TECNOLOGIE ADATTE ALLO SPAZIO PER IL SEQUENZIAMENTO IN SITU

Due picogrammi di Dna per la vita su Marte

Una serie di test condotti su analoghi di terriccio marziano da un team di astrobiologi dell’Università di Aberdeen ha consentito di quantificare la massa minima di Dna necessaria a un dispositivo per il sequenziamento tramite nanopori – il MinIon, dalle dimensioni e dai consumi contenuti – per rilevare l’eventuale presenza di forme di vita. Il risultato su Scientific Reports

     26/09/2023

Schema della procedura sperimentale seguita. Crediti: J. B. Raghavendra et al., Scientific Reports, 2023

La ricerca di vita al di fuori della Terra è anche una questione di quantità. Quanta vita ci vuole – all’interno di un campione – per poter trovare la vita? Quanta dev’essercene, affinché gli strumenti e le tecnologie di cui oggi disponiamo siano in grado di accorgersi della sua esistenza? Una risposta, seppur parziale, arriva ora da uno studio – guidato da Jyothi Basapathi Raghavendra, dottoranda in astrobiologia all’Università di Aberdeen (Regno Unito) – i cui risultati sono stati pubblicati la settimana scorsa su Scientific Reports: due picogrammi. Ovvero due millesimi di miliardesimo di grammo. Questa è la massa minima di Dna necessaria per poter dire – con le tecnologie più avanzate oggi disponibili per analisi in situ – che in un campione di terriccio marziano c’è vita.

È tanto? È poco? Per farci un’idea, pensiamo che il genoma umano – dunque il Dna contenuto nel nucleo di una delle nostre cellule – pesa poco più di tre picogrammi, mentre un picogrammo è la massa del Dna di una cellula di colibrì. Insomma, stiamo parlando di singole cellule. Certo, per forme di vita più semplici le masse in gioco sono inferiori, ma una tecnologia sensibile ad appena due picogrammi è comunque eccezionale.

Questa tecnologia – che non richiede amplificazione mediante Pcr – si chiama sequenziamento del Dna tramite nanopori, ed è già disponibile anche su dispositivi commerciali. Quello usato dal team di Aberdeen, in particolare, ha un nome che ricorda i buffi protagonisti gialli di Cattivissimo me: MinIon. E oltre alla sensibilità ha un’altra ghiotta caratteristica per l’impiego su missioni spaziali: è molto piccolo, dunque perfetto per analisi in situ.

«Utilizzando il MinIon, che offre portabilità e tecnologia all’avanguardia», dice infatti il supervisore dello studio, Javier Martin-Torres, «abbiamo condotto gli esperimenti nel nostro laboratorio pulito, in grado di garantire che i test non siano influenzati dalla contaminazione di fondo. In questo modo siamo riusciti a stabilire la soglia minima di rilevamento di Dna del MinIon, che si è dimostrato un potente strumento per la ricerca di vita microbica in campioni prelevati da ambienti planetari».

Il laboratorio pulito nel quale sono stati condotti gli esperimenti è una camera bianca Iso5, i campioni utilizzati sono analoghi di terriccio marziano Mms-2 e, fra le dieci specie di microrganismi sul cui Dna i ricercatori hanno esercitato le capacità del MinIon, le due identificate in modo inequivocabile anche con appena due picogrammi di materiale biologico sono state l’Escherichia coli e il Saccharomyces cerevisiae. Un batterio fecale e il comune lievito di birra, insomma.

Il risultato ottenuto, conclude Martin-Torres, «apre interessanti possibilità per la ricerca marziana, in quanto le dimensioni e la potenza del MinIon lo rendono un candidato ideale per l’impiego in future missioni di esplorazione, facendo ricorso al processo che abbiamo messo a punto. Potrebbe inoltre essere impiegato in ambienti inospitali anche qui sulla Terra, come le regioni desertiche o polari, nonché per applicazioni in medicina, farmacia e chimica, dove occorre evitare la contaminazione biologica».

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