Quando abbiamo avuto occasione di parlare su queste pagine di new space economy, spesso è stato in relazione alle nuove costellazioni satellitari. E il più delle volte a sollevare il tema è stata la minaccia che rappresentano per l’osservazione del cielo da terra. Ma può la new space economy rappresentare per l’astrofisica – e più in generale per le missioni spaziali dedicate alla scienza di base – anche un’opportunità, grazie anzitutto alla riduzione drastica dei costi di lancio, alla rapidità dei tempi di sviluppo degli strumenti ed eventualmente alla partecipazione dei privati al finanziamento delle missioni? E a che condizioni?

Fabrizio Fiore, direttore dell’Osservatorio astronomico dell’Inaf di Trieste, primo autore dello studio “Space science & the space economy” pubblicato questa settimana su Space Policy
Sono le domande alle quali prova a rispondere “Space science & the space economy”, uno studio pubblicato questa settimana su Space Policy firmato da Fabrizio Fiore, direttore dell’Osservatorio astronomico dell’Inaf di Trieste, e da Martin Elvis, astronomo al Center for Astrophysics – Harvard & Smithsonian. Studio che vale la pena consultare fosse anche solo per le interessanti tabelle con i costi di lancio e di produzione – in rapporto alla massa e alla mole di paper scientifici che ne sono derivati – delle principali missioni astrofisiche degli ultimi anni. Ma soprattutto per capire com’è e come sarà la new space science che sta prendendo forma proprio grazie – o per colpa, se preferite – della new space economy. Ne parliamo con il primo autore.
Fiore, partiamo proprio dalle tabelle e dai grafici che mostrate nel vostro articolo. Una cosa che balza subito agli occhi è l’ottima performance, almeno in termini di produzione scientifica per kg di payload, della missione tutta italiana LiciaCube, il cubesat mandato a fotografare da vicino gli effetti dell’impatto della sonda Nasa Dart con l’asteroide Dimorphos. Come mai?
«Le missioni spaziali tradizionali puntano su strumentazione ultra-sofisticata e satelliti di grande affidabilità e capacità. LiciaCube al contrario è un piccolissimo satellite (grande quando una scatola di scarpe) che ospita strumentazione abbastanza ordinaria. L’enorme vantaggio di LiciaCube è stato quello di trovarsi al momento giusto al posto giusto, per poter fare osservazioni davvero uniche. La dimostrazione che si può fare scienza di punta anche con strumenti ordinari e budget limitati, se li si usano con intelligenza. L’abbattimento dei costi non è determinato solo dalla dimensione del satellite, ma soprattutto dal fatto di utilizzare componenti standard, in gergo “components off the shelf”, prodotti in grande numero a costi bassi. Tutto il contrario delle missioni spaziali tradizionali, che spesso e volentieri utilizzano componenti e strumenti sviluppati appositamente solo per quella missione, a prezzi quindi enormemente più grandi. La standardizzazione dei componenti, la produzione di massa, sono alla base della costruzione delle nuove infrastrutture spaziali commerciali, possono essere alla base anche della costruzione delle nuove missioni scientifiche spaziali.
Quando ha avuto inizio questa nuova tendenza? E che sviluppi può avere?
«L’idea di produrre componenti standard a basso costo per applicazioni spaziali è nata con i cubesat all’inizio degli anni Duemila. Venticinque anni dopo il concetto è stato esteso a satelliti di taglia molto più grande Ad esempio, i satelliti Starlink 2 di SpaceX pesano circa 700 kg e costano una piccolissima frazione dei satelliti di taglia analoga di Nasa ed Esa. Esistono ditte che sfruttando la standardizzazione offrono satelliti in grado di ospitare strumentazione del peso di centinaia di kg (confrontabile quindi con quella delle maggiori missioni scientifiche Nasa ed Esa) a un costo oltre dieci volte minore di quello di un satellite tradizionale. Standardizzazione ovviamente implica anche limitazioni, e la necessità di dover trovare soluzioni intelligenti (come nel caso di LiciaCube) per poter fare scienza di punta. In un contesto di stardardizzazione dei componenti sarà probabilmente più difficile costruire osservatori spaziali o sonde interplanetarie “multi-purpose” rispetto a missioni con obiettivi scientifici delimitati e dedicati. Potremmo quindi cominciare da questi ultimi, per cominciare a sfruttare i vantaggi offerti dal mercato della new space economy. Del resto, uno dei programmi scientifici di maggior successo della Nasa, e anche quello di maggiore anzianità, è quello delle missioni Explorer, piccole o medie missioni dedicate a obiettivi scientifici ben definiti e delimitati. Aprire il modello Explorer allo sfruttamento del mercato commerciale potrebbe essere uno primo step importante, soprattutto se riuscissimo a importare un simile modello anche in Europa. Un altro step importante a mio avviso potrebbe essere approfittare di tutta l’attività corrente e futura verso la Luna. Gli Stati Uniti con il programma Artemis e la Cina con il programma Ilrs finanzieranno decine di missioni lunari, robotiche ma anche umane, nei prossimi dieci anni. La Nasa ha già avviato il programma Clps (Commercial Lunar Payload Service), un buon esempio di innovazione del modello commerciale, tramite l’acquisto da parte delle agenzie spaziali di servizi a basso costo e non di hardware ad alto costo. Un sacco di ottima scienza può essere fatta sulla e dalla Luna, sarebbe davvero strano se questa scienza non approfittasse dell’emergente new lunar economy».
Fattostà che a segnare la storia dell’astrofisica spaziale dei nostri giorni è un telescopio che più old space economy non si potrebbe: l’enorme, pesantissimo, costosissimo, multi-purpose e unico James Webb Space Telescope. Ci saranno opportunità, nella futura new space economy, anche per missioni come Webb?
«Jwst è certamente oggi il nostro strumento di punta. Io sono nel campo dell’astrofisica spaziale da quasi 40 anni, e ne ho viste come si suol dire di cotte e di crude nel settore. Ma devo dire che mi sono veramente “emozionato” a poter studiare galassie in formazione e buchi neri che accrescono materia ed emettono copiosa radiazione a sole poche centinaia di milioni di anni dall’origine dell’universo. Una cosa che onestamente non pensavo fosse possibile nell’arco della mia vita. Quindi, decisamente lunga vita a Jwst! Il problema però è: sarà possibile una missione scientifica con un spazio di scoperta simile a quello di Jwst nel futuro? E se sì, come? A mio avviso oggi esistono problemi strutturali e contingenti che rendono la risposta complicata. Molti, me incluso, pensano che Jwst ha già urtato quello che possiamo chiamare il “funding wall”. Una missione da 10 miliardi di dollari e 20 anni di sviluppo è razionalmente possibile nella nuova space economy? È un fatto che la Nasa lo scorso anno abbia cancellato il concetto di missione Mars Sample Return proposto dal Jpl (simile costo e simile tempo di sviluppo di Jwst) a favore di proposte commerciali di costo inferiore e tempo di realizzazione più breve. Anche un eventuale nuovo Jwst probabilmente dovrà essere sviluppato tenendo contro del contesto commerciale della nuova space economy. A complicare ulteriormente le cose c’è poi il ciclone Trump! L’attuale amministrazione Usa ha proposto tagli draconiani alla scienza, sia quella spaziale della Nasa sia quella terrestre (un taglio tra il 50 e il 65 per cento). È possibile che questi tagli, o almeno una parte, possano essere evitati dall’intervento dei legislatori Usa (Camera e Senato), ma sono certamente indice del fatto che la nuova amministrazione Usa ritiene superato il modello su cui si è retta la scienza statunitense da almeno 80 anni, ovvero che la scienza è il motore dell’innovazione tecnologica che a sua volta è alla base dell’incremento del benessere sociale. Quale sia il modello alternativo proposto personalmente non l’ho capito, ma in tutti i casi mi sembra altamente improbabile che una costosissima missione di scienza di base come Jwst possa trovare spazio in questo modello».

Evoluzione nel tempo del costo di lancio per kg di payload verso l’orbita terrestre bassa. Crediti: F. Fiore & M. Elvis, Space Policy, 2025
A proposito di Stati Uniti: la new space economy per ora sembra soprattutto un fenomeno a stelle e strisce. O è solo un’impressione? Cina, India, Russia e soprattutto Europa come si collocano?
«È certamente vero che la new space economy è esplosa negli Stati Uniti negli ultimi anni, anche se le radici erano stato piantate durante gli anni Duemila. E come spesso avviene l’Europa recepisce questi cambiamenti con almeno una decade di ritardo. Oggi si stanno piantando radici anche da noi, e stanno già nascendo o si stanno sviluppando, in Europa e in Italia, molte interessanti realtà in ambito new space economy, sia in ambito upstream (infrastrutture spaziali) che downstream (servizi). Esa sta cominciando a finanziare con una qualche regolarità piccole e medie imprese innovative, per aiutarle a crescere ed emergere (quello che la Nasa ha fatto con grande successo a partire del 2005). Insomma con la solita lentezza e la solita viscosità anche il Vecchio continente si sta muovendo. Diverso è il discorso in Cina, dove è in atto un vero e proprio boom nelle attività spaziali, sia in ambito governativo che in quello pubblico-privato. Dovesse prevalere il modello Trump negli Stati Uniti, scontata l’atavica lentezza europea, sarà probabilmente la Cina a scrivere molte delle prossime pagine nello sfruttamento e nell’esplorazione spaziale».
E cos’è che più frena l’Europa dello spazio? Il modello Esa? La Ue?
«Questa è una domanda davvero complicata! Soprattutto per uno scienziato come me, che non è né un politico né un imprenditore. Personalmente ritengo molto istruttivo quello che scrive Mario Draghi nel capitolo dedicato allo Spazio del suo Report The Future of European Competitiviness, in particolare le sezioni su “The Root Causes Of The Eu’s Competitive Gap” e “The Perspective Moving Forward”».
Dal vostro studio trapela nel complesso un atteggiamento positivo, nei confronti della new space economy. Anche quando ricordate il suo sviluppo impetuoso in termini quantitativi, dai 200 satelliti all’anno lanciati nel 2000 agli oltre 3000 del 2023. Molti vostri colleghi, invece, sono a dir poco preoccupati per le possibili conseguenze – dalla scomparsa del cielo incontaminato alla cosiddetta “sindrome di Kessler”. Apocalittici o integrati: alla fine chi avrà ragione?
«Come tutti i processi anche quello dell’utilizzo delle risorse spaziali e dell’esplorazione spaziale è un processo che va governato e non subito. Atteggiamenti apocalittici non credo siano di nessuna utilità, come la storia ha lungamente insegnato. Il problema concreto da porsi da subito è come rendere l’utilizzo e l’esplorazione spaziale sostenibili, per evitare gli errori che abbiamo già commesso qui sulla Terra. Giusto lo scorso anno anche l’Italia si è dotata di una legge che regolamenta le attività spaziali, unendosi agli Stati Uniti, il Giappone, il Lussemburgo, la Francia e pochi altri paesi. Il problema è che per definizione lo spazio è “multilaterale”, e il multilateralismo ultimamente va molto poco di moda. L’unico trattato esistente a livello mondiale risale al 1967, l’Outer Space Treaty. Pur contenendo concetti fondamentali come l’imposizione che lo spazio e i corpi celesti vengano utilizzati solo per scopi pacifici, è evidente che questo trattato non possa tenere conto delle esigenze di sostenibilità con le quali abbiamo a che fare oggi. Lo scorso ottobre ho partecipato a un workshop su space laws, e i partecipanti erano divisi su due posizioni contrastanti: da un lato chi chiedeva la stesura di nuovi trattati per regolamentare l’utilizzo delle risorse spaziali, dall’altro chi invocava la totale assenza di regole con una visione da “conquista del far west”, perché regole e burocrazia non possono che rallentare appunto la conquista. Il problema è che l’ambiente spaziale è spesso molto più delicato e fragile di quello terrestre, e potrebbe semplicemente non supportare e sopportare un atteggiamento da cow boy senza regole. Per fare un esempio banale, un grosso lander che alluna può scagliare rocce e detriti a chilometri di distanza (qualche roccia lunare è stata addirittura scagliata in orbita dai Lem). I buoni landing site attorno al polo sud lunare, obiettivo delle prossime missioni Nasa (Artemis) e cinesi (Ilrs), sono pochi. Cosa può succedere se un lander Artemis allunando ne danneggia un altro Ilrs o viceversa?»
In conclusione, dal punto di vista dell’astrofisico, lei come la vede la new space economy? Più un’imperdibile opportunità o più una strada obbligata?
«È certamente una strada obbligata ma soprattutto una grande opportunità!»
Per saperne di più:
- Leggi su Space Policy l’articolo “Space science & the space economy”, di Fabrizio Fiore e Martin Elvis






