Quella che segue è la trascrizione del diciottesimo episodio di Houston, un podcast di Media Inaf che parla di spazio, atterraggi falliti, innovazioni disperate e soluzioni geniali. Ideato, realizzato e condotto da Valentina Guglielmo, quest’episodio – pubblicato per la prima volta il primo luglio 2025 – è dedicato alla sonda interplanetaria Voyager 2 della Nasa e ha come ospite il fisico Paolo Ferri. Potete ascoltarlo su Apple Podcasts, su Spotify e su YouTube. Oppure direttamente da qui.
Paolo Ferri
Quindi è agghiacciante a pensarci, la missione più iconica e più importante della storia dell’esplorazione del Sistema Solare ha rischiato di fallire per questo problema di elettronica, fallire completamente perché con una sonda senza comandi non puoi farci nulla, già all’inizio.
[Inizio musica]
Valentina Guglielmo
È il primo luglio 2025 e sono passati 47 anni, 10 mesi, 11 giorni. Dopo così tanto tempo, il solo fatto di esistere e resistere fa notizia. E qualunque perdita di segnale scala le pagine delle testate di tutto il mondo, come se lo spettro di non riuscire a stabilire un nuovo contatto spaventasse e sorprendesse, ricordando a tutti che no, le missioni Voyager non sono eterne. Cnn, Bbc, The Guardian, Ansa, Le Scienze, Il Corriere, Focus, Wired… tutti hanno seguito i dieci giorni di silenzio di Voyager 2 fra la fine di luglio e l’inizio di agosto 2023. E tutti hanno tirato un sospiro di sollievo quando, finalmente, la sonda ha risposto. Titoli sensazionalistici, carichi di emozione, frasi come “l’urlo interstellare che ha svegliato Voyager 2”, o “è tornato il battito”, come se la vita in gioco non fosse quella di una sonda, ma quella di un’amica lontana. Ma quanti di quelli che c’erano ricordano invece i problemi successi l’anno dopo il lancio, nel 1978, problemi che hanno davvero compromesso la vita di Voyager 2, e che hanno cambiato per sempre la gestione spaziale della Nasa? Azzarderei a rispondere “nessuno o quasi”, così come nessuno o quasi ne ha parlato all’epoca. Reperire informazioni e notizie è quasi impossibile.
A raccontarlo insieme a me, qui, è Paolo Ferri, che non ha partecipato alla missione Voyager ma è riuscito a entrare nella vicenda come solo chi conosce il mondo delle operazioni sa fare, fornendomi del materiale unico che oggi condivido con voi.
Io sono Valentina Guglielmo e questo è un podcast di Media Inaf che parla di spazio, atterraggi falliti, innovazioni disperate e soluzioni geniali. Si chiama Houston.
[Fine musica]
Valentina Guglielmo
Sono passati 47 anni, 10 mesi, 11 giorni, dicevamo, dal 20 agosto 1977, la data in cui Voyager 2 è stata lanciata. La missione Voyager prevedeva due sonde gemelle, praticamente identiche, Voyager 1 e Voyager 2, lanciate a distanza di una quindicina di giorni l’una dall’altra con traiettorie diverse. Voyager 2, la prima ad essere partita, era stata scelta per fare il cosiddetto Grand Tour del Sistema solare, che significava fare un flyby di Giove, poi Saturno, Urano e infine Nettuno.
La scelta di invertire l’ordine di lancio e far partire per prima Voyager 2, però, non riguardava la sua traiettoria più lunga fra i pianeti del Sistema solare, ma serviva piuttosto a salvaguardare il ritorno scientifico della missione se Voyager 1 avesse fallito. Voyager 1 era infatti più veloce, aveva una traiettoria più lineare e sarebbe arrivata su Giove quattro mesi prima di Voyager 2, per poi raggiungere Saturno nove mesi prima.
Così, se Voyager 1 non fosse riuscita a raggiungere i suoi obiettivi su questi pianeti, per qualsiasi motivo, Voyager 2 avrebbe potuto comunque essere reindirizzata per rimanere lì più a lungo, anche se a scapito di un successivo incontro con Urano o Nettuno. Alla fine comunque non fu necessario. Voyager 2 riuscì a visitare Giove, Saturno, Urano e Nettuno, completando così il tour dei pianeti esterni del Sistema solare, integrando le immagini di Voyager 1 su Giove e Saturno e facendo i primi – e ancora oggi unici – sorvoli ravvicinati di Urano e Nettuno. Poi, dopo il 1989 ha cominciato la cosiddetta “missione interstellare”, che l’ha vista uscire dal Sistema solare e raggiungere lo spazio interstellare con energia sufficiente a trasmettere ancora dati scientifici a terra. Voyager 1 ha cominciato a farlo nel 2012, Voyager 2 nel 2018.
Stando ai dati ricevuti, nel settembre 2007 Voyager 2 ha superato il cosiddetto Termination Shock, il confine oltre il quale il capo magnetico del Sole non ha più alcuna influenza.
[Estratto audio dal video della Nasa per l’entrata di Voyager 2 nello spazio interstellare]
For me personally, to have this milestone event happen it’s a relief. Wow! We’ve got …[Doppiaggio]
Per me personalmente, è un sollievo che questo evento così importante sia finalmente accaduto. Wow! La sonda è arrivata fino a lì, ce l’abbiamo fatta, è molto emozionante. Voglio dire, pensateci: ora abbiamo due sonde spaziali che stanno viaggiando oltre gli effetti del nostro Sole e nello spazio interstellare. Non c’è un obiettivo definitivo per il prossimo futuro, ma continueranno a funzionare per almeno altri cinque anni ciascuna, e, sapete, dopo essere diventate silenziose, diventeranno solo degli ambasciatori silenziosi attorno al centro della nostra galassia con il loro Golden record.
Valentina Guglielmo
In questa intervista della Nasa, a parlare del viaggio interstellare delle Voyager è Suzanne Dodd, project manager di Voyager nel 2018, quando l’intervista è stata girata.
Nel 2023 Voyager 2 ha superato la sonda Pioneer 10, diventando il secondo oggetto costruito dall’uomo più distante dalla Terra, dopo la compagna Voyager 1. Voyager 2 si trova ora a circa 21 miliardi di chilometri dalla Terra, nello spazio profondo e freddo, ormai lontanissima dal Sole, sempre al seguito della compagna Voyager 1. Non la raggiungerà mai, ma continua ad allontanarsi dal Sistema solare con una velocità di poco più di 15 chilometri al secondo, ed è così lontana che un segnale impiega più di 19 ore – viaggiando alla velocità della luce – per raggiungerla. Per ricevere risposta, quindi, sulla Terra bisogna attendere circa 40 ore da quando si invia il messaggio. Altro che relazione a distanza.
Si potrebbe parlare per ore di quello che le sonde Voyager hanno visto e attraversato, ma non è di astronomia che parliamo in questo podcast.
[Estratto audio dal lancio di Voyager 2]
Valentina Guglielmo
Sono passati quasi 50 anni, e non so quanti nel lontano 1977 avrebbero scommesso che a distanza di così tanto tempo Voyager 2 sarebbe stata ancora in grado di comunicare. Posso dire con certezza che c’è stato almeno un momento in cui proprio chi la conosceva meglio – ingegneri e progettisti della Nasa – non ci avrebbe scommesso un dollaro. Tanto da decidere di caricare tutti i comandi per la manovra di sorvolo di Giove e per il viaggio verso Saturno con ampio anticipo, in modo da assicurare un ritorno scientifico in caso di perdita di contatto.
Ma come mai ci credevano così poco? La risposta sta in qualcosa che è successo ormai 46 anni fa, dopo appena 8 mesi di volo. Paolo Ferri.
Paolo Ferri
Voyager 2, in particolare, tra i problemi che hanno avuto le sonde all’inizio, ne ha avuto uno che ha rischiato di uccidere completamente la missione prima ancora di arrivare a Giove, quindi stiamo parlando proprio dei primi anni di volo. Cosa è successo? Devo fare una premessa.
Le sonde interplanetarie, anche le nostre di oggi, hanno tutte una vulnerabilità molto più elevata rispetto ai satelliti intorno alla Terra legati alle comunicazioni. Non solo devono mantenere l’antenna puntata verso la Terra, altrimenti le comunicazioni sono perse, e ce n’è una di antenna, quindi ci sono una direzione e un’antenna, pertanto il loro assetto è fondamentale; ma anche le unità che stanno dietro devono essere configurate nel modo giusto, quindi anche se hai delle unità ridondanti, per esempio un ricevitore che è collegato all’antenna principale, e un ricevitore ridondante, quest’ultimo non può essere collegato all’antenna principale, ma magari è collegato all’antenna secondaria, che però non punta la Terra. Quindi devi essere anche sicuro che la configurazione del satellite, quale unità è collegata a quale antenna, sia quella giusta. Ora può succedere di tutto, per esempio ti si può guastare un ricevitore, tu a Terra non lo sai, quindi devi avere qualcosa a bordo che si renda conto di questi problemi e provi varie configurazioni in modo da mettertele la disposizione, così tu da Terra puoi ricevere il segnale e mandare i tuoi. L’unico modo che al momento, fino adesso, si usa, è semplicemente mettere un timer a bordo che viene ri-settato a zero tutte le volte che arriva un comando. Quindi ogni volta che arriva un comando questo timer comincia a contare di nuovo da zero. Tu poi setti una soglia che vuoi al timer, per esempio se sai che normalmente manderai comandi tutti i giorni in questa fase della missione, allora dici al timer “ti do una soglia di due giorni”. Lui comincia a contare dopo l’ultimo comando che ha ricevuto, e quando raggiunge i due giorni capisce che c’è qualcosa che non va nella ricezione dei comandi, e allora comincia a riconfigurare varie cose per provare a offrirti altre configurazioni. Lui non sa cosa è successo, però sa che non sta ricevendo comandi, e questo è l’unico modo che per ora si è inventato per garantire questa funzione fondamentale che è la ricezione dei comandi. Tutte le sonde hanno questo semplicissimo sistema, e poi cambi, se per esempio hai una fase in cui contatti la sonda ogni settimana, cambi la soglia, gli dici 10 giorni per dire, questo riceve un comando, poi comincia a contare, passano 7 giorni, passano 8 giorni, passano 9 giorni, passano 10, dice “qui è successo qualcosa”. Bene, cosa è successo quel giorno? Per qualche motivo, e ci arrivo poi alla fine, Voyager non riceve più comandi, non ricordo quanto fosse settata la soglia, era settata da un po’ di tempo, nessuno manda comandi a Voyager. Attenzione, non è che lui non li riceveva, nessuno da terra mandò i comandi a Voyager in questo periodo in cui lui se li aspettava, metti che fosse una settimana per esempio.
Valentina Guglielmo
Quel giorno era il 7 aprile 1978. Voyager 2 stava viaggiando a 19.9 km/s rispetto al Sole e si trovava a 456 milioni di km dalla Terra. Il tempo luce d’andata era di circa 25 minuti e 11 secondi. Significa che una comunicazione completa – domanda, risposta – richiedeva circa cinquanta minuti.
Raccogliere materiale e informazioni su questa vicenda non è semplicissimo. In rete non si trova granché e gli articoli di giornale sui problemi delle sonde Voyager riguardano tutti fatti più recenti. Grazie all’aiuto di Paolo Ferri però sono riuscita, ad esempio, a mettere mano ai report periodici ufficiali della Nasa in cui si descrivono le condizioni di Voyager 1 e 2. Cominciamo da qui.
Nel primo report, quello del 7 aprile, si legge:
“Il 5 aprile il sottosistema di comando del computer è entrato in una sequenza di protezione che ha commutato il veicolo dal ricevitore primario al ricevitore secondario, poiché non sono stati ricevuti comandi per sette giorni. I tentativi di ottenere un aggancio bidirezionale nel ricevitore secondario sono falliti e i test diagnostici eseguiti dopo il passaggio a questa unità hanno indicato un problema con il condensatore del circuito di tracciamento. La sequenza di protezione è programmata per tornare al ricevitore primario se l’unità secondaria non riceve comandi nelle dodici ore successive”.
Ferri ricordava bene. Il timer del primo ricevitore era settato a sette giorni. Parafrasando il report, quando Voyager ha eseguito il cambio ricevitore, da Terra non sono riusciti ad agganciare la frequenza del ricevitore di riserva, a causa del guasto di un condensatore. Non potendo comunicare con la sonda, un secondo timer avrebbe ripristinato la configurazione iniziale nel giro di 12 ore.
Paolo Ferri
Una cosa che c’è da dire è che nei nostri satelliti attuali, credo anche quelli della Nasa, non si spegne mai il ricevitore. Entrambi i ricevitori sono accesi in parallelo. Quindi la configurazione che cambia è semplicemente la connessione all’antenna, ma i ricevitori sono accesi. Evidentemente, a quei tempi il ricevitore ridondante veniva tenuto spento anche perché l’elettronica non è che fosse molto affidabile. Quindi quello che non veniva usato lo tenevano spento. Quindi, il ricevitore primario non riceve i comandi per una settimana. Quando scatta la soglia spegne il primario e accende il secondario. Al JPL vedono che questo è successo e cominciano a mandare comandi. Si accorgono che era successo questo, però nessun problema. Comandano attraverso il ricevitore secondario. Ma il ricevitore secondario ha un problema. Non era mai stato usato prima o forse era stato usato solo all’inizio della missione. Ha un problema.
Valentina Guglielmo
Mai lasciare la strada vecchia, diceva qualcuno, perché non sai quello che trovi. Una frase poco coraggiosa, ma in questo caso purtroppo provvidenziale. Il primo ricevitore di Voyager funzionava, mentre il secondo, per qualche motivo, no. Non restava che tornare indietro, allora. Non potendo comandare la sonda bisognava semplicemente attendere 12 ore, il tempo dopo il quale, in assenza di comandi, Voyager 2 sarebbe tornata autonomamente al primo ricevitore.
[suono del ticchettio di un orologio]
Valentina Guglielmo
Di nuovo dal report del 7 aprile:
“Dopo questo passaggio, le operazioni sembravano normali e diversi comandi sono stati trasmessi attraverso il ricevitore principale, causando così un ripristino del timer di sette giorni. Tuttavia, circa 30 minuti dopo il passaggio, un guasto sconosciuto nel ricevitore ha causato una corrente eccessiva che sembra aver bruciato i fusibili del ricevitore. Il veicolo spaziale rimane configurato sul ricevitore principale e non è in grado di ricevere comandi dalla Terra. Tuttavia, il timer di sette giorni passerà automaticamente al ricevitore secondario il 13 aprile, momento in cui si tenterà di comandare il veicolo spaziale nonostante il condensatore guasto”.
Valentina Guglielmo
Guasti su guasti, insomma. Bisognava per forza affidarsi al secondo ricevitore, dato che il primo si era guastato irrimediabilmente. Per farlo però, bisognava attendere di nuovo sette giorni. Un’attesa che questa volta era utile; utile a cercare un modo per gestire al meglio il guasto del secondo ricevitore, in modo da arginare parzialmente il disagio. Ma quale meccanismo si era guastato, esattamente?
Paolo Ferri
Questo è un problema forse un po’ dettagliato da descrivere, però fondamentalmente – questo succede anche con le nostre radioline, quelle che si usavano un tempo prima di internet per ascoltare la radio – c’è una frequenza a cui ci si deve sintonizzare. Però questa frequenza può variare, per esempio per la velocità relativa, per questioni Doppler, o può variare per la temperatura. Quindi il ricevitore ha una sua frequenza tipica, che tu da terra devi raggiungere, in modo che lui si agganci al tuo segnale, sennò lui non riconosce il tuo segnale. Siccome però da terra non sai esattamente quale sarà questa frequenza, perché appunto varia sia per il Doppler (che puoi prevedere), ma anche per la temperatura, allora cosa si fa? Tu sai che potrà variare entro un certo intervallo, allora da terra quando mandi il comando iniziale, lo mandi con la frequenza a un limite di intervallo, e poi spazzi lentamente questo intervallo fino all’altro limite. Il ricevitore ha un circuito a bordo, che quando hai spazzato la frequenza giusta, quella in cui si trova in quel momento, si aggancia, e a quel punto tutte le volte che sposti la frequenza da terra, lui ti segue. Si chiama Phase Lock Loop, cioè “circuito di aggancio di fase”. È un circuito elettronico molto semplice, che si usa anche a terra. Insomma, questo circuito sembrava non funzionare.
Valentina Guglielmo
Quindi Voyager, all’inizio della missione, si è trovato con un ricevitore guasto completamente, e l’altro che aveva il circuito di aggancio di fase rotto. Perciò quando da terra si esplorava tutto l’intervallo di frequenze (in gergo tecnico spazzava), se anche si passava attraverso la frequenza giusta non succedeva nulla. Non si riusciva ad agganciare il segnale e, quindi, non si riusciva a comandare. Qual era l’unico modo per uscirne? Indovinare da subito la frequenza giusta alla quale trasmettere un segnale.
Paolo Ferri
Dovevano indovinare la frequenza giusta. La frequenza giusta dipendeva dallo spostamento Doppler, che puoi calcolare, ma devi calcolarlo bene, precisamente, e dalla temperatura, e quella non la puoi calcolare. E quindi, da una parte, hanno sviluppato delle procedure per mantenere la temperatura del ricevitore, dell’oscillatore del ricevitore, il più stabile possibile. D’altra parte, hanno sviluppato modelli termici per prevedere quale sarebbe stato lo spostamento di frequenza, eccetera. Però praticamente per tutta la missione, quindi per gli ultimi 45 anni, tutte le volte che comandano Voyager, che tra l’altro adesso è a distanza di, non so, tipo 20 ore luce, devono prevedere, devono indovinare, dico io, ma in realtà è prevedere, qual è la frequenza di ricezione, basata sulla temperatura e sul segnale Doppler.
Valentina Guglielmo
Report del 13 aprile 1978.
“Voyager 2 viaggia a circa 19,7 km/s rispetto al Sole, ed è a oltre 474 milioni di km dalla Terra.
Poco dopo le 3:30 (PST – il Pacific Standard time, le 12.30 in Italia), gli operatori Voyager hanno inviato il primo comando alla sonda tramite la stazione di tracciamento di Madrid. Poco prima delle 4:30, i controllori hanno ricevuto la conferma che il comando era stato ricevuto e accettato. Il comando ha impiegato quasi 27 minuti per raggiungere la sonda alla velocità della luce e altri 27 minuti per il ritorno del comando verso la Terra. L’apparente guasto del condensatore dell’anello di tracciamento del ricevitore di riserva implica che quest’ultimo non riesce più a seguire normalmente una frequenza del segnale variabile. Questo è un problema perché i segnali provenienti dalla Terra variano in frequenza principalmente a causa dell’effetto Doppler dovuto alla rotazione terrestre.
I tecnici devono determinare la frequenza alla quale il ricevitore sta ascoltando e poi calcolare quella alla quale la stazione terrestre deve trasmettere”.
Paolo Ferri
E lo fanno, lo fanno da 45 anni. E gli è rimasto solo quel ricevitore, che da allora non si è più guastato.
Valentina Guglielmo
Nel bollettino del 13 aprile, alla fine, si fa anche menzione a una manovra di correzione della traiettoria, la seconda dopo la partenza, che Voyager 2 avrebbe dovuto eseguire il 3 maggio. La sequenza di comandi sarebbe stata inviata da terra il 26 aprile, ma nel bollettino si legge che erano in corso delle verifiche per valutare se fosse il caso di farla o meno. L’aggiornamento successivo risale al 4 maggio, il giorno dopo la presunta manovra. Sentiamo.
“Il 3 maggio, Voyager 2 ha eseguito con successo una manovra di correzione di rotta per regolare la sua traiettoria verso Giove. La manovra era inclusa in un set di comandi trasmessi con successo alla sonda il 26 aprile. Voyager 2 si trova a quasi 535 milioni di chilometri dalla Terra. La sua velocità rispetto al Sole è di circa 18,8 km/s, e il tempo di comunicazione unidirezionale è di 29 minuti e 52 secondi.
Voyager 2 ha iniziato il suo viaggio circa otto mesi e mezzo fa e inizierà le osservazioni di Giove tra circa undici mesi e mezzo.
Ciò che ha reso unica questa operazione è il fatto che è stata eseguita perfettamente usando nuove tecniche sviluppate per comandare la sonda, nonostante il ricevitore rimanente fosse danneggiato. Queste tecniche prevedevano di calcolare la frequenza radio di riposo della sonda, e di programmare sulla base di questa la frequenza di uplink da Terra tenendo conto dell’effetto Doppler e della temperatura e con un errore massimo di 50 Hz. La manovra di correzione della traiettoria del 3 maggio ha previsto una combustione di 203 secondi e un cambiamento di velocità di 0,615 m/s. Già dalle prime indicazioni, la manovra sembra essere stata eseguita con successo”.
Valentina Guglielmo
Insomma, una soluzione scomoda, articolata, ma l’unica possibile. Che, come abbiamo sentito da Ferri, funziona ormai da quasi 50 anni. Ma la squadra di Voyager della Nasa non si fidava molto della situazione, e pensava che l’antenna non avrebbe retto a lungo. Per questo, nel modo più conservativo possibile, aveva deciso di caricare con largo anticipo tutti i passi da eseguire fino al sorvolo di Giove, per tentare di salvare almeno il primo obiettivo scientifico della missione, prima che la sfortuna si accanisse nuovamente guastando anche quel che restava del secondo ricevitore. Il report del 27 giugno 1978 conteneva le prime immagini scattate a Giove: sei viste uguali in diversi colori, e una settima con uno zoom sulla grande macchia. Voyager 2 aveva scattato queste immagini il 19 maggio da una distanza di 295 milioni di chilometri, quando mancavano ancora quasi dieci mesi di crociera da Terra a Giove. Ma il punto importante di questo report non erano tanto le immagini, quanto il caricamento dei comandi per la cosiddetta “missione di riserva”. Come dicevamo, non ci credevano tanto quelli della Nasa, e per questo il 23 giugno hanno trasmesso a Voyager 2 la sequenza che includeva l’esecuzione di 11 esperimenti, le riprese a Saturno, e anche una correzione di traiettoria per assicurare l’incontro con Saturno dopo il sorvolo di Giove previsto per luglio 1979.
[Stacco musicale]
Valentina Guglielmo
Sono passati 47 anni da allora e il secondo ricevitore funziona ancora. Certo, l’aggancio di fase è sempre guasto, ma la strategia di predizione inventata dalla Nasa si è sempre dimostrata sufficientemente precisa. Ora, rimane una domanda a cui rispondere. La domanda. Ma perché la prima volta Voyager 2 non aveva ricevuto comandi per sette giorni ed era stato fatto scadere il timer? Paolo Ferri.
Paolo Ferri
Ora concludo il discorso per dire: io quando ho letto tutte queste cose sui report la mia domanda è stata ma perché, la domanda che facevi prima, ma perché hanno raggiunto la soglia? Come mai? Qual è stato il motivo? Hanno avuto problemi? Era un problema di ricevitore?
E così sono andato ad analizzare altre fonti che non erano i report ufficiali di Voyager e ho trovato una spiegazione che è anche la più ovvia, ma se vuoi la più imbarazzante, in un libro molto bello sulla storia del JPL che si chiama “Into the Black”. Sono andato a leggermi la storia di quegli anni e lì la spiegazione è molto semplice: siccome il team era impegnato ad analizzare i problemi del payload che avevano in quel momento – avevano degli strumenti che avevano dei problemi – semplicemente si sono dimenticati di comandare. “Tanto Voyager lì non sta facendo niente”, e si sono dimenticati di mandare il comando per, credo, una settimana, raggiungendo la soglia semplicemente perché hanno dimenticato di comandare, che è una cosa che se ci pensi…avrebbero potuto uccidere Voyager per una dimenticanza. Per dire, anche oggi loro una volta ogni tanto mandano un comando semplicemente per ri-settare questo timer, è l’unica cosa che fanno perché Voyager non ha bisogno di comandi in questo momento e l’hanno dimenticato. E questa banale dimenticanza causò una rivoluzione al JPL.
Valentina Guglielmo
Nel libro di cui parla Ferri, e del quale mi ha inviato alcune pagine, si trova quindi la spiegazione che nei report ufficiali della Nasa non compare mai. Si erano dimenticati. Una spiegazione banale, giustificata dal fatto che in quel periodo tutti erano concentrati a risolvere alcuni problemi del satellite, ma comunque gravissima. Al punto che, come dice Ferri, causò una rivoluzione al JPL.
Innanzitutto, il project manager di Voyager Ray Heacock venne sostituito da Bob Parks, ma il vero cambiamento fu separare il team che lavorava sul software e analizzava i guasti, da quello che eseguiva le operazioni. Con due manager separati: uno per il team di progetto e uno per il team di operazioni. Praticamente è stato il primo riconoscimento ufficiale alla Nasa che il lavoro di “controllo missione” è un lavoro a sé, e non può rimanere un’appendice dello sviluppo del satellite e della gestione del software.
Paolo Ferri
Questa veramente fu la nascita del concetto di “centro di controllo” al JPL, che allora era ancora più un centro di ricerca e di sviluppo ingegneristico. Ancora adesso il JPL fa tutte e due le cose: sviluppa le sonde e poi le fa volare. Ma in quegli anni chi faceva volare la sonda era ancora il progetto che l’aveva sviluppato e, come posso sicuramente dire anche per la mia esperienza, è molto diverso progettare una sonda spaziale e farla volare. Quindi lì ci fu una rivoluzione e cambiarono tutta la dirigenza, separarono appunto il team di progetto che si occupava magari dello sviluppo di software, eccetera, dal team operativo che invece si occupava delle operazioni. Quindi rivoluzionarono tutto, poi gli americani ci vanno giù pesanti quando succede qualcosa, non è che coprano tanto i problemi, li usano per risolverli. Questa è sempre stata una loro grande forza. Quindi hanno rivoluzionato tutto e hanno separato i due team, e c’è una citazione del nuovo capo operativo nel libro che dice “la differenza tra far volare una sonda interplanetaria e progettare una sonda interplanetaria è la stessa differenza che dirigere un esercito in tempo di guerra e in tempo di pace”, e io lo trovo molto interessante – vabbè molto americana come definizione – però è veramente molto interessante. Io l’ho vissuto sempre: tutti gli ingegneri che ho incontrato che hanno progettato le sonde o i satelliti, che sono ingegneri straordinari comunque, non hanno nella loro cultura, educazione e anche mentalità quello che noi chiamiamo “l’approccio operativo”. Devi insegnarglielo, non gli viene naturale. Per cui per un ingegnere di progetto è abbastanza naturale dimenticare di mandare un comando mentre sta studiando un problema, perché appunto è in tempo di pace. La risoluzione del problema può prendere tutte le risorse e tutte le energie, perché tanto comunque non c’è una necessità immediata. Invece in tempo di guerra, cioè quando stai volando, ci sono cose che non possono aspettare, e quindi la tua risoluzione deve aspettare. Manda il comando, intanto, poi torni a studiare la tua risoluzione. Quindi è una un’esperienza molto interessante ed è anche interessante per me appunto vedere come tante volte le risposte alle analisi se vuoi storiografiche non si trovano nemmeno nei report ufficiali, devi andarle a vedere in fonti parallele, e fare i collegamenti giusti per scoprire cosa è successo.
Valentina Guglielmo
Non potevano scrivere in un report ufficiale che avevano dimenticato di mandare un comando?
Paolo Ferri
Beh, no, in realtà andrebbe scritto. Io ho accesso ai report che vengono pubblicati anche all’esterno, ma magari c’erano altri report interni più dettagliati. Anche da noi quando c’è un report operativo non si va nei dettagli delle cause di un guasto, però ci sono altri report che noi chiamiamo anomaly report in cui si va a studiare le cause. Quindi io immagino che loro abbiano quel tipo di report ma che non siano accessibili facilmente.
Valentina Guglielmo
Per farmi capire meglio che cosa significa questa separazione dei ruoli, Paolo Ferri mi ha spiegato come funziona da loro, all’agenzia spaziale europea.
Lì le due squadre di cui parlavamo prima si trovano addirittura in due istituti e in due nazioni diverse. Il team che segue lo sviluppo dei satelliti e si interfaccia con l’industria – quello che Ferri chiama Team di Progetto – si trova nel centro Esa Estec di Noordwijk, nei Paesi Bassi, ed è diretto da un Project Manager fino al lancio. Dopo di che praticamente viene dissolto.
Nel frattempo a Darmstadt, nel centro di controllo Esoc viene creato, già anni prima del lancio, il team delle operazioni, che dopo il lancio prende la responsabilità totale della missione. Se poi durante il volo serve lavoro di sviluppo software o serve l’analisi dettagliata di un guasto che non rientra nelle competenze del team delle operazioni, come abbiamo sentito più volte in questo podcast si chiede aiuto a quelli che hanno costruito la sonda, ovvero l’industria, e si coinvolgono direttamente anche gli esperti che hanno seguito la progettazione in ESTEC, ma il tutto sotto la diretta responsabilità del team di operazioni.
[Suono dello spazio interstellare misurato da Voyager 1]
Valentina Guglielmo
Questo è il suono dello spazio interstellare, le vibrazioni del denso plasma interstellare captate dalla sonda Voyager 1 da ottobre a novembre 2012 e da aprile e maggio 2013.
Osservare ed esplorare il Sistema solare esterno prima, e lo spazio interstellare poi, comunque, non erano e non sono le sole unicità delle sonde Voyager.
[Sottofondo con i suoni raccolti nel Voyager Golden record]
Ciascuna sonda, infatti, porta con sé un messaggio. Un disco registrato e placcato in oro, il Voyager Golden Record, che contiene più di cento immagini e suoni naturali provenienti dalla terra, come il rumore delle onde, del vento, dei tuoni, il canto degli uccelli e i versi di altri animali. C’è poi una selezione di musiche di varie epoche e i saluti di abitanti della terra in 55 lingue diverse. Insomma, un piccolo spaccato di vita sulla terra. che raccontano qualcosa del nostro pianeta e dei suoi abitanti. Le istruzioni per accedere sono contenute nella custodia del disco, nell’eventualità in cui qualche forma di vita intelligente lo trovasse. Voyager, comunque, impiegherà circa 40 mila anni per arrivare nelle vicinanze di un’altra stella e la probabilità che venga effettivamente trovato da qualcuno è davvero bassa.
[Inizio musica]
Valentina Guglielmo
47 anni, 10 mesi e 11 giorni dopo il lancio, Voyager 2 viaggia ancora nello spazio interstellare, alimentata dai suoi generatori termoelettrici a radioisotopi che producono energia elettrica sfruttando il decadimento radioattivo del plutonio-238. Man mano che questo si esaurisce diminuisce anche la capacità dei generatori di produrre energia. Secondo le stime, Voyager 2 perde circa 4 watt di potenza ogni anno e, comunque, le batterie nucleari hanno una durata massima di 60 anni. Ecco perché, per risparmiare l’energia ormai agli sgoccioli, il team della missione sta via via spegnendo i vari strumenti ancora attivi. Nel prossimo decennio, difficile dire quando, la missione Voyager volgerà al termine e continuerà, sola e spenta, il suo viaggio interstellare. Nella prossima puntata torniamo invece sulla Terra, e torniamo a parlare di uno Space Shuttle che abbiamo già incontrato quasi un anno fa, parlando del satellite Eureca. Assieme a lui, infatti, a bordo c’era anche un altro satellite chiamato Tethered. Un esperimento innovativo e unico, che ha visto fra i suoi protagonisti anche alcuni astronauti italiani come Franco Malerba e Umberto Guidoni. Un esperimento, però, ricco di imprevisti. Vi aspetto nella prossima puntata di Houston, un podcast di Media Inaf che parla di spazio, atterraggi falliti, innovazioni disperate e soluzioni geniali.
[fine musica]
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