ANTICORPI, MENO EFFICIENTI NELLO SPAZIO

Perché gli astronauti si ammalano più facilmente?

Un nuovo studio condotto al Karolinska Institutet, in Svezia, ha esaminato come le cellule T del nostro sistema immunitario siano influenzate dall’assenza di peso. I risultati, pubblicati su “Science Advances”, potrebbero spiegare perché gli anticorpi degli astronauti diventano meno efficaci e meno attivi nel combattere le infezioni

     28/08/2023

Micrografia elettronica a scansione colorata di un linfocita T (noto anche come cellula T). Crediti: Niaid/Flickr

Cosa accade al nostro sistema immunitario nello spazio? È una domanda che da anni si pongono gli scienziati riscontrando, da sempre, negli astronauti una maggiore tendenza alle infezioni e minori difese immunitarie contro agenti patogeni.

Seppur affascinante e misterioso, lo spazio è, infatti, un ambiente estremamente ostile per la salute umana. Una fra le minacce che comporta è rappresentata dai cambiamenti del sistema immunitario che si verificano negli astronauti durante la permanenza nello spazio, rendendoli più vulnerabili alle infezioni e portando alla riattivazione di virus latenti nell’organismo. Cambiamenti biologici che persistono anche dopo il ritorno sulla Terra: tra i membri dell’equipaggio delle missioni Apollo, ad esempio, il 50 per cento ha riportato, di ritorno sul nostro pianeta, infezioni batteriche o virali, suggerendo quindi qualche forma di soppressione immunitaria in atto al momento dell’atterraggio.

I progressi della ricerca spaziale confermano il profondo impatto dell’ambiente spaziale sull’immunità adattativa, tra cui l’esposizione alla microgravità, l’aumento dei livelli di radiazioni, lo stress psicologico e l’isolamento in un ambiente artificiale. E un’ulteriore conferma di come la permanenza nello spazio incida sull’attivazione delle cellule immunitarie, sulla trascrizione genica e sulla loro funzionalità arriva ora dalla Svezia con una nuova ricerca, pubblicata questa settimana su Science Advances, condotta dal Karoliska Institutet (Svezia) su otto volontari in ambiente di microgravità.

«Se vogliamo che gli astronauti siano in grado di affrontare missioni spaziali sicure, dobbiamo capire come viene influenzato il loro sistema immunitario e cercare di trovare dei modi per contrastare effetti dannosi su di esso», dice Lisa Westerberg, ricercatrice al Dipartimento di microbiologia, tumori e biologia cellulare del Karolinska Institutet e coautrice dello studio. «Ora siamo riusciti a studiare cosa succede alle cellule T, una componente chiave del sistema immunitario, quando sono esposte a condizioni di assenza di peso”.

Dry immersion: i soggetti rimangono immersi in posizione supina in un bagno termo-neutro controllato (33 ± 0,5°C) in modo continuativo. Il soggetto (in questa foto nella facility di Medes di Toulouse, in Francia) è separato dall’acqua da un tessuto elastico impermeabile ed è istruito a non produrre movimenti non necessari degli arti. Crediti: Cnes–Rémi Benoit, Esa

Nello studio, i ricercatori hanno cercato di simulare l’assenza di peso nello spazio utilizzando il metodo chiamato “immersione a secco” – dry immersion, in inglese – che simula gli effetti della microgravità. Si tratta di un letto ad acqua fatto su misura che “inganna” il corpo umano facendogli credere di essere in uno stato di microgravità. I ricercatori hanno così esaminato i linfociti T – gruppi di globuli bianchi che producono anticorpi contro specifici antigeni estranei – nel sangue di otto individui sani durante tre settimane di esposizione all’assenza di peso simulata, registrando i dati e le analisi in diversi momenti: prima dell’inizio dell’esperimento; a 7, 14 e 21 giorni dall’inizio e, infine, a 7 giorni dalla conclusione dell’esperimento.

Sebbene gli effetti delle missioni spaziali nei sistemi biologici possono essere sicuramente meglio osservati proprio nello spazio, condurre ricerche a bordo di una navicella o stazione spaziale presenta diverse difficoltà, tra cui la mancanza di tempo per gli astronauti, i maggiori requisiti di sicurezza biologica e medica, la mancanza delle necessarie attrezzature di laboratorio e la lunga procedura di approvazione di un esperimento spaziale. Per superare queste limitazioni, si ricorre a sistemi analoghi a terra, uno dei quali è proprio il metodo dell’immersione a secco. Durante la dry immersion, i soggetti sono immersi, con la testa distesa, in un bagno d’acqua termo-neutro (da 31 a 35 °C) ricoperti da un film di materiale impermeabile. Rispetto ad altri esperimenti analoghi di microgravità – ad esempio quelli a testa in giù – i volontari in dry immersion sviluppano più rapidamente i sintomi tipici del corpo umano nello spazio: i risultati ottenuti con l’immersione a secco sono molto simili a quelli delle missioni spaziali reali, e riproducono accuratamente e rapidamente la maggior parte degli effetti fisiologici del volo spaziale, come lo scarico meccanico e assiale, l’inattività fisica, la ridistribuzione dei fluidi e l’ipodinamia.

Schema descrittivo della procedura sperimentale. Il sangue è stato prelevato da otto volontari sani in cinque momenti: 7 giorni prima dell’esposizione a DI (giorno 0, arancione); 7 (blu), 14 (verde) e 21 (verde) giorni durante l’esposizione a dry immersion; e 7 giorni dopo l’esposizione a dry immersion (giorno 28, rosa). Le cellule T CD3+ sono state isolate dal sangue e è stato eseguito l’Rna-seq di massa. Crediti: Carlos J. Gallardo-Dodd et al., Science, 2023

Il team svedese ha dunque scoperto che le cellule T, dopo 7 e 14 giorni di immersione, hanno cambiato la propria espressione genica – cioè il numero di geni attivi e inattivi – acquisendo una “firma genetica” simile a quella delle cellule T naïve, dunque non differenziate. In pratica, le cellule T hanno iniziato ad assomigliare di più e a comportarsi come quei linfociti T immaturi e vergini che non hanno ancora incontrato e combattuto contro alcun patogeno “intruso”. L’effetto maggiore è stato osservato dopo 14 giorni, indicando come, in microgravità, gli anticorpi impiegherebbero quindi più tempo a riconoscere il pericolo e ad attivarsi, diventando meno efficaci nel combattere le cellule tumorali e le possibili infezioni. Dopo 21 giorni, le analisi del sangue dei volontari hanno mostrato un profilo trascrizionale paragonabile a quello delle cellule T prima dell’immersione a secco, mostrando segnali di “adattamento” al nuovo sistema ambientale di microgravità: i linfociti T hanno modificato la propria espressione genica in assenza di peso, tanto da portarla quasi alla normalità. A sette giorni dalla conclusione dell’esperimento, quando i soggetti sono tornati alla normale gravità, le cellule T avevano però nuovamente cambiato le proprie caratteristiche, suggerendo, questa volta, cambiamenti nell’espressione genica simili a quelli inizialmente indotti dalla microgravità.

Questi dati suggeriscono che le cellule T si adattano cambiando il loro trascrittoma in risposta all’assenza di peso simulata e che gli spunti di “rimodellamento” persistono anche quando vengono riesposti alla gravità normale.

«I nostri risultati possono aprire la strada a nuovi trattamenti in grado di invertire questi cambiamenti nel programma genetico delle cellule immunitarie”», conclude il primo autore dell’articolo, Carlos Gallardo Dodd, dottorando al Dipartimento di microbiologia, tumori e biologia cellulare del Karolinska Institutet insieme a Christian Oertlin e Julien Record, dello stesso team di ricerca.

Buone notizie, quindi, per i futuri equipaggi degli astronauti delle prossime missioni sulla Luna e su Marte. I ricercatori intendono ora utilizzare la piattaforma per razzi sonda del Centro spaziale Esrange a Kiruna, in Svezia, per continuare a studiare come si comportano le cellule T in assenza di peso e come ne viene influenzata la funzionalità.

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