniani e l’oceano di magma che li compone. Le reazioni studiate in laboratorio hanno mostrato come l’idrogeno presente nell’atmosfera reagisca con il magma, penetrando al suo interno e in parte sottraendo ossigeno all’ossido di ferro per produrre acqua liquida. Crediti: Navid Marvi/Carnegie Science

Uno si immagina un blocco di magma, invece lavorate con campioni praticamente invisibili…

«Sì, noi lavoriamo con campioni che quando ci fai l’occhio diventano leggermente visibili, ma ovviamente tutto il lavoro si fa con il microscopio. L’apparato sperimentale che permette di raggiungere le pressioni più alte si chiama cella a diamanti ed è basato sull’utilizzo di due diamanti che vengono pressati uno contro l’altro, e in mezzo ai quali si inserisce il campione. E visto che la pressione è una forza su un’area, a parità di forza più piccola è l’area, più alta è la pressione che si può ottenere. Quindi, più è piccolo il campione, più alta è la pressione che si riesce a raggiungere. Le celle a diamanti hanno anche un altro vantaggio: essendo i diamanti trasparenti, è possibile usare dei laser per scaldare il campione, come abbiamo fatto nel nostro caso. Infatti, l’altra grande difficoltà di studiare questi materiali primitivi è che per fonderli bisogna arrivare a temperature altissime che sarebbe difficile raggiungere con altri apparati sperimentali».

Dove li avete fatti questi esperimenti?

«La preparazione dei campioni e il caricamento delle celle con l’aggiunta dell’idrogeno gassoso nella cella a diamanti al Carnegie Institute for Science, mentre gli esperimenti di riscaldamento col laser e la preparazione dei campioni per l’analisi sono stati fatti all’Institut de Physique du Globe de Paris, dove lavora un nostro collaboratore».

E come si maneggiano, campioni così piccoli?

«Quando lavoriamo con campioni grandi la metà del diametro di un capello, li spostiamo usando degli aghi simili a quelli da cucito ma con la punta più piccola. Ci vuole molto poco perché un campione voli via dall’ago mentre lo stai spostando dal supporto alla cella. Quindi prima di andare in laboratorio mi assicuro sempre di non avere niente che arrivi oltre i polsi e che possa creare statica, perché quello potrebbe far volare il campione. Delle volte, addirittura, quando i campioni sono magnetici usiamo una “messa a terra”, un braccialetto elastico attaccato ad un cavo con una clip metallica, che attacchiamo a qualcosa di metallico. Ho anche provato a non bere caffè per settimane prima di caricare i campioni, perché volevo vedere se aveva un effetto sulla precisione con cui riuscivo a mettere il campione nella cella. Per i campioni di questo studio la sfida è stata anche avere delle piastrelline delle dimensioni giuste, quindi spesse 15-20 micron e larghe tra i 50 e i 60 micron. Per un altro progetto mi ero allenata a usare gli aghi anche con la mia mano non dominante, inizialmente usando una bacchetta cinese per spostare una gomma, e l’allenamento mi è tornato molto utile per tenere fermi i campioni con un ago e cercare di romperli nel mezzo con un altro».

Ma c’è un modo per vedere queste queste reazioni o le loro conseguenze quando si osservano i subnettuniani? Qualcosa che permetta di dire se effettivamente queste reazioni avvengono?

«Sì e no. Se, ad esempio, si osserva acqua nell’atmosfera di un subnettuniano, questo potrebbe puntare il dito verso questo processo, indicando che poi l’acqua è evaporata dall’interno del pianeta. Poi, sono curiosa di vedere se le proprietà dei magmi, ad esempio la densità, cambiano rispetto ai magmi in assenza di idrogeno. Il confronto sarebbe interessante perché massa e raggio degli esopianeti (e quindi densità) sono due proprietà che vengono determinate di routine».

Ora ti trovi in Svizzera, ma presto rientrerai in Italia. Cosa c’è nel tuo futuro?

«Rientrare in Italia, all’Università di Pavia, sarà sicuramente una sfida come qualsiasi altra nuova posizione in un posto nuovo, però sono contenta perché sarò in un gruppo con cui volevo lavorare da un sacco di tempo. Sono curiosa di vedere come andrà, perché quello che faccio io nello specifico, cioè l’applicazione di queste tecniche sperimentali a esopianeti in condizioni estreme di pressione e temperatura, non è molto comune. La mia idea è quella di costruire un laboratorio di alta pressione, diciamo, per portare queste tecniche ed è una cosa che mi attira molto. E poi se riuscissi a ispirare qualche geologo a diventare uno sperimentalista sarei ancora più contenta».


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