Quella che segue è la trascrizione del settimo episodio di Houston, un podcast di Media Inaf che parla di spazio, atterraggi falliti, innovazioni disperate e soluzioni geniali. Ideato, realizzato e condotto da Valentina Guglielmo, quest’episodio – pubblicato per la prima volta il primo luglio 2024 – è dedicato alla missione Eureca dell’Esa e ha come ospite il fisico Paolo Ferri. Potete ascoltarlo su Apple Podcasts, su Spotify e su YouTube. Oppure direttamente da qui.

Crediti per la foto di Eureca: Nasa
Paolo Ferri
“Problemi degli anni 80-90 con l’hardware, innovazione nel software e nel concetto dell’avionica, e test condotti in modo piuttosto superficiale e poco documentati hanno messo insieme uno scenario da incubo, da incubo, per noi operatori”
[inizio musica]
Valentina Guglielmo
Quando la missione Eureca fu approvata, alla fine degli anni ’80, l’agenzia spaziale europea non aveva ancora compiuto vent’anni e non aveva alcuna esperienza di voli con esseri umani a bordo. Eureca era infatti una missione che doveva essere trasportata nel cargo-bay di uno Shuttle, accomodata in orbita, lasciata per circa sei mesi a eseguire esperimenti in microgravità e infine riportata sulla terra; per poi essere ripulita e rimessa in sesto e riutilizzata per nuovi esperimenti nelle stesse modalità. Da qui il nome, “European retrievable carrier”, un laboratorio volante per esperimenti scientifici da eseguire in microgravità.
Una piattaforma innovativa per l’epoca. Talmente tanto che ci vollero poi 20 anni per portare le innovazioni di Eureca in altri satelliti: me l’ha raccontato Paolo Ferri, la voce esperta e ormai famigliare che ci ha accompagnati in tutte le puntate di questo podcast. E mi ha detto anche che, proprio perché così innovativa in una realtà così giovane, Eureca si è rivelata una miniera di guasti. Ferri era all’inizio della sua carriera in Esa e lavorava come vice operations manager della missione.
Io sono Valentina Guglielmo e questo è un podcast di Media Inaf che parla di spazio, atterraggi falliti, innovazioni disperate e soluzioni geniali. Si chiama Houston.
[fine musica]
Paolo Ferri
L’ottanta per cento dei problemi che ho vissuto in tutta la mia carriera dopo Eureca, sono stati altri 30 anni, li avevo già avuti con Eureca. Quindi è stata una scuola davvero fondamentale. Tutto m’è successo, tutto.
Valentina Guglielmo
Era il 1 febbraio 1986 quando Paolo Ferri assunse il suo primo incarico in un team che si occupava del controllo ingegneristico di una missione, e succedeva proprio per Eureca. Prima di quel momento, Ferri, fisico di formazione, si era sempre seduto dalla parte degli scienziati. Eureca, l’abbiamo detto poco fa, significa “European retrievable carrier”, ed era un satellite pesante circa 4 tonnellate e mezzo che ospitava una quindicina di esperimenti scientifici da eseguire in microgravità; progettato per viaggiare a bordo di uno Shuttle.
Era il primo febbraio 1986 dicevamo, e appena tre giorni prima, il 28 gennaio, era esploso lo Space Shuttle Challenger, in un tragico incidente che appena due minuti dopo il lancio distrusse il veicolo uccidendo tutti e sette i membri dell’equipaggio. Inevitabilmente, questo ha significato quattro anni di ritardo per Eureca: lancio rimandato dal 1988 al 1992.
Paolo Ferri
Per fortuna, perché abbiamo avuto quattro anni per rimediare a tanti dei problemi a Terra, problemi anche nostri. Per esempio, proprio per il fatto che era la prima volta che ci interfacciavamo con il mondo dello Human Space Flight, l’Esoc ha totalmente sottovalutato le risorse che erano necessarie. La Nasa, che hanno le risorse appunto 10-20 volte maggiori delle nostre, quando interfacci con loro, pretendono e creano lavoro che è abbondantemente superiore a quello che noi potevamo gestire. Io ero responsabile del team dell’interfaccia con la Nasa, praticamente io lavoravo di giorno per il nostro lavoro e di notte per l’interfaccia con la Nasa. E quando ero in America, lavoravo di giorno per l’interfaccia con la Nasa e di notte per il nostro lavoro. Io ho fatto anni a lavorare una media del 150-180 per cento, cioè io lavoravo quasi il doppio di ore di quelle normali. Comunque, per fortuna, ero giovane e per fortuna non ho più vissuto una situazione come quella nella mia vita. Ma le posso dire che nel team di Eureca il carico di lavoro era tale per cui abbiamo avuto molti che hanno avuto problemi di salute gravi. Breakdown, eccetera.
Nel mio caso io sono riuscito a sopravvivere perché appunto ero giovane, ero appassionato e nel corso degli anni successivi non ho più avuto una situazione di genere. Questa è una situazione in cui tutti i problemi che le dicevo della missione sono stati aggravati da una sottostima da parte dell’Esoc delle risorse perché non eravamo abituati. Appunto l’interfaccia con la Nasa è stata come duplicare, avremmo avuto bisogno del doppio delle risorse, perché quella ci ha creato il doppio di lavoro. Detto questo, appunto, metta insieme tutto questo e adesso le posso raccontare un sacco di cose.
Valentina Guglielmo
Era il 31 luglio 1992 e alle 13:56 minuti e 48 secondi Utc (il tempo coordinato universale) lo Space Shuttle Atlantis si è alzato in volo per la sua missione, denominata Sts-46. Nella stiva, assieme a Eureca, c’era anche il satellite italiano Tss-1 al suo primo volo. Il fatto che Eureca fosse progettata per essere trasportata in orbita da uno Shuttle implicava il coinvolgimento dell’Agenzia spaziale europea, l’Esa, e del suo centro di controllo di Darmstadt – e anche della Nasa, con il suo centro di controllo a Houston. Dopo il dispiegamento di Eureca, previsto già il primo giorno di missione, lo Shuttle avrebbe lasciato l’orbita e si sarebbe concentrato sulle operazioni che riguardavano Tss-1. Durante il lancio, Eureca era collegato elettricamente allo Shuttle attraverso una sorta di cordone ombelicale ed era spento: non poteva quindi comunicare né inviare telemetria al Centro di controllo di Houston e Darmstadt, e nemmeno ai pannelli di monitoraggio dello Shuttle nel compartimento dell’equipaggio. Nove minuti dopo il decollo il serbatoio principale dello Shuttle si è separato, e la navicella aveva già raggiunto un’altitudine di 426 km, inserendosi nell’orbita circolare prevista.
A questo punto, si poteva già procedere all’apertura dei portelloni della stiva e all’attivazione dell’unità di controllo termico di Eureca, tramite un interruttore situato sul pannello di controllo. Meno di due ore dopo l’inizio del volo, i primi dati di telemetria di Eureca sono apparsi sul display nel compartimento dell’equipaggio dello Shuttle, e da lì – attraverso la rete di comunicazione della Nasa sono giunti a Houston e infine al centro di controllo dell’Esa di Darmstadt, in Germania. La missione Eureca è formalmente iniziata.
Paolo Ferri
Le nostre operazioni cominciavano 12 ore dopo. Dodici ore dopo gli astronauti dovevano azionare alcuni pulsanti sui loro pannelli, lo Shuttle passava corrente a Eureca e a quel punto con il braccio robotizzato un nostro astronauta, Claude Nicollier, uno dell’Esa che era a bordo per quello, la tirava fuori dal cargo bay dello Shuttle. Noi continuavamo, usando lo Shuttle, quindi noi non usavamo le nostre stazioni ma mandavamo le nostre istruzioni, i nostri comandi a Houston; Houston li passava a White Sands, che è il centro di controllo della loro rete – si chiama TDRS, la rete di Data Relay Satellite che supporta ancora adesso le missioni umane in bassa orbita; White Sands le mandava a un satellite Tdrs e Tdrs lo mandava allo Shuttle; lo Shuttle aveva un’antennina che le mandava a Eureca. Quando volevo mandare un comando era Esoc, Houston, White Sands, Satellite Data Relay, Shuttle, Eureca.
E lo stesso la telemetria, Eureca veniva ricevuta dallo Shuttle, lo mandava a un satellite di Data Relay, questo giù a White Sands, White Sands Houston, Esoc. Per noi era trasparente, nel senso che semplicemente il canale era quello. Però l’ultimo passo di questo canale aveva un problema che non era stato scoperto nei test di Terra, per vari motivi. Non posso andare in dettaglio, o meglio potrei andare in dettaglio, ma ci perderemmo tutto il giorno. Cosa è successo? Che quando abbiamo cominciato ad attivare Eureca, noi mandavamo i nostri comandi e Eureca piano piano accendeva le varie cose. A un certo punto abbiamo cominciato a vedere interruzioni di telemetria, perdevamo la telemetria, non ci arrivava più l’informazione della satellite, poi tornava, poi la perdevamo di nuovo, insomma era impossibile lavorare. E qui ha cominciato a ritardare tutte le attività, non si capiva quale problema ci fosse. E noi avevamo un’attività che era molto critica, dovevamo aprire i pannelli solari.
Valentina Guglielmo
Ed Eureca era già da solo?
Paolo Ferri
No, no, no, gli astronauti l’avevano tirata fuori, ma era ancora attaccata al braccio robotizzato. Io avevo il turno che partiva dall’attivazione fino al momento in cui eravamo pronti per rilasciarla. E poi veniva l’altro team con l’altro Operations manager. Io ero l’Operations manager del team B, ero il suo vice, guidavo il team B. Lì si lavora 24 ore su 24. Arrivava l’altro team, rilasciavano Eureca e continuavano le attività, dovevano fare una manovra orbitale, eccetera.
Però il mio team era incaricato di attivare tutto. E il primo problema grave è stato questo della telemetria, che è stato così grave che ci ha fatto ritardare di un giorno l’attivazione, perché insomma non riuscivamo a combinare niente, non capivamo. Però prima di quello abbiamo dovuto risolvere il problema dei pannelli solari, dovevamo portare Eureca a un certo livello di attivazione, in modo che poi fosse in grado di aprire i pannelli solari. E dovevamo farlo, questa era una regola sacrosanta di volo, dovevamo farlo in una fase di eclisse, cioè mentre lo Shuttle era nel cono d’ombra della Terra. Lo Shuttle ci mette un’ora e mezza a girare intorno alla Terra e sta per, non so, 45 minuti, un po’ meno forse, una mezz’oretta nel cono d’ombra. Andava fatto lì per evitare distorsioni, non volevamo rischiare distorsioni termiche. Eravamo talmente in ritardo che la nostra valutazione dell’energia nelle batterie era che si stavano esaurendo e a un certo punto abbiamo detto, “va bene, sapete che facciamo, chiediamo agli astronauti di girare lo Shuttle in modo da puntare con il cargo bay verso le stazioni di Terra e usiamo le nostre stazioni, non riusciamo a comunicare attraverso lo Shuttle”.
Quindi abbiamo usato le nostre stazioni alle Canarie e a Kourou per riconfigurare di nuovo il sistema di telemetria e per prepararlo per i pannelli solari. Questi passaggi funzionavano benissimo e quindi abbiamo detto, “bene, allora è un problema con lo Shuttle sicuramente. Eureca funziona bene”. È stata la prima volta che abbiamo avuto questa conferma. Tra l’altro le due stazioni che dovevano darci circa 20 minuti di contatto, una delle due in quel momento non ha funzionato quindi abbiamo avuto solo 10 minuti. Che poi i problemi si accumulavano. Insomma alla fine ci siamo trovati che Eureca era pronta, potevamo mandare il comando, però io ho fatto il conto delle batterie e ho detto, “beh, io non posso aspettare la prossima fase d’eclissi. Se aspetto la prossima fase d’eclissi probabilmente perdiamo tutta l’energia nelle batterie e Eureca rimane lì, me la devono buttare via praticamente”. Gli astronauti non potevano certo riportarla indietro. E allora abbiamo aperto i pannelli solari al sole, cosa che era vietata a tutte le regole di volo, ma lì la scelta era o così o la missione è persa.
E li abbiamo aperti, si sono aperti, a quel punto funzionavano, ricaricavano le batterie, benissimo. Una cosa, almeno abbiamo tolto questa bomba a orologeria, d’ora in poi possiamo pensarci bene: abbiamo parcheggiato Eureca con i pannelli puntati al sole per la notte e il giorno dopo, quando si sono risvegliati gli astronauti che seguiva Eureka, continuiamo.
Valentina Guglielmo
Cominciamo bene, insomma. Due problemi al prezzo di uno: apertura dei pannelli solari al Sole per scongiurare la fine della carica delle batterie e interruzioni nella comunicazione fra Eureca, lo Shuttle e i centri di controllo a Houston e a Darmstadt. Il primo risolto, il secondo tanto banale quanto devastante. In pratica, il sistema di decodifica dei segnali – che potete immaginare come una serie di zeri e uni – che Eureca inviava allo Shuttle – un sistema chiamato payload interrogator link – o PI-link – per poter ricostruire correttamente i bit in arrivo doveva ricevere una sequenza che contenesse almeno una transizione da zero a uno, o da uno a zero, ogni 64 bit. Una cosa normale nei sistemi di comunicazione: se c’è una sequenza troppo lunga di zeri o di uni, il sistema non riconosce più il segnale. Questo aspetto del PI-link però non era stato testato e quando inanellava sequenze troppo lunghe di bit tutti uguali perdeva il segnale. Per uscire dall’empasse, quindi, l’Esa decise di inviare i comandi direttamente al satellite Eureca usando le proprie stazioni radio a terra e senza passare attraverso lo Shuttle; e quando le antenne di terra non si trovavano in una posizione consona per dare e ricevere il segnale, si ricorreva allo Shuttle evitando di usare i pacchetti di telemetria che causavano il problema.
[registrazione originale dell’epoca a bordo dello Space Shuttle con gli astronauti che comunicano con Houston sullo stato di Eureca]
Valentina Guglielmo
Quello che avete ascoltato è un piccolo estratto della registrazione ufficiale delle comunicazioni fra lo Shuttle e Houston durante l’apertura dei pannelli, e dell’antenna di Eureca. La prima giornata si concluse quindi così, senza aver capito ancora come mai si interrompesse la comunicazione. Secondo la ricostruzione dei fatti, però, la Nasa era riuscita a identificare il problema dei bit uguali nei pacchetti di telemetria ma, per qualche ragione, questa informazione non era giunta alle orecchie del team dell’Esa, che lavorò invece tutta la notte per aggirare il problema.
Durante la missione di recupero invece, l’anno dopo, il problema era stato scoperto e sviscerato, e il team dell’Esa riuscì a programmare la sequenza di attività e di telemetria in modo che le fasi con gli zeri o gli uni fossero il minor numero possibile.
Paolo Ferri
Io ricordo che abbiamo definito questa timeline. Io e Jim Martin, che era il nostro collega del simulatore, l’abbiamo simulata all’Esoc, abbiamo prodotto tutta la telemetria di queste ore che avremmo poi vissuto durante la missione di recupero; l’abbiamo prodotta, l’abbiamo messa su un dischetto, l’abbiamo portata alla Nasa, e alla Nasa siamo andati con uno degli astronauti, un’astronauta della missione di recupero, che stava facendo il training per la missione di recupero. Abbiamo messo il dischetto in un simulatore della Nasa che ha riprodotto la nostra telemetria e abbiamo riprodotto tutta la sequenza di recupero. C’erano dei momenti in cui perdevamo la telemetria, ma io li sapevo, era tutto previsto, perché ormai sapevo qual era il problema.
Quindi io stavo lì e dicevo: “adesso perdi la telemetria”, e si perdeva la telemetria, “adesso la recuperi”, e la si recuperava. Quindi abbiamo detto alla Nasa che avevamo capito il problema e che ce l’avevamo sotto controllo, anche se il problema c’era ancora, e quindi ci hanno permesso di recuperarci, altrimenti non ci portavano neanche più giù, perché è stato gravissimo il problema, anche di sicurezza degli astronauti. Questo è uno, il più grave secondo me.
Valentina Guglielmo
Questo è uno, dice Ferri. Se torniamo ai primi due giorni di vita di Eureca, infatti, pannelli solari e comunicazione con lo Shuttle non sono stati gli unici problemi. Diversi imprevisti e malfunzionamenti continuavano a sommarsi. Di nuovo Paolo Ferri.
Paolo Ferri
Durante queste fasi abbiamo avuto altri problemi in parallelo. Uno di questi è quello a cui mi riferivo prima, l’interfaccia dell’unità di controllo termico con il computer principale, a un certo punto si bloccava, si impastava come si diceva con i computer di una volta, “si è impastato questo programma”. Quindi, si bloccava e l’unico modo per recuperarla era spegnerla, riaccenderla, riattivarla e farla ripartire. Ma questa si bloccava ogni mezz’ora e il monitoraggio termico era fondamentale perché avevamo a bordo 600 kg di idrazina, un rischio molto grave per gli astronauti. Se l’idrazina scende sotto certe temperature può spaccare le linee, può avere delle esplosioni adiabatiche. È un hazard, come dicono gli americani, per cui c’erano le regole di volo che dicevano che se perdi il monitoraggio termico per più di un quarto d’ora, il Flight director della Nasa dice buttate via Eureca. E noi l’abbiamo perso anche per più di un quarto d’ora, però siamo riusciti a tenerli tranquilli.
Valentina Guglielmo
Dopo quanto si è manifestato questo problema?
Paolo Ferri
Quasi subito, quasi subito. In parallelo al problema della telemetria, quindi c’era un caos totale. I colleghi dell’industria che erano qui se lo aspettavano, ma nessuno era pronto, anche loro ci hanno detto “dovete far ripartire l’interfaccia”. Grazie, ci voleva una procedura. Quindi abbiamo scritto su un pezzo di carta la procedura e ci è voluta qualche ora per scrivere una procedura che potesse essere eseguita senza problemi e velocemente. Comunque siamo riusciti a farlo. Dopo un po’, ogni volta che accadeva diventavamo ciechi sulla telemetria termica. Non solo, ma l’interfaccia, una delle due interfacce causava problemi, e praticamente rendeva ciechi anche sul sistema di controllo di assetto. Il tutto acciecati dal problema del PI-Link. Sono stati due giorni da incubo, da incubo. È stato appunto in quest’occasione, in quel mio shift che doveva durare 12 ore, che sono stato 16 ore seduto alla console, non sono neanche andato in bagno, non mi sono mai alzato, 16 ore. Quando mi sono alzato non riuscivo a camminare, un po’ per la tensione, un po’ per il fatto che non mi ero mosso da lì. Sono stati momenti drammatici. Questi sono due dei problemi principali, poi ce ne sono stati altri, pazzeschi, anche errori operativi da parte della Nasa, tra l’altro.
Valentina Guglielmo
Come avete fatto a convincere quelli della Nasa a non buttare via Eureca?
Paolo Ferri
Beh, diciamo che un po’, adesso sto dicendo forse cose un po’ esagerate, un po’ eravamo talmente tutti confusi che non era neanche ovvio… cioè, io ero convinto che il controllo termico funzionasse, però in certe fasi non funzionava e comunque avevamo perso il monitoraggio. Gli astronauti non vedevano il monitoraggio, quindi loro in teoria potevano dire, dopo un quarto d’ora “signori, non ho il monitoraggio da un quarto d’ora, buttiamo via Eureca”, e consigliare al Flight Director di buttarla via. Però la situazione era talmente confusa, la telemetria che si interrompeva, tutti questi problemi in parallelo, che nessuno era lì col timer. Le poche volte che la Nasa lo ha messo in discussione, non ho mentito, ma sono riuscito a fare il gioco delle tre carte e a convincere chi si poteva andare avanti. Nella mia coscienza ero a posto, perché sapevo, nelle poche finestre di monitoraggio, che le temperature dell’idrazina, quelle critiche, erano molto buone e molto lontane dai limiti. E non c’erano sbalzi tremendi, erano molto stabili. Quindi non ero preoccupato, però fondamentalmente abbiamo violato questa regola. Alla fine, dopo queste due, tre ore, siamo riusciti con questa procedura: ogni volta che avveniva, riattivavamo l’interfaccia ed era una questione di minuti, ma all’inizio senza monitoraggio c’è stato un tempo più lungo di mezz’ora, e forse senza il controllo anche più di mezz’ora. Insomma, è stata molto, molto drammatica quella situazione, tutti questi problemi in parallelo.
Valentina Guglielmo
Eureca fu infine sganciata alla ventisettesima orbita, alle 07:07 Utc del mattino del 2 agosto, tre giorni dopo il lancio, e lo Shuttle fu subito portato a distanza di sicurezza. Il team di controllo di Eureca a Esoc – Darmstadt – ha quindi acceso il sistema di propulsione a idrazina per cominciare una manovra di 21 minuti che serviva ad alzare l’orbita a 508 km di altitudine. Non appena furono accesi i propulsori, però, l’assetto di Eureca diventò instabile e il satellite iniziò a muoversi velocemente di lato. Avvicinandosi pericolosamente allo Shuttle.
Paolo Ferri
Eureka ha cominciato a essere instabile, come assetto, e il risultato di questi spari è che ha cominciato ad avvicinarsi velocemente allo Shuttle. Era lontano forse un paio di chilometri, in un punto in cui oltretutto eravamo in eclisse, e quindi lo Shuttle non lo vedeva, e il pilota aveva solo il radar, che ha cominciato a fare bip, bip, bip, bip, bip, bip, bip, bip [volume crescente, ndr]. Il pilota dello Shuttle ha azionato i thrusters per allontanarsi. Lui vedeva arrivare questo oggetto sempre più veloce, ora quanto sia stata grave la situazione dal suo punto di vista, però quando ha parlato nel debriefing usò il termine aggressive thrusting, quindi vuol dire che si è messo a sparare i thrusters per allontanarsi perché era preoccupato di una collisione. Ha persino svegliato quelli del team che dormivano, perché quando questi thrusters nello shuttle, che sono piuttosto grossi, si azionano fanno un rumore tipo “beng!” e quelli del team che dormiva si sono svegliati, sono andati su, “che sta succedendo?” Credo che a bordo dello Shuttle sia stato un momento piuttosto drammatico, noi non l’abbiamo vissuto, io non c’ero lì al centro di controllo e comunque non eravamo a bordo, però è stato un problema grave e a quel punto abbiamo detto “ma qual è il problema? Che succede?” Eureca era instabile, e ci sono voluti tre giorni, tre giorni in cui la gente ha lavorato giorno e notte assieme aquelli dell’industria, a quelli del progetto eccetera, per capire cosa stesse succedendo.
Valentina Guglielmo
Ed Eureca in questi tre giorni dove andava?
Paolo Ferri
Beh a questo punto lo Shuttle se n’è andato perché aveva da fare la sua missione e noi eravamo lì in un’orbita bassa, a circa 400 chilometri, non eravamo nella nostra orbita finale ma potevamo aspettare quanto a lungo volevamo, anche se non sapevamo come fare la manovra perché quando avevamo tentato non funzionava. Quindi tre giorni, con titoli sui giornali tipo “Eureca persa nello spazio”, ma non era persa nello spazio, era su un’orbita bassa in attesa che si risolvesse il problema, ma non si capiva che problema era, sembrava che funzionasse tutto. Non capivamo, finché uno di questi tre giorni ho detto a quelli della Dinamica del volo “preparo lo stack di comandi e vi lascio un print out da controllare, una stampata dei comandi da controllare bene quando voi arrivate per il prossimo shift e fate il vostro test”. Vado a casa, torno per il mio shift successivo, il giorno dopo, e mi dicono “abbiamo trovato il problema”: era un problema di interfaccia tra il computer della dinamica del volo e il nostro computer. I due computer sbagliavano l’ordine dei parametri, quindi la tabella che noi mandavamo su aveva i valori dei parametri nell’ordine sbagliato. Non potevamo vederlo a occhio perché erano tutti numeri – penso forse 15 o 16 numeri – lunghi così, con 15 cifre o cose del genere. Quindi non è che uno a occhio lo vedeva, bisognava fare un’analisi. Per fortuna grazie a questo test abbiamo scoperto che quello era il problema.
Valentina Guglielmo
Dopo soli sei minuti di manovra e tre giorni di inattività per ricercare il problema, Eureca si trovava su un’orbita leggermente ellittica, con un perigeo di 432 km e un apogeo di 448 km. La manovra che doveva portare il satellite alla sua orbita finale a 508 km fu rinviata di diversi giorni.
La prima fase della missione Eureca, la cosiddetta Launch and Early Orbit Phase, o Leop, fu considerata una delle più difficili di tutta la storia dell’Esa. Il numero di guasti e problemi che si sono verificati in parallelo ha messo i team operativi della missione sotto una pressione estrema, aggravata dal fatto che la sicurezza degli esseri umani, cioè dell’equipaggio dello Shuttle, doveva rimanere sempre la priorità indiscussa.
[stacco musicale]
E arriviamo a metà agosto, pochi giorni prima della fine formale della Leop. Il team dell’Esa rileva una strana riduzione della corrente di carica in una delle due ali dei pannelli solari. I pannelli di Eureca erano organizzati in lunghe stringhe, e divisi in settori di carica e settori di utilizzo in tempo reale. Solo i primi potevano essere monitorati. Il guasto riguardò, in quel caso, una singola fila di celle solari, e non fu considerato rilevante.
Non se fosse rimasto un evento isolato. Invece, pochi giorni dopo, fu osservata un’improvvisa caduta di 0,4 A nella corrente di carica di un’altra sezione di celle solari. Poi, il 21 settembre, un’altra ancora, questa volta di 2,9 A e in un’altra sezione. E poi, quasi un mese dopo, il 17 ottobre, altri due eventi di riduzione della corrente di carica in altre due sezioni.
Paolo Ferri
Dopo che è successa la prima stringa l’industria ha analizzato e ha detto, dev’essere stato un micrometeorite che ha colpito quel punto lì. E io dicevo “porca miseria che scarogna – stavo per usare un’altra parola – proprio in quel punto lì un micrometeorite”. Però vabbè. Quando è successo due settimane dopo, in un altro punto, la stessa roba, noi abbiamo detto “un altro micrometeorite?” Chiaro che era una storia già prima poco probabile, la seconda volta era chiaro che era una storia poco credibile.
Valentina Guglielmo
Di fronte all’evidenza, quindi, l’industria cominciò a eseguire una serie di analisi per individuare il problema. L’ipotesi che avanzò, infine, fu anche confermata poi quando il satellite rientrò a terra. Abbiamo detto che i pannelli erano due lunghe ali con le celle solari organizzate in stringhe. Ebbene, nelle zone di congiunzione fra le varie stringhe c’erano delle viti di metallo coperte da placche di plastica per evitare che l’ossigeno atomico presente in atmosfera entrasse e ossidasse la vite. Invece, a causa dei continui cicli termici a cui era sottoposto il satellite – che ogni ora e mezza circa passava da Sole a ombra – la plastica si era rovinata e l’ossigeno riusciva a entrare e a ossidare le viti. La soluzione? Nessuna possibile.
Questo processo di ossidazione continuava inesorabile e c’era solo da sperare che qualche pannello si salvasse e continuasse a dare energia nei mesi a seguire. Alla fine della missione, durata circa 11 mesi, Eureca aveva perso 19 delle 40 stringhe di pannelli solari in dotazione. Man mano che le stringhe venivano perse, l’unica manovra possibile era cercare di aggiustare il consumo energetico della missione per scongiurare il rischio di scaricare completamente le batterie durante le fasi di ombra.
Paolo Ferri
Quando abbiamo finito la missione, quasi metà delle stringhe di ricarica erano state perse completamente. E l’altra metà, abbiamo visto quando l’abbiamo riportato a terra, anche lì erano tutti incrinati. Però per fortuna non erano ancora danneggiati completamente. Penso che se avessimo fatto una missione di un paio di mesi in più non ce l’avremmo fatta. Grazie ad altri guasti che sono successi – adesso se li racconto tutti passiamo tutto il giorno – avevamo la possibilità di usare meno corrente perché certi strumenti si sono rotti quasi subito, quindi non ci serviva la corrente di quelli. Insomma grazie ad altri guasti e ad altri problemi abbiamo ridotto il nostro consumo e siamo riusciti ad arrivare alla fine della missioneche consumavamo solo il 50 per cento. Altrimenti non ce l’avremmo fatta.
Valentina Guglielmo
Eureca doveva rimanere in orbita circa sei mesi, al termine dei quali avrebbe dovuto essere caricata a bordo di un altro Shuttle e riportata sulla terra. Rimase invece in orbita circa undici mesi – quasi il doppio – a causa di ritardi nella missione di recupero. Da fine luglio 1992 a giugno 1993. Undici mesi, un bilancio impietoso: Eureca aveva perso metà dei pannelli solari, due giroscopi su sei, tre payload su dodici e molti altri strumenti e piccole cose. A quei tempi, dice Ferri, era così: l’hardware nei satelliti si guastava. E considerando com’è andato quell’anno in orbita, secondo voi, ci si poteva aspettare che la missione di recupero filasse via liscia?
[registrazione audio del lancio dello Space shuttle Endeavor per il recupero di Eureca]
La missione Shuttle che aveva l’onere – forse più che l’onore – di recuperare Eureca si chiama Sts-57. Prevedeva un equipaggio di sei astronauti e un solo turno operativo – che significa che durante la missione ci sarebbe stato un periodo “diurno”, in cui si svolgevano le operazioni, e un periodo “notturno”, in cui l’equipaggio dormiva. L’equipaggio degli astronauti era ovviamente cambiato rispetto all’anno prima, e anche quasi tutti i controllori di missione della Nasa a Houston. Nonostante questo, l’informazione che Eureca fosse una bella gatta da pelare era trapelata, e lo stato d’animo alla Nasa non era dei migliori. I colleghi di terra, racconta Ferri, erano molto più cauti rispetto all’inizio e si fidavano poco del comportamento del veicolo spaziale. Mentre il comandante dello Shuttle – come biasimarlo –voleva avvicinarsi a Eureca solo una volta che questa fosse completamente disattivata.
Per il team operativo di Eureca a Darmstadt, invece, questa richiesta era inconcepibile. Disattivare completamente Eureca aumentava il rischio che questa diventasse un pericolo per lo Shuttle. Non solo, dopo aver sentito ciò che era accaduto durante la missione di spiegamento, il comandante dello Shuttle non si fidava della telemetria e del collegamento di telecomunicazione da terra attraverso il PI-link dello Shuttle. E chiedeva che l’intera sequenza di disattivazione fosse memorizzata nel computer di bordo del veicolo spaziale ed eseguita automaticamente al momento giusto, mentre lo Shuttle eseguiva la sua sequenza di avvicinamento. Anche di fronte a questa richiesta, il team dell’Esa era molto preoccupato, perché la sequenza di disattivazione comprendeva la chiusura dei pannelli solari, e ciò significava che Eureca avrebbe dovuto fare affidamento solo sull’energia immagazzinata nelle batterie.
Paolo Ferri
Quindi è stata una lotta di principio pesantissima, grandi discussioni eccetera. Indovini chi ha vinto alla fine? Il comandante dello Shuttle alla fine ha sempre l’ultima parola. Alla Nasa sono molto molto consci tutti di questo: il direttore di volo, quello che dice lui è legge su tutti anche sul capo del Johnson Space Center. L’unico che può dire qualcosa contro il direttore di volo o che ha un potere decisionale più alto è il comandante dello Shuttle, perché insomma lui ci mette anche la sua vita. È anche comprensibile. Quindi figuriamoci se il comandante dava ragione a un pischello come me, però è stata una lotta piuttosto pesante nella quale io ho ottenuto alcune variazioni che mi hanno un po’ rassicurato.
Valentina Guglielmo
Il rischio che qualcosa andasse storto nella chiusura dei pannelli o delle antenne era altissimo. E anche il fatto di avere a che fare, a quel punto, con un satellite inerte. Non solo: con Eureca completamente ripiegata e alimentata solo dalle batterie, un piccolo ritardo dello Shuttle, che doveva afferrarla e alimentarla con i propri sistemi, avrebbe portato alla perdita della navicella. Insomma, dei presupposti non proprio rassicuranti.
Paolo Ferri
Eureca andava riportata giù anche perché aveva dei campioni scientifici in microgravità, quindi noi avremmo perso una buona parte della missione e in più avremmo perso un satellite che in teoria andava fatto rivolare altre quattro volte e in più avremmo perso la possibilità di analizzare tutti i problemi, eccetera. Era gravissima la cosa.
Valentina Guglielmo
Perdere Eureca, quindi, era un rischio per gli astronauti in primis, e poi un fallimento ingegneristico, e anche scientifico. Comunque, le operazioni di impacchettamento del satellite andarono a buon fine. I bracci contenenti i pannelli solari furono ripiegati senza problemi e i sei ganci che dovevano bloccarli funzionarono perfettamente. L’ultima operazione prima di far ri entrare Eureca nella stiva dello Shuttle era ritrarre le antenne contro il corpo del satellite. Le antenne erano due bracci lunghi un paio di metri che dovevano ripiegarsi su se stessi e poi, tramite l’azione di un motorino, essere agganciati al satellite. Ebbene, le antenne si piegarono come da programma, ma nessuna delle due si agganciò.
Paolo Ferri
Piega le antenne, nessuna delle due si è agganciata. Si è piegata bene ma si è fermata lì e il gancio non partiva, e anche qui quelli dell’Industria: “Eh sì in effetti anche quando lo facevamo a terra era lo stesso, dovevamo andar lì a spingerla”. Ma come? Ma stiamo diventando matti? Non ci avevano detto niente. Ok, avevamo una procedura di emergenza per questo, che era: invece di portare Eureca nel Cargo Bay perché era totalmente impacchettata, restava attaccata al braccio robotizzato, e il giorno dopo un astronauta sarebbe uscito agganciando i piedi al Cargo Bay e avrebbe spinto l’antenna mentre noi mandavamo il comando di agganciamento. Esattamente quello che han sempre fatto a terra.
Valentina Guglielmo
Eureca viene quindi agganciata allo Shuttle, ma – altro problema – il braccio robotizzato non dà potenza elettrica. Per qualche ragione, il collegamento non funzionava. Il satellite non poteva certo essere lasciato attivo senza potenza e senza pannelli solari per una notte intera, perché avrebbe esaurito le batterie e sarebbe stato perso. Si decise quindi di spegnere tutto, di portare Eureca vicino al cargo-bay e agganciarla a un cordone ombelicale che desse potenza per mantenere almeno attivo il sistema termico, e di attendere il giorno dopo per riattivarla in modo che ricevesse i segnali da terra mentre l’astronauta spingeva l’antenna contro il corpo del satellite. Il team all’Esa passò quindi la nottata a produrre, da zero, una nuova sequenza di oltre cento comandi per riattivare il satellite il giorno seguente con la poca energia rimasta nelle batterie.
Paolo Ferri
Il giorno dopo toccava al team principale – però io sono rimasto lì quindi anche lì mi sono fatto le solite 24-30 ore di seguito. Gli astronauti si preparano, escono in due astronauti e uno dei due David Low invece di agganciarsi sul limite del Cargo Bay si aggancia al braccio robotizzato; il braccio robotizzato lo porta fino a dove era immagazzinata Eureca, che era dietro un altro di questi cassoni (trova anche le foto su internet) e lui a testa in giù mentre noi attivavamo la sequenza e portavamo Eureca nello stato in cui potevamo poi dare il comando del gancio. Lui è stato lì ad aspettare un attimino e quando eravamo pronti spinge e noi mandiamo il comando del gancio. Arriviamo all’ultimo comando prima di dirgli “siamo pronti”, mandiamo questo comando e perdiamo lo stato di questo sistema elettronico che nella telemetria non ci dava più i valori giusti. A quel punto eravamo molto perplessi. Fino a un secondo prima funzionava e faceva vedere tutto giusto, l’ultimo comando non va… Porca miseria. Vabbè, abbiamo detto “fa niente, digli di spingere e noi mandiamo comunque il comando di agganciare che magari funziona lo stesso”. E in quel momento abbiamo perso il contatto con lo Shuttle, perché stava attraversando un buco di comunicazioni nel sistema di data relay. E quindi abbiamo dovuto aspettare 10 minuti, 10 minuti in cui lui è stato lì ad aspettare e quando finalmente abbiamo ripreso la comunicazione abbiamo detto “OK, go, spingi”. Lui ha spinto, noi abbiamo mandato il comando e si è agganciato. Quindi poi il braccio robotizzato l’ha portato dall’altra parte, “spingi”, ha spinto l’antenna, abbiamo mandato il secondo comando e si è agganciato. Risolto. Due cose da dire qua: prima di tutto quando io dico “spingi” non era così: io dovevo dirlo alla mia interfaccia a Houston, quindi io facevo “Houstopayload – Eureca SOM: go ahead, go to push”. Va bene. Allora poi sentivo Payload che parlava col Capcom che è l’unico che può comunicare con lo shuttle “Capcom – Payload go for pushing”; Capcom chiamava Atlantis: “Atlantis IV go ahead”. IV, che era uno al dentro Atlantis chiama quello fuori “EV – IV go ahead go for pushing”. E allora spinge. Poi “EV – IV, I’m pushing”; “Houston Atlantis – Capcom, they’re pushing”; “Payload-Capcom, they’re pushing”; “Eureca SOM – Payload, they’re pushing”; “Ok, very good”: manda il comando e poi la stessa cosa. Questa era la comunicazione e lui rimaneva lì a spingere per qualche minuto.
L’altra cosa che racconto molto volentieri è che nel debriefing noi ci siamo un po’ scusati con David Low per questo misunderstanding, perché era tutto a posto con quel comando, abbiamo capito dopo cos’era successo. Quel comando disattiva una certa elettronica e quindi era giusto che sparissero i valori, ma comunque non c’era bisogno di aspettare. Però vabbè in quel momento eravamo confusi e abbiamo dovuto capire, quindi ci siamo scusati. Ho detto: “ci spiace che l’abbiamo fatta aspettare quei 10 minuti per niente, in quella posizione scomoda”, e lui ha risposto: “No, io vi ringrazio perché quando tu sei fare la passeggiata spaziale (quella che si chiama extra vehicular activity, ndr) sei talmente pieno di roba da fare e concentrato sul lavoro che non hai mai un momento in cui ti metti lì e dici “ma guarda dove sono”. Quei 10 minuti sono stati i più bei 10 minuti della mia carriera, me li sono goduti. Ero lì appeso per i piedi nello spazio, con la terra sopra di me perché ero tenuto a testa in giù e mi son goduto la terra e le stelle. Magnifico. È stato un regalo che mi avete fatto”. E vabbè, questa è la storia del rientro poi alla fine l’abbiamo riportato giù.
[inizio musica]
Valentina Guglielmo
Il primo – e unico – viaggio di Eureca è durato 11 mesi e, al netto di tutti i problemi che avete sentito in questo episodio, si è concluso con un lieto fine. È rimasto però l’unico viaggio del satellite, nonostante i piani iniziali prevedessero di farlo volare cinque volte. Il suo pensionamento anticipato però, non è dovuto alla miriade di problemi che hanno costellato la sua permanenza in orbita, come magari avrete pensato dopo questo racconto – specialmente dopo la vicenda dell’astronauta appeso e della chiusura a spinta delle antenne. Si deve piuttosto a decisioni di politica spaziale che hanno preferito portare avanti altri progetti e nuove missioni.
E di antenne continueremo a parlare anche nel prossimo episodio. Di un’antenna che non voleva saperne di aprirsi, questa volta, e che per circa tre settimane ha tenuto col fiato sospeso tecnici, ingegneri e scienziati della missione Juice, partita lo scorso anno e diretta verso Giove e i suoi satelliti ghiacciati. Io sono Valentina Guglielmo e vi aspetto nel prossimo episodio di Houston, un podcast di Media Inaf che parla di spazio, atterraggi falliti, innovazioni disperate e soluzioni geniali.
[fine musica]
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