Avete presente la vecchia tecnica “spegni e riaccendi”, ultima (ma a volte anche prima) spiaggia per tentare di emergere da anomalie informatiche sconosciute? Senza sapere quale sia il problema né come risolverlo, a volte basta semplicemente riavviare. Una cosa simile, ma a una distanza di quasi 600 milioni di km, l’ha provata la Nasa per sistemare i danni provocati dalle radiazioni di Giove sulla fotocamera della missione Juno, in orbita attorno al pianeta. I risultati di questa manovra sperimentale sono stati presentati durante una sessione tecnica il 16 luglio scorso alla Nsrec 2025, la conferenza annuale sugli effetti delle radiazioni nucleari e spaziali dell’Institute of Electrical and Electronics Engineers (Nashville, Usa).
A necessitare dell’intervento era lo strumento JunoCam, una fotocamera a colori sensibile alle lunghezze d’onda della luce visibile. L’unità ottica della fotocamera è situata all’esterno di una sorta di forziere antiradiazioni con pareti in titanio, la radiation vault, che protegge le componenti elettroniche di molti degli strumenti ingegneristici e scientifici di Juno. Questo satellite che orbita attorno a Giove, infatti, si trova in uno degli ambienti spaziali più ostili perché pervaso da campi di radiazione fra i più intensi del Sistema solare. Un problema noto, questo. E infatti, sebbene i progettisti della missione fossero fiduciosi che JunoCam potesse funzionare durante le prime otto orbite di Giove, nessuno sapeva per quanto tempo lo strumento sarebbe durato dopo.

La granulosità e le linee orizzontali visibili in quest’immagine della JunoCam (cliccare per ingrandire) sono dovute ai danni da radiazioni subiti dalla fotocamera a bordo della missione Juno della Nasa. L’immagine ritrae uno dei cicloni circumpolari sul polo nord di Giove ed è stata scattata il 22 novembre 2023. Crediti: Nasa/Jpl-Caltech/Swri/Msss
Durante le prime 34 orbite di Juno (quelle che rientravano nella cosiddetta “missione principale”), JunoCam ha funzionato normalmente, restituendo immagini in linea con le aspettative. Poi, durante la 47esima orbita, il sensore di immagini ha iniziato a mostrare tracce di danni da radiazioni. All’orbita 56, quasi tutte le immagini erano corrotte.
Pur conoscendo la causa del problema, individuare con precisione cosa fosse danneggiato all’interno di JunoCam era piuttosto difficile, stando a centinaia di milioni di chilometri di distanza. Gli indizi indicavano un regolatore di tensione danneggiato, un componente vitale per l’alimentazione di JunoCam. Non sapendo bene come uscirne, il team di Juno alla Nasa ha deciso di tentare un processo chiamato ricottura (in inglese annealing), in cui un materiale viene riscaldato per un periodo di tempo specifico e poi lasciato raffreddare lentamente. Sebbene non si sappia bene come agisca questo processo (e qui il parallelismo con il metodo “spegni e riaccendi”), l’idea è che il riscaldamento possa ridurre i difetti fisici nel materiale.
«Sapevamo che la ricottura può talvolta alterare un materiale come il silicio a livello microscopico, ma non eravamo certi che questo avrebbe riparato il danno», ricorda Jacob Schaffner, ingegnere di JunoCam, della Malin Space Science Systems di San Diego, che ha progettato e sviluppato JunoCam e fa parte del team che la gestisce. «Abbiamo comandato al riscaldatore di JunoCam di aumentare la temperatura della telecamera a 25 gradi Celsius – molto più alta del normale per JunoCam – e abbiamo atteso con ansia di vedere i risultati».
Poco dopo il completamento del processo di ricottura, JunoCam ha iniziato a produrre immagini nitide per le successive orbite. Ma la sonda si stava addentrando sempre di più nel cuore dei campi di radiazione di Giove. All’orbita 55, le immagini hanno iniziato a mostrare nuovamente problemi.
«Dopo l’orbita 55, le nostre immagini erano piene di striature e rumore», continua Michael Ravine, responsabile dello strumento JunoCam di Malin Space Science Systems. «Abbiamo provato diversi schemi di elaborazione delle immagini per migliorarne la qualità, ma niente ha funzionato. Con l’incontro ravvicinato con Io in arrivo tra poche settimane, era giunto il momento dell’Ave Maria: l’unica cosa che non avevamo ancora provato era alzare al massimo il riscaldatore di JunoCam e vedere se un annealing più estremo ci avrebbe salvato».
Le immagini di prova inviate sulla Terra durante la fase di annealing più estrema hanno mostrato scarsi miglioramenti. Poi, però, a pochi giorni di distanza dall’incontro ravvicinato con Io, le immagini hanno iniziato a migliorare drasticamente. Quando Juno è arrivata a 1500 chilometri dalla superficie della luna gioviana, il 30 dicembre 2023, la qualità delle immagini era quasi paragonabile al giorno del lancio. Una di queste la potete vedere qui di seguito: si tratta della regione polare settentrionale di Io, e mostra blocchi montuosi ricoperti di brine di anidride solforosa che si ergono bruscamente da pianure e vulcani fino a quel momento inesplorati e con estesi campi di colata lavica.

La regione polare settentrionale della luna vulcanica Io di Giove è stata ripresa dalla fotocamera JunoCam a bordo della sonda Juno della Nasa durante il 57esimo passaggio ravvicinato della sonda al gigante gassoso il 30 dicembre 2023. Per riparare i danni causati dalle radiazioni alla fotocamera in tempo per catturare questa immagine è stata utilizzata una tecnica chiamata ricottura. Dati dell’immagine: Nasa/Jpl-Caltech/Swri/Msss. Elaborazione dell’immagine: Gerald Eichstädt
A oggi la sonda ha orbitato attorno a Giove 74 volte, e purtroppo il rumore nelle immagini è tornato. Fin dai primi esperimenti con JunoCam, il team di Juno ha applicato derivazioni di questa tecnica di ricottura a diversi strumenti e sottosistemi ingegneristici. Servirà, prima o dopo, anche per i satelliti per la difesa e commerciali in orbita attorno alla Terra, dicono gli scienziati del team. Quanto alla missione scientifica di Juno, rimaniamo in attesa di nuove immagini e nuovi aggiornamenti.






