TRASCRIZIONE DELLA SEDICESIMA PUNTATA DI “HOUSTON”

Solar Orbiter, un tuffo nei detriti spaziali

È peggio perdere una missione perché si è costretti a tuffarsi nei detriti spaziali, rischiando di venire colpiti, oppure perché una parte della navicella si è letteralmente congelata e tutti i suoi componenti si sono saldati a causa del freddo? Con Solar Orbiter non c’è stato bisogno di scegliere: la missione dell’agenzia spaziale europea che più si è avvicinata al Sole, le maggiori preoccupazioni le ha date, fin da subito, vicino alla Terra

     26/08/2025

Quella che segue è la trascrizione del tredicesimo episodio di Houston, un podcast di Media Inaf che parla di spazio, atterraggi falliti, innovazioni disperate e soluzioni geniali. Ideato, realizzato e condotto da Valentina Guglielmo, quest’episodio – pubblicato per la prima volta il primo febbraio 2025  – parla della missione Solar Orbiter e ha come ospiti lo spacecraft operations manager José-Luis Pellon e l’ingegnere aerospaziale Andrea Accomazzo. Potete ascoltarlo su Apple Podcasts, su Spotify e su YouTube. Oppure direttamente da qui.


Crediti per l’immagine artistica di Solar Orbiter: Esa

Jose-Luis Pellon
Quando sono entrato lì ho visto molta gente in questa briefing room, tutte con le facce abbastanza serie, preoccupate. La prima parola che ho sentito quando entro nella briefing room è stato safe mode, che è questo modo in cui va il satellite, il modo di emergenza. Andrea, io ovviamente non mi sono reso conto, ha detto “guarda, sei diventato pallido, bianco, pensavo che svenissi.

[Inizio musica]

Valentina Guglielmo
Una missione progettata per sfiorare il Sole e resistere al calore più estremo, che rischia di finire – ancor prima di iniziare – a causa di un congelamento. La missione Solar Orbiter viaggia su un’orbita che l’ha fatta avvicinare fino a circa 42 milioni di chilometri dal Sole, quasi un quarto della distanza fra la Terra e la nostra stella. Dopo il quarto sorvolo di Venere, completato il 18 febbraio 2025, Solar Orbiter si trova ora a circa 44 milioni di chilometri dal Sole. Lì, fa un caldo infernale, ma la sonda è stata progettata apposta per resistere. Non aveva previsto invece di dover sopportare il freddo improvviso, subito dopo il lancio, né sapeva quanto l’ambiente spaziale possa degradare velocemente la strumentazione, nel calore o nel freddo estremo. E non finisce qui, Solar Orbiter si è anche dovuta tuffare nei detriti spaziali che orbitano attorno alla Terra, sperando di non essere colpita e distrutta. Ma non poteva fare altrimenti: la strada verso il Sole passa dalla Terra.

La voce che avete sentito all’inizio è di Jose Luis Pellon, allora spacecraft operations manager di Solar Orbiter. Con lui, a raccontare la storia di Solar Orbiter ci sarà anche Andrea Accomazzo, direttore di volo al momento del lancio.

Io sono Valentina Guglielmo e questo è un podcast di Media Inaf che parla di spazio, atterraggi falliti, innovazioni disperate e soluzioni geniali. Si chiama Houston.

[Fine musica]

Valentina Guglielmo
Se c’è una cosa che ho imparato facendo questo podcast, è che non c’è mai un giorno uguale a un altro, al centro di controllo dell’Agenzia spaziale europea a Darmstadt. Tutte le persone che ho incontrato e che mi hanno raccontato le loro storie, da Paolo Ferri ad Andrea Accomazzo, Ignacio Tanco, Andreas Rudolph o Jose-Luis Pellon, che conosceremo in questa puntata, fanno i conti con l’ignoto. Ogni giorno. Ogni mattina, quando si siedono alla loro scrivania e guardano le mail arretrate, o entrano in sala controllo dove decine di schermi affiancati proiettano dati e numeri provenienti dalle sonde che grazie a loro continuano a sopravvivere nello spazio – loro sanno che non possono mai abbassare la guardia. Sanno che il tempo delle sorprese e degli imprevisti è ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo.

E non c’è esperienza di anni di lavoro, capacità acquisita, conoscenza profonda dei sistemi che sia quella giusta e adatta ad affrontare la nuova difficoltà. Non fraintendetemi, le capacità sicuramente non mancano alle persone che lavorano in Esa. Il problema, però, è che ogni nuova missione è un salto nel vuoto, e spesso per capire e risolvere problemi nuovi bisogna partire da zero. Inventarsi qualcosa.

20 gennaio 2020. Poco meno di tre settimane al lancio di Solar Orbiter. La sonda era già pronta a partire dal Kennedy Space Center della Nasa a Cape Canaveral, a bordo di un razzo Atlas V. Quella sera, dopo una normale giornata di lavoro e una riunione piuttosto impegnativa e controversa con le alte sfere dell’agenzia spaziale europea, Andrea Accomazzo torna a casa con la febbre alta. Nel giro di poche ore viene ricoverato in ospedale per un’infezione. La prognosi prevede alcuni giorni di ricovero, e poi diversi altri giorni di riposo assoluto a casa. Il lancio di Solar Orbiter era vicino, e Andrea Accomazzo era il direttore di volo, un ruolo fondamentale, il ruolo di chi decide – in caso di difficoltà – che cosa fare. Di fronte a questa situazione, da un lato c’era la preoccupazione di tutto il team che lavorava con Andrea, e non voleva caricarlo di responsabilità o bombardarlo di informazioni e aggiornamenti su quello che stava succedendo in quelle settimane; dall’altro, tutti speravano che si riprendesse e potesse tornare. E questo, naturalmente, richiedeva che al suo rientro potesse riprendere il lavoro senza avere dei buchi, senza aver perso nessuna informazione.

Jose-Luis Pellon
Andrea Accomazzo e io eravamo vicini di casa. Adesso non so se sai che Andrea Accomazzo ha traslocato in Italia, ma finché non ha traslocato noi condividevamo una villetta a schiera divisa in due. Quindi eravamo proprio vicini di casa. Lui si è ammalato prima del lancio, per parecchi giorni, e non è potuto venire alle ultime preparazioni prima del lancio, per fare il suo ruolo di Flight Director. Effettivamente c’era preoccupazione nel team, perché Andrea Accomazzo è una figura di riferimento per tutti, era il direttore di volo di uno dei due turni. Devo dire che con Paolo e con Ignacio la cosa è stata gestita molto bene, ma c’era sempre un po’ questa inquietudine se Andrea ce l’avrebbe fatta a essere qui per il decollo, per il lancio. Ed effettivamente sì, è tornato, e ci siamo tranquillizzati un po’ tutti.

Valentina Guglielmo
Jose Luis Pellon, uno spagnolo che parla benissimo l’italiano, è collega e amico di Andrea Accomazzo, e per molti anni ha condiviso con lui una villetta a schiera a Darmstadt. Il rientro di Andrea al lavoro, dopo la malattia, era previsto per il 3 febbraio, appena tre giorni prima della prima data fissata per il lancio di Solar Orbiter.

[Audio del lancio di Solar Orbiter da un video della Nasa]

Valentina Guglielmo
Un problema al razzo lanciatore della Nasa Atlas V e altre circostanze hanno ritardato il lancio di Solar Orbiter di alcuni giorni. Alla fine, la sonda è partita il 10 febbraio 2020 da Cape Canaveral, in Florida. Il team a Esoc era tornato al completo, ma la preoccupazione non era sparita: il lancio di una missione è impegnativo, richiede giorni di lavoro intenso, in cui non si stacca mai e si lavora giorno e notte. Si rompono i normali ritmi di vita e farlo in condizioni di salute già non ottimali non è uno sforzo da poco.

Nelle ore che seguono il lancio, una sonda non viene mai lasciata sola. Si organizzano due squadre che si alternano in sala controllo ogni 12 ore. Il direttore di volo della missione, e quindi della prima squadra, era appunto Andrea Accomazzo, mentre il direttore di volo della seconda squadra era Ignacio Tanco (che abbiamo già incontrato parlando dell’antenna della missione Juice, se vi ricordate); lo spacecraft operations manager della prima squadra era Sylvain Lodiot, che aveva temporaneamente assunto anche il ruolo di Accomazzo durante la sua assenza, mentre lo spacecraft operations manager della seconda squadra era Jose-Luis Pellon.

Jose-Luis Pellon
Il lancio è andato molto bene. Subito dopo il lancio abbiamo dispiegato i pannelli solari, io ero nella squadra che aveva preparato tutto prima del lancio, ma non ero nella squadra del lancio. Comunque, sono rimasto all’Esoc perché la procedura per dispiegare i pannelli solari in caso di emergenza l’avevo scritta io, quindi volevo sapere se i pannelli si erano aperti in modo nominale o se dovevamo usare la procedura di emergenza che avevo scritto io e soprattutto volevo capire se era corretta, se era capibile. Effettivamente hanno dovuto usarla perché la tensione dei cavi non era nominale, ma era andato tutto bene. Quindi quando ho visto che i pannelli solari erano a posto, sono andato a casa a riposare per prepararmi per il mio turno 12 ore dopo.

Valentina Guglielmo
Le prime fasi di volo di Solar Orbiter dopo il lancio, quelle che rientrano nella cosiddetta Leop, che sta per launch and early orbit phase, sono trascorse tranquille. In queste ore si prende contatto con la sonda, si dispiegano i pannelli solari e si effettuano tutte le operazioni preliminari che consentono alla sonda di sopravvivere, da sola, nello spazio. Andrea Accomazzo.

Andrea Accomazzo
Solar Orbiter è nata come una missione che doveva essere piuttosto semplice, nel senso che è pur sempre una missione interplanetaria, quindi con le sue complessità, le sue criticità, in particolare termiche, perché vola relativamente vicino al Sole, e l’idea che noi abbiamo sempre avuto era di fare una fase iniziale di volo molto semplificata, perché ritenevamo di avere un satellite di fronte a noi che potesse essere avviato al volo in maniera relativamente veloce. Nel corso degli anni precedenti al lancio abbiamo iterato diverse volte con l’azienda che ha costruito il satellite, proprio per indirizzarli ad un avviamento del volo semplice. Intendevamo avviare il volo nel giro di 24 ore dopo il lancio. L’accordo era questo, poi negli ultimi 12 mesi diciamo che gli ingegneri che l’hanno progettato hanno cominciato ad avere dei dubbi sull’effettiva fattibilità in un tempo così corto. Preferivano fare certe attività durante questa fase critica, e avere una supervisione del satellite più accurata rispetto a ritardare queste attività nelle settimane di volo successive, e quindi abbiamo già dovuto allungare questa fase. La nostra idea era 24 ore, l’abbiamo portata a diciamo 48-60 ore di attività.

Valentina Guglielmo
Cosa significa esattamente avviare il volo?

Andrea Accomazzo
Quando un satellite viene lanciato io lo paragono sempre un po’ alla nascita anche di un bambino. La nascita di un bambino è una cosa naturale, ciò nonostante chiaramente è un’attività abbastanza critica perché è il primo momento in cui questo neonato viene a contatto diretto col mondo e anche noi ci rivolgiamo a un centro ospedaliero ovviamente per il parto. Si può fare diversamente, si può fare magari con meno attenzione, meno monitoraggio, però è pur sempre una fase critica. La stessa cosa facciamo noi con i satelliti. Durante queste fasi iniziali il satellite viene a contatto con lo spazio per la prima volta, quindi deve avviare tutti i suoi meccanismi, tutte le sue funzionalità e viene monitorato molto da vicino da un’equipe di ingegneri che l’hanno costruito, quindi con un team piuttosto significativo. Una volta passati questi primi giorni critici poi si comincia con le operazioni di routine come un bambino viene portato a casa e comincia la sua vita naturale.

Valentina Guglielmo
Solar Orbiter è la prima sonda in grado di vedere le regioni polari del Sole, cioè ad alzarsi rispetto all’equatore studiando e fotografando il Sole a latitudini elevate. Si tratta di un satellite complesso che porta a bordo dieci strumenti scientifici per studiare la superficie del Sole, le sue emissioni di plasma e il vento solare. Con la sua orbita, lo dicevamo prima, si è portato fino a circa 42 milioni di chilometri dalla superficie del Sole, sperimentando un irraggiamento 13 volte più intenso rispetto a quello che sperimentiamo sulla terra. Da tutto questo calore e radiazioni, però, la sonda deve proteggersi.

[inizio musica]

La chiave della sopravvivenza di Solar Orbiter è lo scudo termico, un grande muro di vari strati dietro il quale trova refrigerio tutto il resto della sonda e degli strumenti, e che può resistere fino a una temperatura di 500 °C. Il primo strato, quello più esterno, è una barriera fatta di titanio e carbonio, poi c’è un vuoto, poi un’altra barriera fatta di diversi strati di Multi-Layer Insulation, o Mli – un particolare sistema isolante usato nello spazio –, poi ancora un vuoto, e infine il corpo della sonda. Anche la sonda è parzialmente avvolta con MLI, ma possiede anche dei radiatori, il tutto per bilanciare quanto calore generato per dissipazione dalle varie unità rimane dentro e quanto invece deve andare disperso per mantenere le unità stesse a una temperatura operativa. Quanto ai pannelli solari, anche questi devono proteggersi da un irraggiamento troppo forte, e non potendo essere ricoperti, vengono inclinati progressivamente man mano che Solar Orbiter si avvicina al Sole lungo la sua orbita. Quando la sonda si trova circa alla distanza della Terra dal Sole, ovvero 150 milioni di km, i pannelli sono perpendicolari, cominciano poi ad essere inclinati e arrivano a circa 70 gradi quando la distanza dal Sole si dimezza, fino al punto più vicino dell’orbita in cui l’angolo di incidenza del Sole è solo di 79 gradi. Così facendo, si riesce a mantenere la loro temperatura tra 60 °C e 120 °C.

[Fine musica]

Lo scudo termico è la vera barriera che protegge Solar Orbiter dal Sole, e rimane quindi sempre puntato verso la stella per evitare qualunque esposizione degli strumenti e dell’elettronica, che devono mantenere una temperatura moderata per funzionare. Per studiare il Sole, però, i dieci strumenti scientifici a bordo di Solar Orbiter, il Sole devono vederlo. Per questo lo scudo termico è dotato di speciali finestrelle in corrispondenza dei vari occhi scientifici della sonda, che si aprono al bisogno. Ci sono poi alcune parti che necessariamente spuntano fuori dallo scudo, come i pannelli solari, oppure alcune antenne di comunicazione verso la Terra, che per puntare alle stazioni riceventi spesso devono uscire dall’ombra. Tornando agli strumenti e alle finestrelle sullo scudo termico, c’è un dettaglio importante da sapere: al momento del lancio di Solar Orbiter queste erano tenute chiuse meccanicamente con dei perni, che andavano rimossi una volta in volo in modo che queste potessero aprirsi e chiudersi liberamente.

[stacco musicale]

Valentina Guglielmo
Torniamo allora alle prime ore dopo il lancio. Fra le operazioni da eseguire durante la Leop c’era il dispiegamento di due bracci sui quali erano collocati alcuni strumenti scientifici. Per farlo, dato che nello spazio fa da subito molto freddo, bisognava scaldare le componenti meccaniche che le tenevano bloccate e che si trovavano, all’ombra, sulla superficie superiore del satellite. Vicino ad esse erano state messe anche delle resistenze che, una volta accese, avrebbero dovuto alzare localmente la temperatura, ma in verità non erano sufficienti a contrastare il gelo dello spazio. Per questo la procedura prevedeva di girare il satellite in modo da esporre al Sole questa superficie, riscaldarla, aprire i bracci meccanici e poi tornare nella configurazione normale con lo scudo termico puntato al Sole. Così facendo, però, lo scudo termico si sarebbe trovato per alcune ore all’ombra. Senza la luce del Sole a scaldarlo, come il corpo del satellite prima, anche lo scudo termico ha cominciato a raffreddarsi. Sugli schermi della sala controllo, i dati inviati da Solar Orbiter mostravano che la temperatura stava scendendo velocemente, troppo rispetto alle previsioni. Anche i perni metallici che ancora tenevano ferme le finestrelle degli strumenti scientifici hanno iniziato a raffreddarsi, anche questi troppo velocemente. Le proiezioni dei tecnici indicavano che nel giro di poche ore la temperatura avrebbe raggiunto il limite oltre il quale i metalli si sarebbero saldati a freddo, rischiando di non separarsi mai più. Questa temperatura era di circa 40 gradi sottozero.

Andrea Accomazzo
Allora, adesso non ricordo il dato esatto ma penso che il limite fosse tipo meno 30, meno 40 gradi. La proiezione ci dava che entro un paio d’ore saremmo andati oltre meno 50, quindi decisamente al di sotto dei limiti di qualifica di questi apparati. Lì la decisione non è stata facile perché non avevamo il tempo materiale per ricreare i comandi, le istruzioni da mandare al satellite per rientrare nell’assetto nominale, quindi spostare questo lato del satellite verso il Sole per riscaldarlo. Non avevamo il tempo materiale, quindi dopo un paio di riunioni l’unica soluzione è stata quella di comandare quello che noi chiamiamo un safe mode, un reset completo del satellite. Quindi è stata una decisione abbastanza delicata perché avevamo appena lanciato questo satellite, appena messo in funzione, e una delle prime cose che abbiamo dovuto fare da terra è stata mandare l’istruzione di resettarsi completamente.

Ora questa situazione del satellite è prevista, è chiamato safe mode proprio perché è una situazione sicura per il satellite, ma consiste nel far ripartire quasi tutta l’elettronica di bordo del satellite, che è sempre un’operazione molto delicata, soprattutto in una fase come quella lì. Quindi abbiamo dovuto elaborare nel giro di pochissimo tempo una procedura per mandare queste istruzioni al satellite, di modo da dirgli spegni il computer di bordo, resettalo, fai un restart completo. È come spegnere il computer, riparte completamente. In questa situazione il satellite si mette a ricercare il Sole, quindi la manovra avrebbe riportato l’assetto nominale del satellite esponendo questa faccia, questo lato del satellite con queste aperture verso il Sole, dove si sarebbero riscaldate. Però era l’ultima cosa che avremmo voluto fare, ci sono state diverse discussioni durante queste ore, abbiamo fatto un paio di riunioni dove abbiamo prima analizzato le varie opzioni che avevamo a disposizione, abbiamo direi rapidamente concluso che quella era la più realistica, la più immediata anche, quella che ci dà al massimo delle garanzie.

Valentina Guglielmo
Eravate tutti d’accordo? C’era qualcuno che preferiva fare altro?

Andrea Accomazzo
Mah, nella fase iniziale alcuni avrebbero preferito un metodo diverso, però poi diciamo andando ad analizzare tutte le varie situazioni e le possibilità ci si è resi conto che nonostante il rischio percepito, forse più psicologico che reale, perché come detto il satellite è progettato per fare un’attività del genere, era la cosa meno rischiosa di tutte. Quindi abbiamo poi fatto una seconda riunione dove abbiamo messo tutto per iscritto, e ci siamo comunicati vicendevolmente quale sarebbe stata la procedura che avremmo seguito. Quando tutti erano abbastanza convinti abbiamo deciso di procedere. La cosa un po’ anomala è che quando è arrivato il momento di procedere era la fine del mio turno, quindi del turno del team di cui ero responsabile io, e arrivava il nuovo team che non sapeva niente di questa situazione e quindi il passaggio di consegne è significato dirgli “guardate c’è stato un problema enorme, adesso dovete resettare completamente il satellite”. I nostri colleghi erano andati a dormire, avevano già fatto un turno precedente, sono arrivati in turno e si sono trovati di fronte a questa situazione completamente inaspettata. In effetti io guardandoli ho visto dei visi molto preoccupati perché loro non erano stati parte del processo decisionale, quindi erano molto sorpresi. Allora con calma abbiamo esteso un po’ questo periodo di passaggio di consegne, abbiamo ripetuto un po’ le fasi che ci hanno portato a quella decisione e ho visto visi un po’ più tranquilli. Però poi noi siamo andati a dormire, li abbiamo lasciati con quest’incombenza che era facile decidere, molto più difficile da eseguire e quindi è stata un’operazione che ha richiesto per certi versi anche un po’ di coraggio e anche essere anche molto affiatati su questo passaggio di consegne.

Jose-Luis Pellon
È successo quando sono arrivato al secondo turno verso le tre del pomeriggio all’ESOC, sono entrato nella briefing room che è quella saletta separata dalla sala di controllo da una parete di vetro, dove normalmente si fanno le riunioni quando c’è un cambio di squadre, quando la squadra che sta al lavoro finisce e quella che entra per si aggiornano su quello che è successo nel turno precedente, se ci sono stati problemi, se sono riusciti a fare tutte le attività che dovevano fare, se c’era qualcosa ancora pendente e quindi da fare prima di tutto. E quando sono entrato lì ho visto molta gente in questa briefing room, tutti con le facce abbastanza serie, preoccupate e la prima parola che ho sentito quando sono entrato è stata safe mode, che è questo modo in cui va il satellite quando è in modo di emergenza. A detta di Andrea dopo, io ovviamente non mi sono reso conto, sono diventato pallido, bianco, pensava che svenissi, perché per me era la prima volta come Spacecraft Operations Manager durante un lancio, ero preoccupato, avevo le mie paure e volevo fare le cose bene, e ovviamente l’ultima cosa che uno desidera è dover fare cose fuori del normale, fuori dal previsto; quindi mi sono preoccupato molto e una volta capita la ragione per cui dovevamo andare in safe mode – era un problema termico per poter riuscire a dispiegare un boom, una specie di sbarra lunga 4 metri dove erano attaccati diversi strumenti scientifici – una volta che abbiamo capito quello che succedeva e che abbiamo capito che il safe mode era il modo migliore per riuscire a fare quello che volevamo fare, mi sono tranquillizzato e abbiamo seguito l’operazione secondo le procedure. Ma, sì, è stata una sorpresa non gradevole, i colleghi del turno precedente, quindi Andrea, Silvano e la squadra di volo hanno comandato questo safe mode e sono andati a casa e ci hanno lasciato a noi dell’altro turno a dover rimettere il satellite in assetto nominale. Quindi abbiamo fatto questo, il satellite è tornato a puntare sul Sole con lo scudo, le temperature di questi perni sono salite e abbiamo rilasciato questi perni approfittando di questa temperatura; questa era un’operazione prevista per qualche giorno dopo, ma l’abbiamo fatta lì e una volta che questi perni erano rilasciati non c’era più pericolo di non poter aprire queste finestrelle. Abbiamo continuato a fare l’operazione per girare di nuovo il satellite, riscaldare la cerniera e dispiegare il boom con gli strumenti scientifici.

Valentina Guglielmo
Una decisione, questa di intervenire comandando un safe mode, che preoccupava molte persone in sala controllo, perché era una decisione estrema e perché interrompeva la scaletta di operazioni da eseguire durante la Leop. Comunque, sia Andrea sia Jose-Luis mi hanno raccontato che, in verità, non si trattava di un’operazione rischiosa di per sé – nel senso che non metteva a rischio la vita del satellite. Solo che fra safe mode, recupero del satellite, e ripresa delle normali operazioni programmate, le squadre di volo di Solar Orbiter hanno dovuto estendere la fase di Leop di 24 ore circa, e quindi anche i turni delle due squadre.

[Estratto audio originale della frase “Houston we have a problem”]

Valentina Guglielmo
Mai abbassare la guardia, mentre fai volare un satellite. Recuperato Solar Orbiter dopo il safe mode, il turno di 12 ore della squadra di Jose-Luis non era ancora finito.

Jose-Luis Pellon
Eravamo rimasti in sala di controllo io con tipo la metà del team, ed erano forse le 10 di sera, un po’ prima, non mi ricordo. Ignacio Tanco, che era il direttore di volo, e un’altra parte del team erano andati a prendere qualcosa per cena nella mensa qui dell’ESOC, che era aperta giusto per noi, per quelli che dovevamo lavorare la notte. E quando sono rientrati in sala di controllo, Ignacio ha aperto la porta, e la prima cosa che gli ho detto è “siamo in safe mode”. E lui ha cominciato a ridere e a dire, stai scherzando, pensava che fosse una battuta, e io ho detto “no, no, siamo in safe mode”.

Valentina Guglielmo
Questa volta no, non era un safe mode comandato. Circa sette ore dopo il problema dello scudo termico, gli operatori hanno inviato un valore sbagliato al software di Solar Orbiter. Anziché rispondere con un messaggio d’errore, che dicesse appunto che quel comando non aveva senso, il satellite ha reagito con un safe mode. Come sparare ad una mosca con un cannone. Una cosa totalmente inaspettata, un errore procedurale che non era nemmeno segnalato nella documentazione fornita dall’azienda costruttrice del satellite.

Jose-Luis Pellon
E quindi è stata anche per lui una sorpresa, subito dopo ovviamente è diventato serio, non ne scherzava più, e abbiamo cominciato a fare le operazioni per recuperare questo secondo secondo safe mode. Ormai, visto che poche ore prima avevamo fatto le stesse cose, le facevamo pure veloce perché ce le avevamo proprio in mente, quasi non dovevamo guardare le procedure, le sapevamo a memoria. Insomma è stata una cosa che adesso quando lo racconto più o meno rido, ma lì per lì eravamo tutti seri e preoccupati perché continuavamo a ritrovare cose inaspettate, o che non erano nella documentazione, o che non c’erano fra le procedure, o come in questo caso una reazione completamente inaspettata dal satellite.

Diciamo, se uno manda un comando con un valore sbagliato, il satellite dovrebbe rigettare il comando, dire “questo comando non mi va, vi siete sbagliati”, ma non dovrebbe andare in safe mode.

[stacco musicale]

Valentina Guglielmo
Al termine della Leop, come previsto le due squadre si sciolsero perché non c’era più bisogno di monitorare la situazione 24 su 24. Solar Orbiter poteva cominciare il suo viaggio verso il Sole, e al centro di controllo di Darmstadt si poteva tornare alla routine delle operazioni, da interrompere solo nelle fasi più delicate del volo, come il flyby di un pianeta, di Venere nel caso di Solar Orbiter, o della Terra. Sì perché il viaggio verso il Sole non è un tragitto di sola andata, ma un percorso piuttosto articolato.

Dopo il lancio nel febbraio 2020 e la Leop, durata alcuni giorni, Solar Orbiter ha cominciato il suo viaggio verso il Sole con una fase di crociera della durata di poco meno di due anni, che prevedeva due sorvoli ravvicinati di Venere e uno della Terra. Questi sorvoli, in gergo flyby o manovre di assistenza gravitazionale, sfruttano il campo gravitazionale di un corpo massiccio come un pianeta per accelerare e cambiare la direzione di una sonda, e quindi modificarne l’orbita. Dopo due sorvoli di Venere e uno della Terra, eseguito nel novembre 2021, Solar Orbiter si è inserito in un’orbita ellittica attorno al Sole, con un periodo di rivoluzione ci circa 5 mesi e mezzo e un perielio appena più interno dell’orbita di Mercurio. Ma non è finita. Da quest’orbita, grazie ad altri cinque passaggi ravvicinati su Venere, la sonda sta alzando progressivamente la sua orbita dal piano dell’eclittica, fino a 33 gradi circa, per osservare il Sole a latitudini più elevate e poterne vedere le regioni polari. Il 18 febbraio scorso, Solar Orbiter ha compiuto il suo quarto flyby attorno a Venere. Gliene restano altri tre, l’ultimo nel 2029.

Dopo aver lasciato la Terra nel febbraio 2020, Solar Orbiter è quindi tornato a farci visita nel novembre 2021. Non era stata una partenza facile la sua, con quei due safe mode. Anche il suo ritorno era atteso con ansia, e non per la felicità di ritrovarlo dopo quasi due anni. Ansia vera. Perché per fare la manovra di assistenza gravitazionale attorno alla Terra, Solar Orbiter doveva tuffarsi nella sua atmosfera e attraversarla come un proiettile a una velocità di 15 chilometri al secondo, scendendo di quota fino a circa 460 km – appena più su della Stazione spaziale internazionale. Per arrivarci, però, doveva attraversare almeno due zone critiche, piene di satelliti in orbita attorno al nostro pianeta, ma soprattutto piene di detriti spaziali.

[inizio musica]

Valentina Guglielmo
I detriti spaziali sono tutto quel che resta dei veicoli spaziali del passato, o degli stadi di lancio dei razzi, o degli incidenti e delle collisioni avvenute in orbita. Le orbite più affollate attorno al nostro pianeta sono due: a 36 mila chilometri di quota c’è la cosiddetta orbita geostazionaria, tradizionalmente popolata dai satelliti per le telecomunicazioni. Un’orbita ambita ma che può ospitare un numero limitato di corpi, e per questo l’unica soggetta a regole internazionali sia per quanto riguarda i lanci, sia per quanto riguarda la gestione dei satelliti a fine vita. C’è poi l’orbita bassa, sotto gli 800-1000 chilometri di quota. Qui volano intere costellazioni di satelliti, ma non c’è alcun tornello che limiti gli ingressi, e qui è pieno zeppo di detriti spaziali. A fronte degli 11200 satelliti operativi, un numero che cambia in continuazione per via dei lanci delle costellazioni di satelliti, ci sono infatti circa 40 500 detriti spaziali con dimensioni maggiori di 10 cm, noti e tracciati dalle reti di sorveglianza spaziale. Oltre a questi, si stima che ci siano anche circa 130 milioni di detriti spaziali più piccoli, diciamo da 1mm a 10 cm, che non sono rilevabili da terra e che si muovono nello spazio come proiettili incontrollabili, e rischiano di colpire qualunque oggetto in volo, operativo o meno, danneggiandolo o distruggendolo.

[fine musica]

La probabilità di essere colpiti da uno di questi detriti attraversando l’atmosfera come doveva fare Solar Orbiter è bassa. Anche perché nessuno avrebbe programmato una missione lunga dieci anni con un suicidio programmato a meno di due anni dal lancio. Bassa, però, non vuol dire nulla. E questo basta perché il team responsabile del controllo di Solar Orbiter non rimanesse a guardare, con dita incrociate o cornetti portafortuna durante il flyby della Terra, ma facesse tutto quanto in suo potere per scongiurare una collisione.

Jose-Luis Pellon
Dei detriti spaziali ci sono pezzi grandi 1mm, altri centimetri o metri. Tutti quelli che possiamo monitorare sono in un database, e sono tanti. E stanno lì ognuno nella sua orbita e non abbiamo controllo. Sui satelliti invece sì, diciamo di sì: uno vede che va a schiantarsi con un altro satellite, o tu che vai a schiantarti o l’altro satellite fai una manovra per evitare la collisione. Ma invece ci sono pezzi che non sono controllabili, quindi sei tu che vai incontro a questa particella, grossa o piccola che sia, e devi manovrare per evitarla.

Lo spazio intorno alla Terra è molto affollato, c’è un database e c’è una sezione qui all’ESOC che studia queste cose, la sezione dei detriti orbitali, e tiene sotto controllo i pezzi che sappiamo che esistono. Come hai detto tu prima, Solar Orbiter doveva passare molto vicino alla Terra per fare questo flyby. Questo flyby era anche molto importante perché determinava la fine della fase di crociera e l’inizio della missione nominale scientifica. E quindi questo flyby dovevamo riuscire a farlo potenzialmente senza problemi.

Valentina Guglielmo
Per preparare il sorvolo della Terra, il team delle operazioni di Solar Orbiter era supportato dal dipartimento di Dinamica del volo, che si occupa di calcolare la traiettoria del veicolo spaziale e fare previsioni sull’orbita, e dal servizio di monitoraggio dei detriti spaziali di Esoc, che forniva in tempo reale la probabilità di collisione con qualunque detrito spaziale noto. Le regole di volo dicevano che era necessario fare una manovra di evitamento, e quindi cambiare la rotta di Solar Orbiter, se la probabilità di collisione con un detrito spaziale superava lo 0,00002 (una su cinquantamila). Se il team di monitoraggio dei detriti spaziali avesse trovato una probabilità superiore avrebbe dovuto comunicarlo al team delle operazioni, che immediatamente avrebbe contattato il gruppo di dinamica del volo chiedendo di preparare una manovra per cambiare rotta. Con la velocità alla quale si muoveva Solar Orbiter, 54 mila chilometri all’ora, però, il tempo di reazione era praticamente inesistente e queste variazioni non potevano essere fatte in qualunque momento.

Jose-Luis Pellon
Sono stati giorni tesi. Già un flyby di per sé è una manovra critica, anche se nell’ESA ultimamente ne facciamo parecchi, ma comunque è sempre una manovra critica quando uno si avvicina a un pianeta: deve avvicinarsi con la traiettoria giusta per non impattare sulla superficie del pianeta e uscire dal flyby con la traiettoria giusta che uno vuole acquisire. Quindi eravamo già tesi per via del flyby in sé. Questo flyby aveva un altro problema, che il punto più ravvicinato della traiettoria alla Terra avveniva durante un’eclissi. Il satellite era in eclissi, ed è stata la prima e unica eclissi che abbia mai Solar Orbiter nella sua traiettoria. Quindi i pannelli solari non erano illuminati dal Sole, e la potenza elettrica doveva venire dalle batterie. Era la prima volta che facevamo una simile manovra e dovevamo anche settare il satellite in modo che funzionasse con le batterie. Un altro problema con il flyby della Terra e che non succede con altri pianeti come Mercurio o Venere è la radiofrequenza. Noi trasmettiamo con l’antenna ad alto guadagno ma quando siamo molto vicini alla Terra per restrizione dell’ITU, l’International Telecommunications Union, non possiamo irradiare la Terra con la potenza che esce dall’antenna ad alto guadagno. Quindi dobbiamo usare l’antenna di piccolo guadagno che è un po’ restrittiva per quanto riguarda il telemetry bitrate che permette di usare. Con questa è possibile comunicare a una velocità e a una larghezza di banda più bassa. Quindi il flyby era complicato, e poi c’erano queste piccole cose addizionali come l’eclissi o dover fare il management della radiofrequenza che hanno reso il flyby della Terra abbastanza particolare diciamo. Ma la cosa più importante ovviamente erano le collisioni.

Valentina Guglielmo
Jose-Luis mi spiega che quando una sonda è vicina alla Terra, quindi sia durante la fase di LEOP oppure nel caso di un Fly-by, non è possibile usare l’antenna ad alto guadagno che viene solitamente impiegata per comunicare con la sonda e trasmettere i dati, perché è vietato dal “regolamento dell’ITU”, ovvero l’International Telecommunication Union, che regolano quanta potenza di radiofrequenza si può usare per comunicare senza causare interferenze radio ad altri utenti. Solar Orbiter, come molte altre missioni, era dotato di due antenne per comunicare. Quella ad alto guadagno, e quella a basso guadagno. La frequenza di trasmissione è la stessa, quello che cambia è la potenza, ovvero quanti bit al secondo riescono a trasmettere. Nella fase di progettazione di qualunque missione spaziale, l’ITU non solo assegna un range di frequenze per emettere e ricevere, ma anche un massimo di potenza per evitare di disturbare altri utenti (altri satelliti o utenti sulla Terra che usano frequenze molto vicine nello spettro). E dal momento che la potenza emessa aumenta al diminuire della distanza, quando una sonda arriva vicino alla Terra deve diminuire la potenza di trasmissione e usare solo l’antenna a basso guadagno. Riducendo la potenza trasmessa, si riduce il bit rate, e quindi la velocità di trasmissione dei dati. Un limite ben noto, questo dell’antenna, e che vicino alla Terra rimane tutto sommato gestibile. Man mano che ci si allontana invece no: ci sono distanze a cui la comunicazione tramite antenna a basso guadagno è quasi impossibile.

Fra detriti e limiti di trasmissione, non c’è da meravigliarsi che il flyby della Terra destasse una certa apprensione nel team. E poi, dicevamo che il tempo di reazione di Solar Orbiter per evitare una possibile collisione era praticamente nullo: significa che la sonda non poteva essere comandata in tempo reale, ma una qualunque deviazione di traiettoria doveva essere pianificata ed eseguita in anticipo, prima del suo ingresso in atmosfera. Al momento del flyby il destino della sonda era segnato, e c’era solo da sperare che non accadesse alcun imprevisto. Ma quanto era rischiosa, effettivamente, questa fase? Jose-Luis Pellon.

Jose-Luis Pellon
Questo è difficile da dire, secondo me era abbastanza rischioso nel senso che ci sono molte particelle su cui non abbiamo nessun controllo e che probabilmente non sono neanche nel database. Quindi la probabilità di collisione con una di queste particelle – che sono piccole ma che possono fare un grande danno al satellite viste le due velocità relative della collisione – è alta. Quindi fare un flyby della Terra a una distanza così bassa in cui il satellite deve attraversare tutte queste cinture, tutte queste aree intorno alla Terra dove c’è una alta densità di satelliti o di detriti sono pericolose. Però era l’unico modo per approfittare dell’energia che potevamo rubare alla Terra per cambiare l’orbita ed entrare nell’orbita della missione scientifica nominale che abbiamo raggiunto giusto dopo il flyby. Guarda, eravamo molto indaffarati perché noi abbiamo lanciato in febbraio del 2020, a Natale del 2020 abbiamo fatto il primo flyby di Venere. Ad agosto del 2021 abbiamo fatto il secondo flyby di Venere. Quindi abbiamo dovuto preparare questa fase e poi a novembre dovevamo fare questo flyby della Terra. Quindi i flyby erano eseguiti praticamente con pochi mesi di distanza tra di loro. Quindi non finivi di essere molto indaffarato per preparare uno che dovevi metterti a preparare il successivo. Durante l’anno 2021, a parte il covid e il team parzialmente in casa, gli strumenti soprattutto, più che il payload, hanno dato parecchi problemi. Piccoli problemi che abbiamo risolto, ma questi problemi si continuavano a ripetere e ovviamente anche questo ci dava molto lavoro. Quindi è stato un anno particolarmente duro dal punto di vista di quantità di lavoro. Ed effettivamente io, non solo io, immagino, ma ero molto preoccupato per questo flyby della Terra per via di questo space debris e per quanto era vicino al flyby di Venere che avevamo fatto agosto, quindi al tempo di preparazione per questo flyby.

Valentina Guglielmo
Il flyby di per sé dura poco. Alla velocità di Solar Orbiter, 54 mila chilometri all’ora, appena raggiungi il punto più vicino inizi subito ad allontanarti e ben presto esci dalla sfera di influenza della Terra. Dal punto di vista delle operazioni, invece, la preparazione di un flyby comincia almeno un mese prima del momento di massimo avvicinamento al pianeta, e finisce una settimana-dieci giorni dopo. Questo perché il team di dinamica del volo prevede diversi periodi in cui effettuare manovre di correzione della traiettoria. Comincia una campagna molto accurata di determinazione dell’orbita per vedere se la sonda seguirà o meno la traiettoria prevista. La prima manovra correttiva può essere eseguita un mese prima, la seconda due settimane prima, poi ancora una settimana prima, e infine le ultime due opportunità, che però già rientrano fra le correzioni di emergenza, sono fissate 3 giorni prima e sei ore prima del punto di massimo avvicinamento al pianeta. Queste vengono sfruttate, ad esempio, in caso di improvviso safe mode del satellite.

Jose-Luis Pellon
In questo caso anche del flyby della Terra noi dovevamo usare queste finestrelle per le manovre di emergenza per due cose: o per correggere la traiettoria se vedevamo che stavamo per impattare sulla Terra, o se vedevamo che la traiettoria era sbagliata e dopo il flyby l’orbita sarebbe stata sbagliata, oppure ancora per fare una manovra per evitare una collisione con detriti.

Valentina Guglielmo
Quindi quando poi vi siete tuffati nell’atmosfera terrestre eravate abbastanza tranquilli che fosse tutto sotto controllo?

Jose-Luis Pellon
Sì, la ultima volta che ci hanno detto guardate, la probabilità è bassa, potete andare tranquilli, noi ormai non avevamo nessuna possibilità di comandare il satellite. Noi avevamo già tutti i comandi a bordo, il satellite doveva fare il flyby come previsto e non avevamo nemmeno molte possibilità di interagire. Peraltro, passando così vicino alla Terra e a così alta velocità, le antenne della Terra praticamente non erano capaci di seguire il satellite quando passava. Quindi c’è stato anche un periodo in cui abbiamo perso il contatto con la sonda perché non c’era un’antenna capace di stabilire un contatto col satellite. Ovviamente eravamo tutti un po’ ansiosi per il primo contatto dopo questo periodo perché se fosse successo qualcosa in quelle ore in cui eravamo un po’ oscurati perché non avevamo contatto col satellite lo avremmo scoperto così. Eravamo un po’ ansiosi tutti di collegarci alla prima stazione che poteva avere contatto col satellite dopo il flyby, per vedere se era tutto a posto.

Valentina Guglielmo
Sabato 27 novembre, alle 5.30 del mattino ora locale italiana, Solar Orbiter si è lanciato a una velocità pazzesca nell’atmosfera terrestre, girando intorno al nostro pianeta senza essere visto da nessuno, perché era talmente veloce che nessuna antenna di Terra riusciva a seguirlo, e poi all’ora prevista ha cominciato a comunicare nuovamente con il centro di controllo di Darmstadt, dove Jose-Luis e il suo team attendevano con ansia.

Jose-Luis Pellon
È passato indenne, è passato indenne. Ce l’abbiamo fatta, ma è stato molto faticoso. È stato un periodo in cui la squadra ha lavorato veramente tantissime ore, e non solo la nostra, ma anche quelli di flight dynamics, che sono quelli che calcolano la traiettoria, l’assetto. È stato un periodo veramente molto faticoso, avere questi flyby di pianeti così vicini uno dall’altro. La fase di preparazione è molto intensa perché devi tenere conto di tantissime cose. Come ho raccontato prima nel caso del flyby della Terra, abbiamo aggiunto questa eclissi, abbiamo aggiunto il management della radiofrequenza a bordo, il cambiamento di antenna, il cambiamento di modulazione del segnale. Insomma, è stato un flyby molto particolare, diciamo più difficile, se vuoi, di quelli di Venere. In Venere non hai problemi se stai irradiando con l’antenna i venusiani (risata).

Valentina Guglielmo
Se dovessimo trovare un denominatore comune a tutti i problemi che hanno complicato l’esistenza di Solar Orbiter fra il 2020 e il 2022 sarebbe sicuramente l’ambiente ostile. L’ambiente ostile della Terra, che con tutti i suoi satelliti e detriti in orbita ha rischiato di ridurre in detrito pure lui, e poi l’ambiente ostile del Sole, troppo caldo per i suoi strumenti e così potente che – in un episodio che mi ha raccontato Jose-Luis ma che non ho inserito in questa puntata per non dilungarmi troppo – così potente che ha deteriorato alcuni sensori solari prima del tempo, facendo scattare un altro safe mode e costringendo a riprogrammare alcune procedure fondamentali alla sopravvivenza della sonda. Negli ultimi mesi, comunque, sembra che Solar Orbiter si sia abituato allo spazio, al calore del Sole, e ai continui passaggi ravvicinati attorno a Venere.

Jose-Luis Pellon
“Il 18 febbraio abbiamo fatto un flyby di Venere, è andato tutto nominale, tutto tranquillo. Io comincio a preoccuparmi che la gente si rilassi un po’ perché vede tutti questi flyby che vanno bene, e non vorrei che pensassero che è una routine.

Valentina Guglielmo
La gente del team, intendi?

Jose-Luis Pellon
La gente del team, sì, sì. No, in generale anche la gente del centro. Ah, facciamo un flyby di Venere? Ah, va bene, sì. Come andare a prendere il caffè, praticamente. Io rimango sempre molto apprensivo.

[inizio musica]

Valentina Guglielmo
Venere. C’è chi ci passa vicino e scappa via, come Solar Orbiter, e sfrutta la sua gravità per cambiare orbita e alzarsi a guardare il Sole da nuove e inedite angolazioni. E poi c’è chi ci vuol proprio andare, fermarsi lì, e studiare questo pianeta che da sempre si è accollato l’appellativo di “gemello della Terra”. Anche Venere, però, può rivelarsi un ambiente ostile. La missione giapponese Akatsuki, ad esempio, proprio non c’è riuscita a fermarsi una volta arrivata su Venere, ma è schizzata via e ha dovuto vagare cinque anni prima di tentare di nuovo l’inserimento in orbita. E poi c’è Venus Express, la missione venusiana dell’Esa. Ne parliamo nel prossimo episodio, ancora assieme ad Andrea Accomazzo, Sanjay Limaye dell’università del Wisconsin-Madison e Stefano Campagnolo del Jet Propulsion Laboratory della Nasa. Vi aspetto qui, fra un mese, per la 17esima puntata di Houston, un podcast di Media Inaf che parla di spazio, atterraggi falliti, innovazioni disperate e soluzioni geniali.

[fine musica]


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